I VALORI DEL RISORGIMENTO: UN RICORDO PER CAMBIARE

Di fronte al panorama che si presenta ai nostri occhi quotidianamente può essere utile ricordare, attraverso qualche frammento di riminiscenza storica, su quali valori e grazie a quali personaggi si è costruito il Risorgimento, il momento più alto e corale della storia e della politica italiana.

I raffronti tra l’ieri e l’oggi verranno da sé.

Per rinfrescare la memoria ricordiamo brevemente le tappe storiche essenziali: dopo la Santa Alleanza sancita dal Congresso di Vienna nel 1815 e il ripristino degli stati sovrani travolti dalle vittoriose campagne militari di Napoleone, in tutta Europa nasce un fermento crescente che passa alla storia come Primavera dei popoli. Mentre Napoleone trascorre gli ultimi anni di vita confinato nella remota isola di Sant’Elena in mezzo all’Atlantico, nel 1820/1821 scoppiano i primi tentativi di insurrezione contro i regimi assoluti, prima in Spagna, poi in altri paesi europei e negli stati in cui è divisa l’Italia. In un analogo panorama non solo politico ma anche culturale e filosofico si diffonde l’idea di nazione sviluppatasi durante la rivoluzione francese.

La prospettiva di un mondo nuovo ispirato ai valori di liberté-égalité-fraternité diffusa in tutta Europa da Napoleone, stride fortemente nella penisola italiana con il ritorno a un passato fatto di sottomissione a dinastie straniere esose, impositive, dispotiche, opprimenti di ogni libertà.

Dopo la parentesi della Repubblica Cispadana istituita dal giovane generale Bonaparte nel 1797 e di quella Partenopea del 1799 durante la Campagna d’Italia; dopo l’emanazione della costituzione cispadana modellata su quella francese del 1795 e che attirò nella nuova realtà politico-amministrativa i ducati e i territori di pressoché tutta l’Italia settentrionale; dopo l’incoronazione di Napoleone a “Re d’Italia” nel 1805, nel Paese incomincia a delinearsi con forza l’ideale di un’Italia unita e indipendente dalle potenze straniere, con una costituzione che garantisca i diritti dell’uomo e del cittadino e la rappresentanza nei vari ambiti del potere: legislativo, giudiziario, militare, tributario.

Il glorioso Risorgimento italiano inizia con i moti del 1820/’21 a Milano, Palermo, a Napoli, in Piemonte, in tutta l’Italia, miranti ad ottenere la costituzione. Nascono le società segrete, la Carboneria, la Giovane Italia mazziniana. Intanto si delineano le diverse correnti contrapposte tra il pensiero moderato, che faceva affidamento sui “legittimi” sovrani, e quello democratico che puntava tutto sul “popolo”: un’Italia repubblicana sostenuta da Mazzini, una monarchica sotto i Savoia; quella sotto l’egida del papato che si esprime nel neoguelfimo di Gioberti, ma anche di Manzoni e di Rosmini, una miriade di progetti politici che seppure nelle loro specificità mirano tutti all’unico obiettivo: un’Italia libera, indipendente, unita, quella che si realizzerà nel 1861 dopo i moti insurrezionali del 1848, le prime due guerre di Indipendenza e la “Spedizione dei Mille”, grazie al genio politico e diplomatico di Cavour e a quello strategico-militare di Garibaldi, ma anche al prezzo di condanne a morte o di esili vissuti in Francia, in Belgio, in Inghilterra, in America da parte di patrioti passati gloriosamente alla storia. Stessa sorte tocca anche alla gente comune costretta a fuggire perché compromessa nei moti rivoluzionari.

Alla rivolta delle Cinque giornate di Milano, scoppiata dopo l’ennesima tassa, quella sul fumo, imposta dal governo austriaco, guidata da Gabrio Casati e da Carlo Cattaneo partecipa tutta la popolazione, anche femminile, e quella accorsa in città dai territori vicini: gli uomini combattono sulle barricate, le nobildonne come le popolane, che costituiscono un terzo dei caduti, curano i feriti; i bambini, soprattutto i martinitt, gli orfani dell’omonimo ricovero, fanno da staffetta da una porta all’altra della città. A porta Tosa, oggi Vittoria, viene issata la bandiera tricolore con al centro lo stemma dei Savoia.

