Domenico Melidoro
Ethos Luiss Business School, Roma
La riflessione etico-politica è stata tradizionalmente poco attenta alle questioni riguardanti la disabilità e le persone disabili. La condizione di marginalità in cui la disabilità è stata relegata dagli studiosi di filosofia è tale che nel 1994 la filosofa americana Anita Silvers lamentava che, fino ad allora, le discussioni sull’uccidere e il lasciar morire fossero l’unico ambito della riflessione filosofica in cui la disabilità e i disabili avevano trovato qualche spazio. In altri termini, si parlava di disabilità solo quando vi era da stabilire quali condizioni fisiche e/o mentali fossero talmente gravi e insopportabili da rendere accettabili procedure eutanasiche per le persone disabili.
Nel corso della storia, i filosofi che si sono occupati di etica e politica hanno assunto come punto di partenza delle proprie elaborazioni un’idea di essere umano pienamente autonomo e razionale per quanto riguarda le capacità intellettive, e in perfetta salute per quanto riguarda le condizioni fisiche. Una visione siffatta di essere umano ha costituito la normalità, e qualunque allontanamento da questa condizione è stato considerato come mancanza, deficit, privazione, assenza, difetto, sofferenza. Chiunque non fosse conforme alla nozione standard di essere umano rappresentava dunque anormalità, malattia, disabilità appunto. In un quadro teorico del genere la normalità – entro i limiti del possibile – deve essere ripristinata mediante cure mediche, processi riabilitativi, ecc. Si tratta di un processo di ‘normalizzazione’ in cui le peculiarità della disabilità e le esperienze in prima persona dei disabili vengono trascurate e finiscono per non essere adeguatamente concettualizzate.
Negli ultimi decenni, tuttavia, la disabilità ha conquistato una certa presenza nel dibattito accademico etico-politico, divenendo sempre più un oggetto di studio meritevole di riflessione sistematica. Vi sono perlomeno due approcci.
Il primo, di gran lunga più diffuso, considera la disabilità in maniera per così dire posticcia. I teorici che seguono questo primo approccio cercano di rendere conto della disabilità e delle questioni a essa connesse a partire da teorie già ampiamente sviluppate come, per esempio, il contrattualismo, l’utilitarismo, il marxismo, il kantismo, ecc. Così facendo, la disabilità appare innanzitutto come un’eccezione, un accidente, una circostanza sfortunata, e la teoria deve farvi fronte impiegando quegli strumenti teorici cui fa ricorso quando ci si trova in condizioni standard (‘normali’).
Per fare un esempio, il principio utilitarista della massimizzazione della felicità collettiva va applicato sia alle persone sane sia ai disabili, e lo sforzo teorico tipico dell’utilitarismo consiste nell’elaborare una visione coerente ed egualitaria in cui il benessere di ciascuno venga adeguatamente preso in considerazione. Tuttavia, questo approccio, sebbene costituisca un primo passo verso la comprensione della natura specifica dei problemi teorici e pratici posti dalla disabilità, non si allontana dalla tradizione nella misura in cui non mette in discussione l’idea di soggetto morale come agente pienamente razionale ed autonomo che ne è alla base.
Ben più promettente ci appare un secondo approccio, che discute di disabilità in modo diretto. Alcuni aspetti tipici della disabilità come la dipendenza, la vulnerabilità, e la centralità delle relazioni personali, sono per così dire a monte della teoria. Non sono dunque una circostanza da considerare dopo che la teoria sia stata sviluppata in riferimento a circostanze assunte come date, normali. La disabilità, se presa sul serio e analizzata in tutte le sue peculiarità, mette in discussione molte delle categorie concettuali che il pensiero etico-politico tradizionale dà per scontate, a partire da quella di giustizia e di essere umano.
«I disabili – qualsiasi parola per definirli è insufficiente, inadeguata – sono una maggioranza nascosta: nonostante le machine e le protesi intente a provare che la morte non esiste, quasi tutti con il tempo perderemo un super potere, che sia la vista, un braccio o la memoria. L’incapacità di fare cose che dovremmo saper fare, l’impossibilità di vedere, sentire, ricordare o camminare non è un’eccezione quanto una destinazione. Diventiamo tutti disabili, prima o poi». Così si legge ne La straniera, un romanzo del 2019 di Claudia Durastanti. Se la disabilità non è una condizione eccezionale, ma una possibilità che riguarda tutti gli esseri umani in differenti momenti della propria vita, oppure in alcuni casi una vita individuale dall’inizio alla fine, anche la riflessione etico-politica dovrà fare i conti con questa circostanza e ripensare alcune le sue nozioni di base.
Riteniamo che la disabilità, se presa sul serio, spinga il pensiero etico-politico a ridefinire il concetto di essere umano. La visione dominante di essere umano fa propria l’idea che il modo in cui un individuo deve essere trattato sia determinato a partire dalle sue caratteristiche particolari. La capacità di provare piacere e dolore, l’autocoscienza, la razionalità, l’agency, sono tra le proprietà intrinseche a cui si fa riferimento. Questa visione però non tiene conto e distorce alcuni aspetti della vita morale ordinaria. Quando vediamo una persona sottoposta a un trattamento degradante o che subisce un abuso, non dovremmo chiederci soltanto se sia consapevole o cosciente dell’offesa ricevuta. Per esempio, se in una struttura assistenziale per persone gravemente disabili dal punto di vista cognitivo trovassimo un uomo seminudo, abbandonato in un angolo a consumare il proprio pasto, potremmo ragionevolmente affermare che costui è vittima di un trattamento degradante indipendentemente dal fatto che sia o meno consapevole del modo in cui viene trattato.
C’è bisogno quindi di una nozione di essere umano che tenga presente che la vulnerabilità, la dipendenza e la relazionalità sono aspetti costitutivi che definiscono il modo in cui riconosciamo valore all’umanità. Le proprietà su cui di solito ha fatto leve il pensiero etico-politico tradizionale (autocoscienza, razionalità, ecc.) sono importanti ma non bastano a definire ciò che realmente conta nei modi in cui ci prendiamo cura degli esseri umani.
La ridefinizione del concetto di essere umano è quindi la sfida principale cui è chiamato il pensiero etico-politico se intende prendere sul serio che alcuni aspetti che contraddistinguono la disabilità (vulnerabilità, relazionalità, dipendenza) sono tratti costitutivi dell’esperienza umana e non soltanto circostanze accidentali che a volte intralciano il cammino di esseri umani pienamente autonomi, razionali e indipendenti.
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