È per me un grande onore riadattare per il Mondo Nuovo il testo della relazione che ho presentato recentemente (17 dicembre scorso) in occasione della presentazione del libro dell’amico e collega prof. Pierpaolo Perretti. Questo volume si è rivelato un autentico scrigno di riflessioni, idee e spunti intellettuali di straordinaria ricchezza, ma sviluppare tutte le tematiche che l’autore affronta in un’unica relazione sarebbe stata un’impresa impossibile, tanto vasto è il campo di indagine che il libro esplora.
Pertanto comincio subito la mia riflessione mettendo a fuoco l’obiettivo centrale del libro di Pierpaolo Perretti, che è quello di rompere la concezione tradizionale e limitata dello studio come attività esclusivamente scolastica e istituzionale. Il titolo del libro, che potrebbe sembrare a prima vista indirizzato a una riflessione accademica tradizionale, in realtà nasconde un invito a una comprensione più profonda e sfumata del concetto di studio. Infatti basta poi approcciarsi al sottotitolo del libro (Senso, sconcerto e bellezza) per comprendere che il senso dello studio inteso da Pierpaolo ha a che fare piuttosto con dinamiche esistenziali e antropologiche che non quelle meramente scolastico-istituzionali. La prospettiva dell’autore si distacca nettamente dall’approccio convenzionale che associa lo studio unicamente alla scuola, all’università e ad altri percorsi accademici ed esplora invece la possibilità che lo studio, come attività di ricerca, riflessione e conoscenza, sia una dimensione che pervade l’intera vita di un individuo, indipendentemente dal suo percorso formativo o lavorativo. Questo è forse davvero l’invito più importante che il libro in questione pone alla coscienza critica di noi lettori.
Quello che l’autore suggerisce è quindi una vera e propria rivoluzione concettuale. Il pregiudizio che oggi permea la nostra società e, di riflesso, l’educazione scolastica, è che vi siano sostanzialmente due strade nella vita delle persone: una strada destinata agli studiosi e una destinata a chi “non è portato per lo studio”, cioè a coloro che intraprendono il cammino del lavoro, considerando questo percorso come un’alternativa all’attività accademica. Questa dicotomia, che separa l’ambito dello studio da quello del lavoro, è non solo riduttiva, ma anche ingannevole. Essa infatti ignora la ricchezza e la varietà di forme che lo studio può assumere nella vita quotidiana, rendendo la scelta tra “studiare” e “lavorare” un falso dilemma.
Il primo punto che va sottolineato in questa riflessione è che, purtroppo, l’educazione scolastica oggi non risponde più alla funzione autentica dello studio. Lo studio che si compie nelle scuole spesso non è finalizzato alla creazione di un pensiero libero, ma si traduce in un atto ripetitivo di acquisizione di nozioni, che rimangono scollegate tra loro e prive di una visione d’insieme. Le discipline vengono insegnate in compartimenti stagni, senza una reale connessione interdisciplinare che stimoli lo studente a vedere il mondo attraverso una lente più complessa e integrata. A causa di questo approccio didattico, il pensiero degli studenti rischia di diventare frammentato, limitato e privo di una vera creatività. La scuola non stimola un pensiero problematizzante e critico, ma piuttosto una memorizzazione passiva di concetti, che non trovano un’applicazione concreta né nella vita quotidiana né nelle sfide che il mondo lavorativo pone.
Il secondo errore di questa visione dicotomica è che lo studio, inteso come ricerca e acquisizione di conoscenze, non è confinato ai banchi di scuola o all’ambito universitario. Lo studio è un’attività umana che può e deve accompagnare ogni persona in ogni fase della vita, indipendentemente dal suo percorso professionale. Questo è uno degli aspetti più significativi del messaggio che Pierpaolo porta avanti: lo studio non si esaurisce nei confini del sistema educativo tradizionale, ma è un’attività che può essere coltivata e realizzata in forme diverse, attraverso la lettura, la curiosità, il confronto intellettuale. L’opera di Pierpaolo invita a superare una visione ristretta dello studio proponendo una concezione più fluida e integrata della conoscenza. Non esiste una scelta esclusiva tra lo studio e il lavoro: entrambe le dimensioni devono coesistere, con lo studio che diventa un’attività perenne, indipendente dal proprio ruolo professionale. Solo così possiamo sperare di sviluppare una cultura della conoscenza che arricchisca ogni aspetto della nostra vita, senza limitarsi a un concetto puramente accademico, ma espandendosi a un impegno quotidiano e personale.