La cultura a fondamento della politica

La rivolta milanese del 1848 è maturata con i moti del 1821 nei salotti culturali e politici di Tommaso Grossi, di Alessandro e Carlo Porro e di Claretta Maffei, dove le discussioni, i dibattiti, le analisi della situazione politica e del problema italiano si tesseva e si incrociava con la letteratura, la pittura e la musica. A casa Maffei si ritrovavano Massimo d’Azeglio, già famoso pittore e scrittore; Giuseppe Verdi, Tommaso Grossi e Franz Liszt, Alessandro Manzoni e Francesco Hayez, Giulio Carcano, Cesare Correnti, Pietro Borsieri, figura centrale nell’esperienza del periodico antiaustriaco Il Conciliatore, che con Federico Confalonieri nel 1822 subì una condanna a morte commutata in venti anni di carcere.

Se nel salotto di Clara Maffei i patrioti organizzavano le sommosse, in quello torinese di Giulia Falletti Colbert, che aveva ospite assiduo Silvio Pellico reduce dallo Spielberg, si formava il giovane Cavour; in quello fiorentino di Emilia Toscanelli Perruzzi venivano incoraggiati i talenti in erba di Edmondo De Amicis e di Ada Negri; in quello napoletano di Lucia De Thomasis si potevano incontrare le più brillanti menti liberali dell’Italia meridionale come lo scrittore e patriota Luigi Settembrini e lo storico Carlo Troya, primo ministro “costituzionale” del Regno delle Due Sicilie.

Nel regno del Piemonte, a Pallanza sul lago Maggiore, un salotto a respiro europeo era quello animato da Costanza Trotti Bentivoglio, di origine austriaca, poliglotta e di vasta cultura, antesignana, per i suoi tempi, di uno stile di vita indipendente e scevro dalle stringenti convenzioni sociali. La nobile milanese, diciassettenne, dopo i moti del 1821, aveva condiviso l’esilio del marito Giuseppe Arconati prima a Parigi, poi in Belgio nel loro castello di Gaasbeek, diventato rifugio per grandi esuli italiani come Giovanni Berchet, Vincenzo Gioberti, Federico Confalonieri, Giovita Scalvini.

Nella loro villa di Pallanza, dove vissero per alcuni anni dopo il 1848, venivano abitualmente invitati Alessandro Manzoni, rifugiato nella villa di Lesa del figliastro Stefano Stampa, l’esule intellettuale napoletano Ruggiero Bonghi, l’abate teologo Antonio Rosmini, i ministri del regno sabaudo Massimo d’Azeglio e Giacinto Provana di Collegno. Inoltre ospitavano spesso personaggi politici e intellettuali stranieri con i quali avevano stretto rapporti durante l’esilio: la scrittrice britannica Mary Clarke, l’economista inglese Nassau William Senior, il ministro inglese Whig Adair, il poeta statunitense Henry Wadsworth Longfellow, il giurista tedesco Eduard Gans, i liberali belgi Adolphe Quételet, Sylvain Van de Weyer, Francesco Saverio de Mérode. Anche i numerosi viaggi a Parigi, a Heidelberg, a Bonn, a Berlino, servivano a diffondere i grandi temi che interessavano il mondo cattolico liberale d’Europa. Dal salotto di Costanza Arconati i benefici derivanti dalla sua capacità di creare rapporti e scambi di cultura si estendevano a tutto il gruppo di amici italiani ospiti del lago.

I salotti, in Italia, come nel resto d’Europa, erano organizzati da signore dell’aristocrazia, di cultura e di curiosità vastissime, che, precluse dai ritrovi pubblici e dai caffè, facevano delle proprie case dei cenacoli di varia cultura. Il salotto era come un grande “giornale” dove i fatti di cronaca, di politica, di letteratura, di musica, spesso con i protagonisti, venivano analizzati, discussi, dibattuti.
Era inevitabile che la discussione, in cui si intrecciavano diversi contributi culturali, favorisse il passaggio di idee e di stili che avevano come principale obiettivo le sorti dell’unità d’Italia. In questo clima è nato il Risorgimento italiano.

La cultura nelle sue molteplici espressioni era la base su cui veniva costruito e propagandato il pensiero politico. Ricordiamo alcuni versi dell’ode manzoniana Marzo 1821 il cui tema centrale è il diritto inalienabile di ogni popolo alla libertà: …O risorta per voi la vedremo/al convitto dei popoli assisa,/ o più serva, più vil, più derisa/sotto l’orrida verga starà.

