Non pochi intellettuali hanno tralasciato di problematizzare il concetto di Europa, che pervicacemente intendono presentare come se si trattasse di una realtà culturalmente monolitica. Il mio intento in questo studio è quello di fornire al lettore alcuni spunti di riflessione intorno ad un’idea diversa, certamente più complessa e meno popolare, ma a mio modo di vedere più plausibile. L’idea è che l’Europa è invece una realtà intrinsecamente eterogenea.
È quantomeno singolare che in tutte le diffuse riflessioni sulle origini dell’Europa si taccia degli studi di linguistica indoeuropea di Francisco Villar. Dal noto e monumentale studio Los indoeuropeos y los orígenes de Europa. Lenguaje e historia di Villar emerge infatti con forza l’idea che la prima origine dell’Europa è da ricercarsi in un atto di mescolanza culturale e non di esclusione delle differenze.
Olivier Roy, ne L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose (Feltrinelli, Milano, 2019), ha osservato che oggi ad esempio accade che alcuni movimenti populisti spesso si richiamano alle radici cristiane dell’Europa semplicemente per opporsi all’Islam. Non si tratta di una lotta tra identità religiose quanto piuttosto, nota ancora Roy, una lotta tra culture diverse. Una cultura egemone, quella europea, e l’altra, quella islamica, pericolosamente infiltrata nel nostro territorio, e che rischierebbe di ledere un’identità cristiana consolidata in due millenni.
Questa ricerca della propria identità passa attraverso la costruzione di un nemico in base al quale la propria natura emerge, per contrasto, con le sue specifiche prerogative. Eppure questa modalità di esclusione sembra non far parte della vera natura dell’Europa che, invece, è una costruzione culturale pluralista e dialettica e così è stato da sempre, prima della civiltà greca e prima della stessa religione cristiana.
«Tutti noi siamo figli della mescolanza di razze», scrive Villar, e «tutti i caratteri che fanno parte di ciò che si chiama razza sono il risultato di un reiterato e complesso processo di ibridazione» (p. 92). Questo processo di ibridazione culturale, genetica e linguistica assunse ad esempio in Spagna proporzioni davvero impressionanti che i tanto pericolosi musulmani si limitarono soltanto a concludere (essi infatti iniziarono le loro incursioni in Spagna verso il VI sec. d. C., ma difatti il processo di ibridazione era già iniziato moltissimo tempo prima).
Esiste quindi un’Europa preindoeuropea, definita anche come Old Europe, che Villar definisce come «un mondo complesso, multiforme, variegato, con migliaia di anni di tradizioni, usi e religioni» (ivi, pp. 93-94). È interessante ricordare che in questo complesso scenario la religione giocava già un ruolo cruciale. A sud-est di Bucarest, in prossimità del Danubio, fu rinvenuto da archeologi rumeni uno dei templi più antichi d’Europa oltre che una serie di oggetti sacri che testimoniano l’articolata elaborazione di rituali religiosi.
È ancora avvolto dalle tenebre – e probabilmente mai si farà completamente luce a riguardo – tutto il processo di indoeuropeizzazione della Vecchia Europa. Tutte le notizie circa questo grande movimento di popolazioni che hanno finito poi per sovrapporsi a quelle che già erano stanziate nei territori della Old Europe, sono posteriori rispetto all’introduzione della scrittura che nel nostro Occidente giunse nel I millennio a. C. (ivi, p. 115). Pertanto, c’è un lunghissimo e assai articolato segmento temporale, compreso tra il IV millennio e l’inizio del I, che per noi oggi è oscuro ma che ha rappresentato, scrive suggestivamente Villar, il «grandioso processo di gestazione dell’Europa» e di «acquisizione della sua identità» (ibidem). Gli studi più accreditati oggi si basano perlopiù sulle ricerche di Marjia Gimbutas secondo la quale le antichissime popolazioni di cultura kurganica, migrando dalle steppe orientali dove risiedevano, si sovrapposero poi alle primigenie popolazioni preindoeuropee dando vita ad una complessa e relativamente omogenea – soprattutto sotto il profilo linguistico – popolazione indoeuropea. L’impulso alla formazione dell’indoeuropeo venne quindi da Oriente.