Quando ho iniziato a riflettere sui concetti espressi da Pierpaolo, ho trovato utile fare riferimento alle quattro cause aristoteliche (materiale, formale, efficiente e finale) per indagare meglio il concetto di studio. Questo riferimento alle cause aristoteliche non è esplicitamente presente nel libro, ma mi ha aiutato a chiarire meglio i diversi aspetti che compongono l’attività di studio. Quest’attività, infatti, presenta una complessità tale che non può essere limitata all’acquisizione di sapere, ma implica una trasformazione profonda dell’individuo. A questo punto trovo utile introdurre una prima distinzione importante: lo studio non è il sapere. Lo studio è, al contrario, l’attività umana che si occupa dell’acquisizione del sapere. Chi studia, potremmo dire provocatoriamente, non è immediatamente colui che sa ma colui che si trasforma.
Pertanto quando parliamo di sapere ci riferiamo a quella che, in linguaggio aristotelico, potremmo definire come la causa materiale dello studio, in altre parole, come l’oggetto stesso su cui si concentra l’attività di apprendimento: le discipline, le idee, i concetti, i problemi. Lo studio è infatti il mezzo con cui accediamo a queste conoscenze, che diventano il materiale grezzo su cui andiamo a lavorare. Chi sa – è il caso dell’erudito del quale parla Pierpaolo – non necessariamente è colui che si è realmente trasformato, mentre chi ha studiato veramente è andato sicuramente incontro ad una metamorfosi. La vera forza dello studio, dunque, non risiede nel “sapere” ottenuto, ma nella metamorfosi che esso innesca: un passaggio che segna il divario tra chi si limita a raccogliere informazioni e chi, invece, fa dello studio una pratica che cambia la propria esistenza.
Lo studio, direi ancora in ottica aristotelica, è un’attività che ha un impatto anche sulla nostra forma, sulla nostra essenza e forse sarebbe più corretto dire che lo studio è un’attività della nostra forma, una sua realizzazione. Qui entra in gioco il secondo tipo di causa, la causa formale. Con essa intendo riferirmi al modo in cui con lo studio plasmiamo noi stessi. Con lo studio, che è un’attività della nostra forma, accediamo ad un sapere che modifica la forma stessa che con più intensità si preoccupa poi di continuare la sua realizzazione in un circolo virtuoso infinito. Se avessi avuto più tempo a disposizione, avrei desiderato approfondire ulteriormente questo tema, ma tenterò comunque di gettare le basi per una riflessione che mi sembra di fondamentale importanza. Quando ci riferiamo al concetto di “forma”, o “essenza”, nel contesto della nostra riflessione, ci riferiamo a quello che Aristotele definisce come la causa formale, ossia quel principio che rende gli enti, compreso l’uomo, ciò che sono. La forma è, in tal senso, il principio metafisico che determina l’identità di ogni cosa, conferendole il suo essere specifico e unico.
Riflettere sulla nostra essenza, interrogarsi sul nostro essere, significa dunque entrare in contatto con questo principio fondamentale, che sta alla radice del nostro esistere. La nostra identità, infatti, non si riduce mai a ciò che mostriamo superficialmente; essa affonda le sue radici in una causa più profonda, che non è un mero dato esistenziale, ma è ciò che rende possibile il nostro essere in quanto tale. Quando ci interroghiamo su chi siamo, su cosa ci definisce, siamo in dialogo con questa causa che va oltre la nostra semplice esistenza, ma che la rende tale.
