(prima parte) Oggi Rino Gaetano, il mitico cantautore crotonese, se non avesse incontrato quel maledetto camion Fiat 650 D sulla corsia opposta alla sua sulla via Nomentana di Roma, alle 4 del mattino del 2 giugno 1981, ma soprattutto, se non fosse stato rifiutato da ben cinque ospedali, sarebbe un ultrasettantenne, essendo nato il 29 ottobre 1950. Troppi sono i “se” e Rino non c’è più da tanto tempo.
Ho avuto con lui una storia di amicizia e professionale, quindi lo voglio ricordare raccontando anche l’ambiente nel quale si è formata ed è esplosa la sua particolare personalità artistica.
La sua morte tragica e prematura ce lo ha consegnato – a distanza di oltre quarant’anni – mito trasversale dei nostri tempi, apprezzato soprattutto dalle nuove generazioni, che conoscono a memoria e cantano le sue canzoni.
Nei primi anni ’70 ero un assiduo frequentatore del Folkstudio, quando da Via Garibaldi si spostò a Via Gaetano Sacchi, sempre nel rione Trastevere, quando Giancarlo Cesaroni lo rilevò dal fondatore Harold Bradley, artista pittore e musicista.
Il locale era un cantinone con ampi spazi (probabilmente un ex magazzino o bottegone di artigiano) dove c’era un grande ingresso ed una bella sala piena di vecchie sedie con il palco per esibirsi. Un luogo assolutamente grezzo e spoglio, come si voleva all’epoca, dove la sostanza prevaleva sull’estetica. Pareti ricoperte di iuta, tavolacci di legno per bere e panche sconnesse per sedersi. Sedie impagliate, faretti, manifesti alle pareti di artisti di riferimento, compreso Bob Dylan che vi si esibì nel 1962 di passaggio a Roma per andare a trovare la sua ragazza a Perugia. Si racconta che quella sera c’erano non più di 15 persone… ma questa è storia conosciuta, anche se incredibile.
C’era una programmazione che combinava Jazz e musica Folk, cantautori esordienti e jazzisti che si esibivano per poco o nulla, mentre gli spettatori pagavano solo millecinquecento lire, consumazione compresa. Tutti eravamo quegli spettatori o quei protagonisti di volta in volta.
Al Folkstudio ebbi l’opportunità di suonare con molti artisti solo per il gusto ed il piacere di esserci anch’io, e non certo per le paghe che, come si diceva, scarseggiavano alquanto. Non esisteva a Roma, e nemmeno in Italia, un altro locale così ricco di speranze artistiche e politiche, pieno di energie nuove e rivoluzionarie. Vide prima un cambio di sede, poi un lento declino col cambiare degli eventi, soprattutto quelli legati ai grandi cambiamenti sociali e alla politica, che lo portarono a chiudere i battenti definitivamente. Forse fu solo il famoso “pescivendolo” che abitava sopra al locale a via Sacchi, personaggio e spauracchio mitico evocato ogni volta da Giancarlo Cesaroni per farci abbassare il volume della musica, che si diceva fosse in causa con Giancarlo (“Aoh, rega’, abbassate gli strumenti sennò il pescivendolo s’incazza e ce fa chiude!”)
Roma in quel momento sembrava essere diventata il centro della discografia italiana, brulicava di iniziative e di personaggi più o meno strampalati in cerca di fortuna e visibilità, studi di registrazione, e la grande mamma RCA pronta ad accogliere, sperimentare, lanciare o buttare via.
Sempre nei primi anni ’70 eravamo uno sparuto gruppo di musicisti esordienti che cercavano opportunità lavorative (Roberto Conrado, Luigi Lopez, Loredana Bertè e la sorella Mia Martini, Renato Zero, Amedeo Minghi, Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Mimmo Locasciulli etc). Suonavo nei concerti con Romano Mussolini e Tony Scott, ma mi piaceva anche molto la musica pop ed avevo il pallino di diventare un turnista in sala di registrazione. L’opportunità ci venne data dall’apertura di una di queste, lo “Studio 38” a via Guido Banti, nel quartiere chic di Vigna Clara, con annessi gli uffici di una nuova etichetta discografica, la Apollo Records di Vianello (con il quale mi esibivo in tour) e Califano.
Fortuna volle che l’altra parte degli uffici venne occupata dalla IT di Vincenzo Micocci (…Vincenzo io t’ammazzerò/ perché sei troppo stupido per vivere/ gli cantava “gentilmente” Alberto Fortis, per essere stato da lui rifiutato come artista…) Personalmente mi sentii in un ventre di vacca, perché iniziai ad essere chiamato a suonare da tanti artisti. Infatti esordii con Francesco De Gregori (Alice non lo sa) proseguendo con Amedeo Minghi (album omonimo), Edoardo De Angelis, Renato Zero (No mamma, no, però nei grandi studi dell’RCA, dalla quale sia la It Dischi Italia che la Apollo Records erano distribuite), Rino Gaetano (I Love You Maryanna) che produssi anche artisticamente insieme ad Antonello Venditti.