Nel Nabucco, emblema del Risorgimento italiano, musicato da Giuseppe Verdi e messo in scena nel 1846 al teatro alla Scala di Milano, la prigionia degli Ebrei e la loro oppressione è la stessa degli Italiani sottomessi da monarchie straniere.
Massimo d’Azeglio, quando intraprende la carriera politica che lo porta a rivestire la carica di primo ministro del governo sabaudo dal 1849 al 1852, è già un pittore affermato e autore di romanzi a sfondo storico come Ettore Fieramosca, Niccolò de’ lapi, Gli ultimi casi di Romagna e Il conte di Carmagnola con i quali, secondo una certa critica letteraria, può contendere al Manzoni il titolo di primo romanziere italiano.

Giulio Carcano, scrittore e poeta “pupillo” di Alessandro Manzoni, già sulle barricate durante le Cinque Giornate di Milano e per questo colpito dal tribunale austriaco da una condanna a morte commutata in esilio, nel 1849, esule a Intra, sul lago Maggiore, allora principale polo industriale italiano, scrive fra altre novelle La Nunziata che, sottolineando il divario tra le classi ricche e possidenti e le masse operaie e contadine, costituisce la prima denuncia degli effetti nefasti dell’industrializzazione sulla vita della popolazione, sottratta alle attività ataviche per morire, come la Nunziata, di sfruttamento, di soprusi, di condizioni disumane.

Il nobile Cesare Correnti, amico fraterno di Giulio Carcano, con cui ha conseguito a Pavia la stessa laurea in Giurisprudenza e vissuto la stessa sorte dell’esilio, da giornalista ha fondato riviste a sfondo antiaustriaco come Il conciliatore accendendo gli animi della gioventù milanese. Parimenti le sue ricerche in ambito amministrativo diedero importanti contributi alle riviste lombarde del tempo. Negli Annali di statistica, in Almanacco e in altre pubblicazioni, si impegnò a leggere i problemi della società: la situazione operaia, il bisogno di asili per l’infanzia e di società di mutuo soccorso.
Offrì nozioni di geografia economica accompagnate da minute statistiche, insegnò l’igiene e l’economia, evidenziò l’importanza del progresso della scienza e della tecnica. Quando nel 1867 viene nominato Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, la sua sensibilità verso il sociale e la cultura si esprime con la prima proposta, senza successo, di una legge sull’obbligo scolastico, anticipazione delle istanze riformiste di fine Ottocento. La legge che istituiva l’istruzione obbligatoria, laica e gratuita per i bambini dai 6 ai 9 anni, verrà varata dopo dieci anni sotto il governo della sinistra storica di Depretis nel 1876.

In un paese in cui l’analfabetismo riguardava l’80% della popolazione, ed oggi si assiste a un drammatico analfabetismo di ritorno e a una fuga di cervelli, la cultura costituiva il fondamento del dibattito e del confronto politico e l’istruzione quello di una società libera.

La solidarietà e la condivisione.

La liberazione di Milano con la rivolta delle Cinque giornate di marzo 1848 e il governo provvisorio a guida di Gabrio Casati, hanno pochi mesi di vita. Già nell’agosto successivo, dopo la sconfitta di Custoza dell’esercito sabaudo, rientrano in Milano i soldati austriaci dalle giubbe bianche al comando del generale Radetzky, ma la rivolta milanese ha indotto l’esitante re Carlo Alberto di Savoia a scendere in campo contro l’Austria, dando inizio alla prima guerra di indipendenza.

Il rientro degli Austriaci e la loro repressione produce un esodo in massa da Milano, capitale del Regno del Lombardo Veneto, di settantamila persone che formano lunghe colonne umane verso la Svizzera e verso la sponda sabauda del lago Maggiore.

L’esodo di quei giorni da Milano per la Svizzera non lo può immaginare chi non lo vide. Tutto il Canton Ticino riboccava di fuggiaschi milanesi d’ogni ceto, d’ogni età. Si erano vedute intere famiglie di povera gente, sulle strade da Milano al canton Ticino, accorrervi con la loro meschine masserizie, caricate su asini, muli e carretti (…) Forse la lontanissima leggenda di Barbarossa, si era di subito risvegliata in Milano e vi si era da molti creduto alla sua imminente distruzione. (Memorie e lettere di Carlo Guerrieri Gonzaga, 1915, p. 50)

È la prima esperienza italiana di emigrazione di povera gente, accolta al di là dei propri confini. Lo scenario, poiché la disperazione e la povertà si ripropongono da sempre con le stesse immagini, è del tutto simile a quello degli esodi in massa contemporanei, dei Messicani che migrano verso Gli Stati Uniti, dei Palestinesi che fuggono verso l’Egitto, dei migranti che tentano una disperata fuga attraverso il mare. Ma quando la primavera dei popoli nell’Ottocento accomuna le popolazioni dell’Europa nello stesso afflato di libertà, di uguaglianza e di fretellanza, non si alzano muri invalicabili, non si pianificano respingimenti.