Giunti a questo punto il lettore si chiederà il perché di questi velocissimi ed estremamente sintetici riferimenti all’indoeuropeistica. Oggi noi possiamo ripercorrere a ritroso il percorso verso le nostre ancestrali origini culturali attraverso diversi percorsi (storia del pensiero, storia dell’arte, storia delle lingue). La via linguistica sembra essere una di quelle strade che ripercorse all’indietro sembra sia capace di darci maggiormente l’idea di quanto possa essere complesso il nostro passato (storico e preistorico). Lo stesso Villar spiega che «l’italiano ha lingue sorelle come lo spagnolo, il francese o il rumeno, che derivano tutte da un antenato comune, il latino; a sua volta il latino, salendo di un gradino nella gerarchia, ha lingue sorelle come il greco, il sanscrito, il germanio e lo slavo, tutte derivanti da una lingua comune più antica che è l’indoeuropeo». Alla luce di tutto ciò «sembra legittimo domandarsi se anche l’indoeuropeo abbia avuto delle lingue sorelle, quali fossero e quando sia stata parlata la lingua comune più antica dalla quale esse derivavano» (ivi, p. 643). Solo in questo modo, conclude il famoso linguista spagnolo, «faremmo un passo in avanti nella ricerca delle nostre radici» (ibidem).
Ritengo infatti che oggi la ricerca delle radici dell’Europa sia una questione fondamentalmente ideologica. La natura ideologica di questo riferimento a principi primigeni è spesso realizzata selezionando appositamente quegli elementi dei quali si vorrebbe in qualche modo tutelarne la dignità e l’imprescindibilità ma che difatti a stento potrebbero essere definiti, alla luce di una riflessione realmente critica, come europei. Da cristiano e da filosofo mi rendo conto che la ricerca di una radice cristiana o greca della cultura europea è in fondo destinata ad essere completamente disattesa. Se infatti con radice intendiamo ciò che sta alla base, ciò che sta al fondo, ciò su cui appunto qualcosa si sostiene e soprattutto grazie a cui si sostiene allora l’Europa non ha radici né greche né cristiane. Associata alla riflessione sull’Europa questa prospettiva risulta estremamente interessante e ci invita a rendere più rigoroso anche il nostro modo di esprimerci.
Io ho parlato, nelle pagine precedenti, di radici e di radice dell’Europa dando per scontato che si trattasse di una semplice declinazione terminologica priva di reale consistenza filosofica. Invece, a questo punto della riflessione, sarebbe forse più corretto rendere più rigoroso e preciso il linguaggio e parlare di radici dell’Europa. Parlare di radice, al singolare, dà l’impressione che l’Europa, quantomeno sul piano concettuale, sia debitrice della sua identità ad una sola cultura (greca o cristiana). Parlare di radici, invece, sembra essere più opportuno.
Fuor di metafora pare sia questa la reale situazione dell’Europa. Alla sua base pare ci siano più radici che restituiscono alla fine un assetto europeo di base che, con linguaggio filosofico e antropologico, potremmo forse definire come multiculturalismo intendendo con ciò che l’impianto culturale europeo – la sua essenza, per dirla in termini filosofici – è data da una natura che si è costruita attraverso continue mescolanze e sovrapposizioni.
Non soltanto, quindi, dalle steppe orientali giunsero, con ogni probabilità, le popolazioni kurganiche che rimescolarono le culture preesistenti dando origine presumibilmente alle lingue indoeuropee ma, facendo un grosso balzo temporali in avanti anche la stessa nascita della filosofia occidentale non è, in fondo, un prodotto di chiara marca europea. A voler essere rigorosi, infatti, la filosofia occidentale sorse non in territorio europeo ma sulle coste dell’Asia Minore. Mileto (a cui appartennero Talete, Anassimene e Anassimandro), ad esempio, oggi si trova in Turchia così come Efeso (la città di Eraclito). Non sono pochi coloro che hanno osservato profondi debiti della filosofia occidentale dal pensiero orientale.