Ma anche tanti altri come: Edoardo e Stelio (Lella), Daniela Goggi, I Vianella (Semo Gente de Borgata) etc. Insomma, quegli uffici e quella sala di registrazione erano il fulcro dell’attività di molti giovani musicisti esordienti.
Ovviamente, considerate le giovani età e l’inesperienza, le sessioni per incidere i dischi spesso erano totalmente disorganizzate. Ricordo il primo giorno che ci riunimmo per registrare “Alice non lo sa”, nella più assoluta ingenuità eravamo solo in tre: Francesco De Gregori, il fonico dello studio Aurelio Rossitto e il sottoscritto col suo basso Fender Precision. Dissi a Francesco che sarebbe stato meglio chiamare qualcun altro, un batterista e un chitarrista.
Feci un po’ di telefonate e nel pomeriggio si presentarono Massimo Buzzi e Jimmy Tamborrelli, due “turnisti” che in quel periodo erano molto apprezzati, quindi potemmo iniziare a lavorare sui brani.
Si dà il caso che spesso non ci fossero direttori musicali o arrangiatori per le ragioni più disparate, budget bassissimi o scarsa conoscenza del corretto modo di lavorare, e ognuno di noi si prodigava ad organizzare la ‘session’ e a dare il suo contributo creativo sulle canzoni proposte dall’Artista.
Spesso scrivevo le partiture per gli altri musicisti ed inventavo l’arrangiamento, senza che questo fosse riconosciuto economicamente e dichiarato nei crediti del disco.
Ma si era agli inizi, e in quel periodo di esordi funzionava così…
dove si vede Rino Gaetano cantare una canzone (“Cielito Lindo”) con il gruppo nel quale suonavo anch’io (camicia verde e bombetta sulla testa).
Rino venne un giorno in questo cenacolo artistico in compagnia di Antonello Venditti, mio amico del tempo. Antonello era anch’egli carico di progetti e di voglia di emergere, con i suoi brani a metà tra la musica dei miti popolari romani e romaneschi, e un nuovo linguaggio che attraversava la cultura delle battaglie universitarie del ’68, quelle dei figli della cosiddetta borghesia “illuminata” di cui era un tipico esponente (la mamma professoressa al pregevole liceo Giulio Cesare e il padre vice prefetto).
Tra di noi si era creata simpatia e stima e ci frequentavamo spesso, in giro per locali, o passando insieme le festività natalizie, tra casa mia al Colosseo e la sua a corso Trieste. Aveva appena inciso il 45 giri “Roma Capoccia” per la IT, e cominciava ad avere un buon successo.
Anche il mio nome di bassista e arrangiatore iniziava a circolare in quel momento, quindi Antonello mi propose di lavorare insieme al progetto di un 45 giri di Rino. E’ storia divertente l’incontro tra Vincenzo Micocci e Rino Gaetano il quale, preoccupato per le sue scarse qualità di interprete e per la sua voce roca e sgranata, si portò dietro un altro ragazzo dicendo a Micocci: “ Lui è il cantante e io scrivo le canzoni perché non so cantare”.
Non ero presente a quell’incontro ma sembra che Micocci gli rispose malissimo e lo obbligò a interpretare lui le sue canzoni, come si conviene ad un vero cantautore. E fu così che Vincenzo ci autorizzò ad entrare in sala di registrazione.
Ci avvalemmo della consulenza di Aurelio Rossitto, il fonico dello Studio 38 e proveniente dalla scuola della RCA, e lo coinvolgemmo nella realizzazione. Infatti I love you Maryanna/Jacqueline, 45 giri di Kammamuri’s – Rino Gaetano, esce prodotto da RosVeMon, che poi sarebbe l’acronimo di Rossitto-Venditti-Montanari.
Chiamammo a suonare alcuni musicisti ed il coro delle Babayaga, un gruppo di promettenti ragazze della RCA che all’epoca si prestavano per fare le coriste in molti lavori di artisti in scuderia.
Organizzai l’arrangiamento del brano (il lato B, “Jaqueline”, era già realizzato), suonai il basso e le chitarre e Venditti il pianoforte. Antonello portò anche uno zampognaro che veniva per le feste di Natale dal “vini e oli” sotto casa sua e gli facemmo suonare la zampogna, peraltro stonatissima che entra ed esce ogni tanto dal missaggio, e molti credono si tratti di un arcaico sintetizzatore.
