“Non c’è forma propriamente detta, non c’è quasi modulazione, niente sviluppi. Come è possibile che questo brano sia così amato, quando non c’è musica?” Così parlava del suo Bolero Maurice Ravel, che non smise mai di meravigliarsi del successo universale di questa sua composizione, per lui poco più di uno scherzo.
Il padre di Maurice era un ingegnere e inventore di successo. Fra i suoi tanti brevetti ci furono uno dei primi motori a scoppio e un “giro della morte”, grande attrazione di tutti i circhi dell’epoca. La madre era una brava donna che lo familiarizzò con la musica spagnola. Insomma la famiglia, anche se non ricca, era più che civile e Maurice, che non era un bambino prodigio ma solo uno eccezionalmente dotato per la musica, ci crebbe dentro confortevolmente insieme al fratello, poi diventato ingegnere anche lui come papà.
Nel 1889 Ravel vinse il primo premio al concorso di pianoforte e fu ammesso al Conservatorio di Parigi dove andò avanti senza speciali distinzioni. Con Fauré professore che lo capiva, Ravel studiò con buoni risultati, ma gli altri colleghi del corpo insegnante dichiararono che “gli si poteva insegnare solo alle sue condizioni” e questo non piaceva all’istituto; infatti nel 1895 fu espulso.
Nel ‘97 fu riammesso ma la sua posizione era diventata scomoda per l’ostilità del direttore a cui non piaceva il suo atteggiamento progressista in musica e in politica, tanto è vero che era diventato “un bersaglio contro il quale tutte le armi erano buone”.
Nei primi anni del secolo Ravel aveva concorso per ben quattro volte al Prix de Rome, un premio di grande livello che regalava agli studenti francesi un soggiorno biennale a Roma e una promessa di fama internazionale. Tutte e quattro le volte fu rifiutato. Finalmente il bubbone esplose: venne fuori che un professore in giuria favoriva solo i propri studenti, fra cui non c’era Ravel. Il furbacchione fu costretto a dimettersi e Ravel, anche se poi non andò a Roma, ebbe la sua giustizia.
Era basso di statura, uno e sessanta, e di corporatura esile con una grande testa. Sempre elegantissimo; quando partì per la sua tournee in USA nel bagaglio aveva sessanta camicie, venti paia di scarpe, sessantacinque cravatte e venticinque pigiami. Le cravatte avevano un’importanza fondamentale nella vita di Ravel.
Ogni anno a Natale erano il regalo tradizionale dei suoi amici. Ma la faccenda non era così semplice: bisognava mettersi in tasca ritagli di stoffa dei suoi abiti per essere ultrasicuri che la tal cravatta si adattasse perfettamente alla tal giacca, altrimenti il regalo si trasformava in un insulto.
Così piccolo e magro com’era, allo scoppio della guerra chiese di arruolarsi nell’aviazione visto che qualche chilo in meno, con gli aerei dell’epoca contava, ma fu riformato perché troppo vecchio (quasi quarantenne) e forse anche perché aveva solo 76 cm di torace.
Nel 1913, insieme a Debussy era presente alla tumultuosa prima esecuzione della Sagra della Primavera di Stravinskij, e in seguito, lo stesso Stravinskij dichiarò che fu l’unico fra tutti i presenti che capì immediatamente la sua musica.
Si racconta anche che, qualche anno dopo, Gershwin chiese lezioni di orchestrazione a Ravel, il quale ci pensò su, poi rifiutò dichiarando: “E’ meglio che lei rimanga un buon Gershwin, caro amico, piuttosto di diventare un cattivo Ravel”.
Di lui come maestro dell’orchestrazione si dice che, insieme a Stravinskij sia l’unico musicista al mondo capace di conoscere “il peso di una nota di trombone, le armoniche di un violoncello o il pianissimo nella relazione fra due sezioni dell’orchestra”.
Nel 1928 Ravel partì per una lunga tournee in Usa, portandosi dietro l’elegante abbigliamento citato, con un compenso minimo di 10.000 dollari a concerto (roba da rock star), più una fornitura permanente di sigarette Gauloises Caporal.
Fu un successo clamoroso ma Ravel non ne fu particolarmente colpito. Anzi commentò che l’attuale entusiasmo dei critici non aveva più importanza dei loro primi giudizi quando lo avevano definito l’esempio più perfetto di insensibilità e mancanza di emozione.
Più o meno in quell’epoca apparve il Bolero, come abbiamo già detto un fenomeno che non finì mai di stupire l’autore. La sua biografa Jourdan – Mourange ci dà la formula che spiega perché questo brano funziona sempre, con qualunque pubblico: “Tramite la ripetizione ossessiva del tema il contagio estatico si sviluppa subdolamente nella sala e quando gli ottoni proclamano la liberazione della tonalità fino allora tenuta prigioniera, ognuno riacquista il senso di sé stesso che aveva perso”. Ma intanto sono passati diciassette minuti di magia.
Poi ci fu la polemica con Toscanini che, secondo Ravel, alla prima a New York il 4 maggio 1930, aveva diretto il pezzo troppo velocemente, sostenendo che così lo voleva il pubblico. Ravel commentò: “I direttori virtuosi sono incorreggibili: sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero”.
Nel ’32 Ravel prese un colpo in testa in un incidente stradale. Da quel momento cominciò a perdere la memoria, ad avere difficoltà a parlare, a comporre; insomma a smarrire sé stesso.
Un giorno che uno studente gli aveva chiesto un autografo, Ravel dovette pregare un amico presente di aiutarlo: non riusciva neanche più a scrivere il proprio nome! Si parlò di demenza o di alzheimer. Si tentò anche un’inutile operazione, nell’ipotesi di un tumore al cervello.
I funerali furono solenni; partecipò tutta la cultura e la politica di Francia. Senza cerimonie religiose perché Ravel era ateo.
Riposa nel cimitero di Levallois a Parigi, da semplice cittadino che aveva rifiutato tutte le onorificenze, anche la prestigiosa Legione d’Onore che il suo paese gli aveva offerto.
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Commenti
Una risposta a “RAVEL”
Gentile Stefano, ho letto con molto interesse e passione il tuo racconto sul Bolero e la vita di Ravel con riferimenti originali e non i soliti stereotipi… Sono un estimatore di Ravel al quale assomiglio per l’intolleranza delle apparenze, dei formalismi bigotti, dello sguardo visionario del futuro e della incapacità (ancora oggi a 75 anni) di credere essendomi fermato “solo” a San Francesco che è il mio riferimento. Ma apprezzo molto il suo Bolero (ma anche molta altra sua musica) per l’elemento assolutamente innovativo che trovo sia nel RITMO OSSESSIVO E RIPETITIVO che crea una continua aspettativa come IL FINALE di un brano e di una sinfonia che fa scattare l’applauso come una liberazione… Ma io preferisco il finale di Mahler dove la musica si spegne nelle tenebre dell’anima!
Con viva cordialità Dario Cusani