Lavorare su questo principio, quindi, non significa solo riflettere sul nostro essere, ma toccare quella dimensione ontologica che è il fondamento stesso di ciò che siamo. In questo senso, l’atto dello studio si configura come un’operazione che non si limita ad un arricchimento intellettuale, ma tocca la struttura più profonda del nostro essere. In altre parole, lo studio è un’attività che agisce formalmente sulla nostra natura, indirizzando la nostra essenza e plasmando la nostra identità. Il sapere che acquisisce forma nel nostro spirito non è mero contenuto: esso ha il potere di trasformarci, di riplasmarci, di orientare il nostro spirito verso una dimensione più alta e più completa del nostro essere. La trasformazione, che è il verbo centrale in questa riflessione, implica proprio l’azione sulla forma. Trasformare è innanzitutto dare forma, e questa forma non è un semplice modello esterno che noi recepiamo passivamente, ma un atto che agisce su di noi e che ci rinnova in maniera profonda. Lo studio, dunque, non è solo un mezzo per acquisire informazioni, ma un cammino che opera sulla nostra essenza, modellandoci attraverso il sapere. In questo processo, il sapere non è mai fine a se stesso, ma si configura come la causa materiale della nostra trasformazione interiore, mentre la vera finalità dello studio è quella di permetterci di divenire ciò che siamo chiamati a essere, nel pieno della nostra umanità.
In questo senso, lo studio non è erudizione, ma una forma di arte interiore, che plasma e rinnova l’uomo nella sua essenza più profonda. A questo proposito vorrei entrare nel merito del nono capitolo del libro di Pierpaolo dedicato alla Parola. In esso l’autore ci invita a riflettere su un aspetto profondamente significativo del nostro rapporto con il testo. Egli afferma che l’incontro con il testo che stiamo per leggere non è un incontro casuale o passivo, ma un incontro “con un sistema di creazione”, un’occasione in cui ci mettiamo in dialogo con qualcosa che ha la potenza di trasformarci, di plasmarci, proprio come un’opera d’arte che prende forma attraverso l’interazione con l’artista. Questo concetto di “sistema di creazione” sottolinea come il testo non sia mai una realtà statica, un oggetto isolato, ma una forza dinamica, capace di generare significati e influenzare chi lo fruisce.
A questo punto, Pierpaolo amplia la sua riflessione, rifiutando l’idea che il testo possa essere ridotto a un oggetto inutile o trascurabile. Esso non è, infatti, “un vaso inutile”, un semplice “soprammobile dimenticato”, ma è piuttosto paragonato al vasaio che, con mano esperta, “ha in mano la mia persona”. Con questa potente metafora, Pierpaolo ci invita a considerare il testo come una forza viva, che, a condizione che lo studioso sia disposto a farsi plasmare, esercita una vera e propria azione trasformativa su di noi. La parola scritta, quindi, non è un’entità neutra che passa inosservata, ma è una realtà attiva, capace di incidere sulla nostra esistenza.
Le parole che leggiamo, meditiamo e ascoltiamo non sono destinate a svanire nel nulla: esse vanno ad occupare uno spazio profondo dentro di noi, e, come sostiene Pierpaolo, si vanno a costituire come “fibra del nostro essere”. Questo concetto rimanda a una visione della parola come principio che plasma la nostra identità, che in qualche modo entra nel nostro corpo e nella nostra mente, rendendo possibile una trasformazione ontologica della nostra persona. A questo proposito, Pierpaolo fa riferimento al celebre versetto evangelico di Giovanni: “La parola si fece carne” (Gv 1,14), un versetto che, lungi dall’essere un semplice simbolo religioso, assume una valenza concreta e realistica. La parola, dunque, diventa carne, si incarna, non solo come segno o simbolo, ma come forza viva che entra in noi e ci trasforma.
A supporto di questa tesi, Pierpaolo cita l’Encomio di Elena di Gorgia, un testo antico ma di straordinaria attualità, nel quale si dice che “la parola è un grande sovrano, che con un corpo minuscolo e invisibile compie le imprese più divine. Ha il potere di fare smettere la paura, eliminare il dolore, infondere gioia, aumentare compassione”. La parola, quindi, secondo questa prospettiva, è una forza potente, capace di agire su di noi in maniera profonda, di rimodellare la nostra esperienza, di dare nuova forma alla nostra vita.