Per i personaggi di rango, che si muovono in carrozza, la fuga da Milano verso la Svizzera o il Piemone o l’esilio in Francia, in Belgio, in Inghilterra non si presenta con le stesse immagini della povera gente. Per questi il travaglio è morale e politico perché nei luoghi dell’esilio il clima è di trepidante attesa e di fragile speranza, come scrive in una lettera Giulio Carcano: Noi siamo tutti nello stato ansioso di chi aspetta, e non so se l’avvenire imminente sarà migliore o più miserando del passato (Archivio Giulio Carcano di Lesa).

Alessandro Manzoni si rifugia a Lesa, sulla costa piemontese e sabauda del lago Maggiore, nella villa del figliastro Stefano Stampa. Lo scrittore e patriota Giulio Carcano vive da esule con la moglie e la figlioletta di tre anni in un continuo peregrinaggio e spostamenti anche in barca tra le sponde svizzere e piemontesi del lago Maggiore.

Nel limbo dell’esilio i grandi uomini del Risorgimento cercano occasioni di confronto dialettico e si preparano a incidere sugli eventi della seconda metà dell’Ottocento quando, a diverso titolo, siederanno sugli scranni del primo Parlamento del Regno d’Italia.

Le nobildonne Laura Solera Mantegazza e Adelaide Cairoli, escluse dai tempi alla partecipazione politica diretta, esuli nelle loro ville di Cannero e di Lesa, sostengono economicamente le imprese di Garibaldi e Mazzini. Laura cura i feriti negli scontri del ’48 tra Radetzky e Garibaldi tra Cannero e Luino, cittadina sulla sponda lombarda; tornata a Milano liberata definitivamente dagli austriaci con la seconda guerra di indipendenza (1859), crea scuole professionali per l’emancipazione delle donne e luoghi di accoglienza per i bambini. Adelaide, la madre d’Italia, che perde quattro dei suoi cinque figli nella Spedizione dei mille, finanzia la propaganda risorgimentale e le imprese di Garibaldi; confeziona le camicie rosse, chiamando a raccolta nella sua villa di Belgirate le donne del paese.

Il sacrificio e l’onestà

I personaggi ricordati in questo racconto appartengono, come nel resto d’Europa, all’aristocrazia e all’alta borghesia, ma la condizione di privilegio rispetto alle classi popolari non ha impedito loro di anteporre la causa nazionale a ogni qualsiasi interesse personale: hanno promosso e partecipato alle insurrezioni, abbracciando le armi e salendo sulle barricate; scampata la condanna a morte, dopo la confisca dei beni da parte dei governi stranieri, hanno affrontato decenni di esilio peregrinando da un paese all’altro dell’Europa, talvolta il carcere; hanno seguito da lontano, con la sofferenza dell’impotenza, le sorti incerte dell’Italia.

Di questi patrioti ricordiamo il nobile milanese Pietro Borsieri che dopo i moti del ‘21 fu sottoposto al carcere duro nelle prigioni dello Spielberg, dove rimase per quindici anni, fino al ’36, quando gli ultimi sei anni di pena furono commutati in esilio negli Stati Uniti. Deportato oltre Atlantico, visse in povertà a New York, Princeton e Filadelfia insegnando italiano. Nel 1839 rientrò in Europa e si stanbilì in Belgio presso gli Arconati nel castello di Gaasbeek; due anni dopo ritornò finalmente in Italia, dove, nel ’48, partecipò alla cinque giornate milanesi. Nel ’49, ormai sessantaduenne, prese parte come volontario alla battaglia di Novara. Morì nel 1852 a Belgirate, sul lago Maggiore vicino ad Alessandro Manzoni, con cui a Milano aveva animato il salotto di Clarina Maffei. Scrisse di lui Sivio Pellico: Era uomo d’animo rettissimo, pieno d’amore per tutto ciò che è bello, per tutto ciò che è virtù (Pietro Prini, Terra di Belgirate, 2005, pp. 100-102).