C’era un’atmosfera divertita e surriscaldata. Si scherzava e si rideva molto e Rino era straordinariamente naïf e simpatico, come sempre. Sinceramente non sapevo perché si volesse chiamare Kammamuri’s piuttosto che Rino Gaetano, ma doveva essere una delle sue piccole follie, o un amore sviscerato per Salgari e le sue fantastiche storie dei mari del sud.
Rino restò fermo un po’ di tempo per scrivere e riflettere dopo quel primo 45 giri. Non ebbe molto successo nemmeno il seguente Lp “Ingresso Libero” e dovette aspettare il grande colpo di “Ma il cielo è sempre più blu” del 1975 per affermarsi definitivamente. Nel 1978 andò in Messico con Giacomo Tosti, dove la RCA aveva inaugurato i nuovi studi e servivano personaggi noti per reclamizzarli, e ritornò con “Ahi Maria” brano di punta del suo 33 giri mexican-mariachi molto divertente.
Volle fare un tour estivo promozionale l’anno successivo (1979) e mi chiese di entrare nella band. Desiderava tutti musicisti che, in qualche modo, avessero contribuito al suo successo. Alla batteria c’era Massimo Buzzi, alle chitarre Nanni Civitenga, io al basso e Rino alla chitarra acustica. Riproponemmo praticamente tutti i brani che avevano reso unico Rino, da “Berta Filava” a “Gianna”, “Ma Il Cielo è Sempre più Blu” a “Aida”, da “Mio Fratello è Figlio Unico” a “Nuntereggae Più” a “Spendi Spandi Effendi”.
Il road manager era Franco Pontecorvo, che ora abita vicino a me, sui Castelli Romani. Ogni tanto con lui, Mimì e gli altri amici stretti di Rino ci vediamo e, tra una bevuta e una mangiata, ricordiamo il Nostro Amico straordinario.
Tanti mi chiedono come fosse Rino Gaetano nella vita privata, e ognuno che lo ha conosciuto e frequentato, o che gli è stato amico, ha di lui una visione molto personale, spesso riportata sui libri che su Rino hanno scritto in molti.
Anch’io sono stato spesso contattato per raccontare Rino, ma non era difficile capire come fosse realmente.
Lui era esattamente quello che scriveva, lui era le sue canzoni, le sue filastrocche.
Rino era questo, un personaggio semplice ed ironico, tenero e spontaneo, con una gran voglia di essere in qualche modo diverso ed affermare questa diversità con la sua arte, nella quale credeva moltissimo, anche se a me sembrava, ad un primo impatto, di una semplicità eccessiva, quasi disarmante.
Poi capii che l’ironia e il nonsense, la semplicità e la spontaneità della sua scrittura, furono gli elementi combinati di una mistura esplosiva la cui detonazione è arrivata fino a noi oggi, facendo innamorare della sua musica strampalata le generazioni successive.
Il ritratto tracciato dalla miniserieandata in onda su Rai Uno nel 2007 (e poi nel 2021 per i quarant’anni dalla morte), fa di Rino un depresso e alcolista, cosa assolutamente falsa. Gli piaceva bere, ma non ricordo ai livelli che ci hanno raccontato nel film. Ho conosciuto il bravissimo attore che lo ha rappresentato così fedelmente, Claudio Santamaria, ed anche lui ha sempre sostenuto la stessa cosa, e cioè che Rino era si godereccio, ma non nella maniera distorta rappresentata nello sceneggiato Rai.
A luglio del 2009 c’è stata una serata celebrativa su di lui al Parco di S. Sebastiano, a Roma, dove è intervenuta, oltre a Giancarlo Governi con il suo Ritratto di Rino Gaetano, anche sua sorella Anna ed il gruppo di suo nipote, che fa le cover dei suoi brani. Per l’occasione ho cantato “I love you Maryanna” che, finalmente e grazie alla sorella Anna, ho saputo non fosse dedicata alla marijuana ma alla nonna Marianna alla quale Rino era molto affezionato.
Un pensiero di Richard Milella, amico scrittore e musicologo.
“Sfiorivano le Viole”, una delle più belle canzoni italiane d’amore; poiché Rino si stava rendendo conto di scrivere un piccolo capolavoro, volle autosbeffeggiarsi, inserendo a conclusione del brano una serie di onirici “non-sense” che, secondo lui, dovevano abbassare il tono lirico del pezzo ma che invece ottennero l’effetto opposto, dando allo stesso un senso di completezza e di unicità, con quel tipico marchio di fabbrica alla “Rinogaetano”, parole comunque che denotano un importante bagaglio culturale di questo mancato geometra…
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