Queste riflessioni, così ricche di valore filosofico e spirituale, non sono solo una conferma dell’azione formale dello studio, ma preannunciano anche una visione che si sta ormai consolidando in ambito scientifico, in particolare nella neurobiologia. Le scoperte moderne sulla plasticità cerebrale, infatti, ci raccontano una storia che non è affatto lontana dalle intuizioni filosofiche che Pierpaolo ci offre. Oggi, la neurobiologia ci insegna che il cervello, lungi dall’essere un organo rigido e immutabile, è un sistema dinamico, capace di essere plasmato e riorganizzato durante tutta la vita, attraverso le esperienze che viviamo. In particolare, alcune aree cerebrali, come le zone frontali e temporo-parietali, sono considerate plastiche, nel senso che si riorganizzano continuamente attraverso le attivazioni metaboliche generate dalle esperienze significative che viviamo. E tra queste esperienze, lo studio, come afferma Ian H. Robertson nel suo celebre testo Mind Sculpture, riveste un ruolo di primaria importanza. Robertson, nel capitolo intitolato “Se non lo usi, lo perdi”, spiega come lo studio non solo stimoli la mente, ma contribuisca a rimodellare il cervello stesso, incidendo in modo positivo sul nostro benessere mentale e fisico. È stato dimostrato, ad esempio, che l’attività intellettuale costante, e in particolare lo studio, ha un impatto positivo sulla prevenzione di malattie neurodegenerative, come il morbo di Parkinson.
In questo modo, ciò che Pierpaolo scrive riguardo alla trasformazione che lo studio opera su di noi trova una conferma straordinaria nelle scoperte della scienza moderna. La parola che leggiamo, meditata e interiorizzata, è una vera e propria forza che agisce sul nostro essere più profondo, ma non solo in senso filosofico o spirituale. Essa agisce anche sul nostro corpo, sul nostro cervello, rimodellandolo, riplasmandolo, rendendo possibile una continuità tra la dimensione metafisica e quella biologica della nostra esistenza. Lo studio, in questo senso, non è solo un’attività intellettuale: è un atto di formazione del nostro essere, un processo che si radica profondamente sia nella nostra mente che nel nostro corpo, con effetti che attraversano ogni aspetto della nostra vita.
Per comprendere pienamente l’attività dello studiare, però, non è sufficiente però far riferimento al materiale grezzo (il sapere) e all’esito che tale acquisizione ha su noi stessi, sulla nostra forma (la nostra essenza). Esiste anche una causa efficiente, che riguarda l’attività stessa che compiamo per acquisire il sapere. Lo studio è, in fondo, l’azione che noi intraprendiamo per imparare, il processo attraverso cui passiamo dalla conoscenza potenziale a quella effettiva. Senza questa azione di apprendimento, il sapere rimarrebbe sterile, inaccessibile. Lo studio, quindi, possiede una certa energia che mette in moto la nostra trasformazione, e tale energia è l’amore al quale Pierpaolo dedica il secondo capitolo del suo libro. L’amore per lo studio è assai complesso e a tratti sembra esibire una natura contorta e poco chiara. Pierpaolo lo esprime magnificamente sottoforma di paradosso: “la conoscenza aumenta per amore, ma al contempo l’amore può crescere solo in virtù di un’intensificazione della conoscenza dell’oggetto”. Per amare lo studio dobbiamo conoscere, ma per conoscere realmente dobbiamo amare. Come si esce da questo circolo ricorsivo? Facendo riferimento alla virtù della pazienza. Ecco le parole di Pierpaolo, illuminanti e pregnanti: “In un certo senso, possiamo dire che se vogliamo avvertire questo amore nel nostro studio, dobbiamo darci tempo, essere pazienti, attendere che la conoscenza stessa dia nutrimento” (p. 25). In una società digitale che offre continuamente stimoli immediati e frammentati, questa pazienza sembra diventare una virtù quasi perduta. La velocità e la frammentazione dell’informazione digitale, che permeano ogni aspetto della nostra vita quotidiana, hanno introdotto una nuova modalità di accesso alla conoscenza: il sapere non è più una costruzione