Il noto filologo classico Martin L. West ha dedicato un importante studio a questo presunto rapporto (La filosofia greca arcaica e l’Oriente, Il Mulino, 1993) presentando interessanti ipotesi – peraltro suffragate da importanti argomentazioni – che ci aiutano a comprendere come i rapporti culturali, gli scambi commerciali, i rapporti tra popolazioni differenti hanno creato un sostrato dal quale evidentemente la nascente filosofia ‘occidentale’ ha in qualche modo tenuto conto.
Questo spiegherebbe quelle similitudini così vistose tra i primi filosofi occidentali e alcune correnti di pensiero orientali che altrimenti si giustificherebbero soltanto come mere – e peraltro assai improbabili – coincidenze (West, ad esempio, riconduce la teoria dell’infinito di Anassimandro alla concezione indiana dell’infinito e la teoria dell’aria di Anassimene al dio del Vento iranico). Lo stesso John Burnet, uno dei più grandi studiosi del pensiero antico a cui si deve l’opera, ancora imprescindibile, Early Greek Philosophy pubblicata a Londra nel 1892, riconosce la reciproca influenza dei greci dei tempi storici con un sostrato culturale precedente sul quale evidentemente il nascente pensiero filosofico si è innestato.
Con più spazio a disposizione avrei mostrato che finanche Pitagora e Platone fecero dei viaggi che, con il linguaggio attuale, definiremmo extraeuropei, e che segnarono profondamente le loro concezioni filosofiche. Avrei anche mostrato che la stessa religione cristiana è, come ironicamente ma puntualmente ha detto Alessandro Barbero, una religione asiatica (la Palestina e i luoghi del primo cristianesimo sono tutti asiatici o comunque medio-orientali; a questo proposito suggerito la lettura del testo di Peter Brown, La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, Laterza, 2006). Peraltro il cristianesimo si modellò dapprima sulla base della già consolidata tradizione filosofica greca e assunse sì il rango di religione ufficiale dell’Impero (Editto di Tessalonica del 380), ma convivendo pur sempre con altre correnti religiose (si pensi all’arianesimo tipico delle popolazioni barbariche). E poi ancora il Calvinismo, l’Anglicanesimo, il Luteranesimo furono tutte espressioni radicali dell’intimo pluralismo che contraddistingue anche la stessa religione cristiana.
Dobbiamo tener presente che quando parliamo di radici cristiane innanzitutto ci riferiamo ad una religione che, nonostante la sua aspirazione all’universalità, è difatti una religione di marca asiatica e che si è costruita a contatto con culture che, strettamente parlando, non possono essere considerate genuinamente europee. Inoltre dobbiamo essere consapevoli del fatto che il cristianesimo è un grande calderone al cui interno albergano sfumature tanto diverse (che peraltro hanno segnato la storia di diversi Stati), che sarebbe difficile intravedere una reale parvenza di unitarietà sufficiente a poter parlare, in modo univoco, di radice cristiana.
Accettare questa intrinseca multiformità europea significa quindi prendere le distanze dalle false concezioni che vorrebbero disegnare un’Europa pura priva di contaminazioni esterne. Questa chiaramente è un’ispirazione ideologica dalla quale faremmo bene a tenerci distanti. Sulla scia di pensieri profondi come quello di Benedetto Croce (Perché non possiamo non dirci cristiani? 1942) possiamo certamente intravedere i segni (culturali, etici, architettonici, finanche politici) della pervasività della religione cristiana, considerata soprattutto come cultura che come fede. Tuttavia, ogniqualvolta una certa radice viene esaltata o valorizzata in modo esclusivo possiamo star certi di trovarci di fronte un processo ideologico che ignora (volutamente?) l’intrinseca eterogeneità del nostro passato e la vasta ricchezza del nostro tesoro culturale.
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