coesa e organica, ma è disintegrato in piccoli frammenti che si consumano velocemente. Questo approccio ha avuto effetti profondi sul nostro modo di leggere e studiare: la lettura analitica e meditativa, che richiede tempo e concentrazione, sembra essere sempre più difficile da mantenere. Con l’avvento della digitalizzazione, la frammentazione del sapere è diventata una delle caratteristiche distintive della nostra epoca. L’accesso istantaneo alle informazioni ha trasformato il modo in cui leggiamo e studiamo. Le letture non sono più continuative, ma si interrompono continuamente per essere interrotte da altre fonti, collegamenti o notifiche. Ciò ha portato alla nascita di un “sapere granulare”: piccole particelle di informazioni che vengono assorbite rapidamente e facilmente, ma senza la profondità che caratterizza il sapere complesso e integrato. Ogni frammento di informazione è più facilmente memorizzato e condiviso, ma la capacità di sintetizzare, connettere e riflettere su di esso viene indebolita. La digitalizzazione, in un certo senso, ha quindi accelerato i tempi dello studio, ma lo ha fatto a spese della qualità del processo stesso. La lettura è diventata veloce e frammentata, e con essa è venuta meno la pazienza che caratterizza una lettura meditativa e riflessiva. Se il sapere è ridotto a frammenti di dati, l’attività dello studio diventa un continuo passaggio da un’informazione all’altra, senza mai fermarsi a riflettere. La digitalizzazione ci offre una quantità infinita di dati, ma lo studio vero, quello che modifica l’individuo, richiede un tempo più lungo, che non può essere frantumato in piccole particelle. Questa tensione tra la velocità digitale e la lentezza necessaria per un pensiero profondo è oggi una delle sfide maggiori per chi si dedica allo studio. Non basta più avere accesso immediato a qualsiasi tipo di sapere. La vera sfida è ritrovare il tempo per pensare, per meditarvi sopra, per farlo diventare una conoscenza che non è solo accumulo di dati, ma comprensione. In altre parole, mentre la digitalizzazione offre un sapere frammentato e veloce, lo studio autentico richiede un tempo che è diametralmente opposto alla frammentazione: un tempo che permette di comprendere, di assaporare e, soprattutto, di trasformarsi.
Il tempo tuttavia scorre e vorrei affrettarmi ad indagare, sempre in ottica aristotelica, anche la causa finale dello studio, vale a dire ciò che riguarda il fine di questa complessa attività: qual è quindi lo scopo ultimo dello studio? In realtà vi sono diverse risposte che sarebbe possibile dare a questa articolatissima domanda. Per ragioni di tempo, e sulla base del libro di Pierpaolo al quale comunque mi attengo come riferimento principale, ho scelto di indagare soltanto uno degli innumerevoli percorsi che questa domanda ci prospetta. Ebbene questa risposta che ho scelto di dare potrebbe esprimersi sinteticamente in questa affermazione: lo studio è l’attività umana che ci consente di stare consapevolmente nella cultura.
C’è da dire che il capitolo che Pierpaolo dedica al tema della cultura e della libertà si staglia come uno degli aspetti più significativi e illuminanti dell’intero testo, tanto è fondamentale l’importanza e la profondità delle riflessioni che esso contiene. È un tema che meriterebbe di per sé una trattazione esclusiva, vista la sua rilevanza e la ricchezza delle implicazioni filosofiche, sociologiche e antropologiche che si intrecciano in questa riflessione.
Il termine “cultura” è profondamente polisemantico. Banalmente, la cultura potrebbe essere intesa come l’insieme delle conoscenze acquisite da un singolo individuo, ma tale interpretazione risulta assolutamente insufficiente a cogliere la vastità e la complessità del fenomeno culturale. Quando affermiamo che una persona è “acculturata”, ci riferiamo, in effetti, a un ampio patrimonio di sapere, ma tale visione è riduttiva, limitata e, per così dire, monodimensionale. Cultura, infatti, non è solo una questione di conoscenze: è un universo ben più articolato e sfaccettato.
Nella sua accezione più ampia, cultura comprende l’insieme di valori, pratiche, consuetudini, linguaggi e simboli che definiscono una determinata società. Essa è il reticolo di significati, tradizioni e credenze che orientano la vita quotidiana, che danno forma e struttura alla percezione e all’interpretazione del mondo da parte di un gruppo sociale. Cultura, quindi, non è un attributo che appartiene unicamente all’individuo, ma un fenomeno collettivo, un prodotto storico-sociale che si radica nel contesto storico, geografico e politico in cui un individuo nasce e cresce.
In tal senso, Pierpaolo fa riferimento a un apologo che esemplifica mirabilmente questa condizione ontologica dell’uomo, che è in qualche modo “gettato” in una cultura che gli è sempre preesistente. Il racconto dei due giovani pesci che, incontrando un pesce più anziano, si interrogano su «cos’è l’acqua?» dopo che quest’ultimo ha chiesto loro «Com’è l’acqua?» è un simbolo potente di quella che potremmo definire la “cultura invisibile”. Come i pesci non sono consapevoli dell’acqua che li circonda, così noi siamo immersi nella cultura che ci condiziona senza esserne pienamente coscienti. Tale cultura, nel suo carattere pervasivo e invisibile, è l’orizzonte stesso della nostra esperienza, il luogo dove tutto ciò che siamo e pensiamo prende forma.
È, come affermato da Heidegger, il “mondo” nel quale siamo “gettati”, la struttura profonda dell’essere che definisce i contorni del nostro pensiero e delle nostre azioni. Così come i pesci non possono percepire l’acqua che li circonda, allo stesso modo noi siamo immersi nel “mare” della cultura senza esserne pienamente consapevoli. Essa è l’orizzonte concettuale nel quale siamo gettati, come ci ricorda in qualche modo Heidegger, e dal quale, in certo modo, siamo anche assoggettati.
Acculturarsi, pertanto, non significa semplicemente accrescere il proprio sapere in senso stretto, ma implica un processo più profondo di appropriazione critica di questo “universo di senso” che ci circonda. La cultura è un contesto di significati e pratiche che non sono dati in modo esplicito, ma che si trasmettono attraverso gesti, tradizioni, riti, linguaggi. Acculturarsi vuol dire, allora, fare propri questi significati impliciti, portandoli alla luce, rendendoli espliciti e, al contempo, interrogandoli criticamente. Si tratta di un processo che implica una riflessione e una decodifica continua del sistema complesso di linguaggi, consuetudini, credenze, valori e idee che caratterizzano una determinata epoca storica e un determinato contesto socio-politico.
Questo approccio critico alla cultura, come sottolinea Pierpaolo, è fondamentale, poiché la cultura non è solo un patrimonio da acquisire, ma un territorio da esplorare, da comprendere, da decifrare e, soprattutto, da trasformare. In un contesto di libertà, la cultura si presenta come l’elemento in grado di alimentare la nostra capacità di pensare, di agire, di reinterpretare il mondo, ma al contempo, come una forza che può anche limitarci se non se ne acquisisce consapevolezza. Così, l’incontro con la cultura non è solo un processo di appropriazione passiva, ma anche di rivisitazione critica e di rinnovamento continuo. La cultura, dunque, non è un dato statico e immutabile, ma un campo di tensione in cui libertà e condizionamenti si intrecciano incessantemente.
Il capitolo che Pierpaolo dedica al tema della cultura e della libertà si inserisce in una riflessione che affonda le radici in un concetto profondo e ampio di studio, come attività umana che non si limita alla mera acquisizione di informazioni, ma che implica la formazione dell’individuo nella sua interezza. Questa riflessione si può ulteriormente approfondire prendendo in considerazione la lettura che l’analitica esistenziale heideggeriana offre sulla condizione dell’uomo nel mondo. Infatti, la visione dell’uomo come “essere-nel-mondo”, proposta da Heidegger in Essere e tempo, risulta particolarmente utile per esplorare le implicazioni della relazione dell’individuo con la cultura e la libertà. Laddove, in una prospettiva tradizionale come quella kantiana, si immagina l’uomo come un “occhio sul mondo”, un soggetto disincarnato e astratto che si confronta con il mondo per comprenderlo e agire su di esso, Heidegger ribalta completamente questa visione. L’uomo, o meglio l’“Esserci” (in tedesco Dasein), non è mai un soggetto che si stacca dal mondo per osservare o giudicare in modo distaccato. Al contrario, l’Esserci è sempre già immerso nel mondo, è “gettato” in una situazione che non può separarsi dalla sua concreta esperienza affettiva, storica e culturale.
Nel suo Essere e tempo, Heidegger introduce il concetto di Befindlichkeit, che traduciamo in italiano con “situazione affettiva”, per indicare quel particolare modo in cui l’individuo si trova, sempre in modo originario e primario, in relazione al mondo. La cultura e la società, dunque, non sono un “oggetto” neutro da acquisire e comprendere razionalmente, ma sono il contesto emozionale e storico che già qualifica l’esperienza del soggetto. L’uomo non è un osservatore disinteressato del mondo, ma vi si trova immerso, partecipando a una situazione che lo condiziona, che lo forma. In altre parole, il mondo ci appare sempre alla luce di una “disposizione emotiva”, come scrive Vattimo, e questo spiega perché l’Esserci non può mai essere considerato un’entità distaccata o un semplice ricettore di informazioni. La sua affettività, la sua collocazione nel mondo, sono sempre intessute con il contesto in cui vive, e le sue risposte al mondo sono, almeno inizialmente, irriflesse e acritiche.
Questo punto è essenziale per l’analisi che Pierpaolo sviluppa nel suo libro: lo studio è, in un certo senso, un atto di “rientro” in quella “disposizione emotiva” e storica, una presa di coscienza del mondo che ci accoglie e ci condiziona. L’individuo, attraverso il processo di studio e di riflessione critica, può risvegliarsi dalla sua partecipazione irriflessiva e acritica alla “mentalità pubblica”, che è il regno dell’impersonalità del si – quella modalità in cui il mondo appare come un insieme di “cose che si dicono e che si fanno”, una sequenza di convenzioni non interrogate, di pregiudizi che non vengono mai messi in discussione.
Heidegger, con la sua analitica esistenziale, ci invita a comprendere che l’uomo, essendo storicamente situato, è sempre già “nella cultura”, ma ciò non implica che la sua condizione sia fatalmente determinata dalla cultura. Piuttosto, l’analitica dell’“Esserci” ci mostra come la comprensione originaria del mondo e della nostra cultura non sia mai neutra, ma affettivamente connotata. L’uomo si trova in un orizzonte di significati che sono pre-comprensioni, ovvero interpretazioni che non sono il frutto di un’analisi riflessiva, ma che lo costituiscono come individuo. La libertà, dunque, non consiste nell’affermare una soggettività pura e astratta, ma nel fare emergere una consapevolezza critica di quelle pre-comprensioni e di quelle inclinazioni irriflesse che costituiscono il nostro essere-nel-mondo.
Il processo di studio, in questo contesto, può essere visto come un atto liberatorio, nel senso che attraverso la riflessione e l’approfondimento si passa dalla partecipazione irriflessiva alla cultura e alla società a una comprensione consapevole della propria condizione storica e culturale. L’uomo non è mai completamente estraneo alla cultura che lo circonda, ma attraverso lo studio e la riflessione può liberarsi da quella modalità passiva e inconscia di esistenza che Heidegger definisce inautentica. L’individuo che si impegna nello studio diventa consapevole di sé, della sua finitezza, del suo essere storicamente situato, e della sua possibilità di agire in modo autentico, superando la mentalità anonima e predefinita del “si” che costantemente lo invita a conformarsi.
In questa chiave, l’approfondimento del capitolo di Pierpaolo sullo studio come processo di maturazione globale dell’uomo trova una connessione profonda con la filosofia heideggeriana, in particolare con la sua analitica esistenziale. Se, infatti, l’Esserci è sempre “gettato” nel mondo, la sua libertà non sta nel semplice rifiuto della cultura che lo affetta, ma nella possibilità di assumere una posizione critica nei confronti di ciò che lo qualifica, e di scegliere consapevolmente il proprio essere-nel-mondo. Lo studio, in questa ottica, non è un fine in sé, ma una via di liberazione, una possibilità di risignificare il mondo e, con esso, se stessi.
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