Vincenzo Gioberti, il principale sostenitore del neoguelfismo, la teoria che auspica un’Italia unita sotto il regno pontificio, esule in Francia, muore a Parigi in povertà nel 1852. Scrive nel suo diario giornaliero Margherita Trotti Bentivoglio, moglie di Giacinto Provana di Collegno, generale sabaudo, ministro plenipotenziario a Parigi:

27 ottobre. Oggi per la prima volta Collegno va alla dimora di Gioberti. La legazione di Sardegna s’incarica di mettere i sigilli e delle spese dei funerali. Non si trova altra ricchezza in casa di quell’illustre uomo che 900 franchi ed alcuni libri.

(Il diario politico di Margherita Provana di Collegno 1852-1856, a cura di Aldobrandino Malvezzi, Hoepli, 1926, p. 75).

Cesare Correnti, esule presso la corte dei Savoia, dove riveste cariche di governo, alla fine di una vita dedicata alla causa italiana, non ha accumulato ricchezza, pertanto fa ricorso alla dote della moglie Maria per acquistare una “casinuccia” a Lesa vicino all’amico Giulio Carcano, a cui scrive in una lettera:

Ho immobilizzato e isterilita la dote di Maria e le ho permesso di comprare la vigna. Sono quattro piedi di vitigni e una casinuccia, che la tua Giulia ha veduta. Se potrò mantenerla come essa è, tre camere da letto e due altre stanze terrene, senza un palmo di giardino e di cortile, potrà parere ed essere il ricovero d’un uomo caduto in disgrazia di se medesimo. E basterà. (T. Massarani, “Cesare Correnti nella vita e nelle opere”, Roma, 1890).

Massimo d’Azeglio nel 1852 lascia la carica di primo ministro del Regno Sabaudo, facendo pressione su Vittorio Emanuele II perché il suo successore sia Camillo Benso conte di Cavour, di cui ha intuito la straordinaria intelligenza politica. Dopo aver rifiutato tutte le onorificenze di cui voleva insignirlo il re, nominato senatore nel 1853, dal 1856 non riveste più incarichi ufficiali presso la corte sabauda. Si ritira a Cannero, borgo sul lago Maggiore, prossimo al confine svizzero, che deginisce la sua Cartagene sorgente. Acquista un pezzetto di terra per farci una casetta (Massimo D’azeglio e Diomede Pantaleoni-Carteggio inedito, prefaz. di G. Faldella, 1888, L.Roux e C.).

Qui conduce una vita semplice, fatta di nuotate e di uscite in barca a pescare lucci e persici, di ore e ore passate davanti al cavalletto a dipingere. I suoi amici sono le persone conosciute a Cannero: il curato del paese, un ginecologo, un capomastro, con i quali si fanno sedute spiritiche e si beve qualche bicchiere di vino, come racconta in una lettera al suo vecchio attendente di campo Diomede Pantaleoni: «Di vini ho del Mâcon, del Bordeaux e dell’Aï. Mi paion buoni. Altrimenti per noi va sempre il vin d’la boutala», perché, come soleva definirsi, era aristocratico per nascita e democratico per scelta.

Anche se intraprende numerosi viaggi per rispondere alle chiamate della politica, a Cannero ritorna alle passioni che lo avevano reso famosissimo in gioventù, la letteratura e la pittura. Fino alla morte, avvenuta nel 1866, scrive I miei ricordi e L’epistolario e intanto vende di nuovo i suoi quadri come quando, giovanissimo, si era trasferito a Roma per imparare a dipingere e doveva arrotondare i pochi scudi che da Torino gli inviava suo padre, il marchese Cesare Tapparelli d’Azeglio.

Giuseppe Garibaldi, l’”eroe dei due mondi”, dopo l’ultimo tentativo, sostenuto da Mazzini, di liberare Roma dal dominio pontificio, nel 1871 si ritira nella sua casa di Caprera, dove è solito rifugiarsi dopo ogni impresa. Qui dal “continente” non porta con sé opere d’arte o ricchezze, ma un saccheto di semi per l’ orto, il frutteto, il vigneto e l’aranceto che coltiva personalmente.
Qui trascorre gli ultimi anni della sua vita e muore nel 1882. Un maestoso pino, fra i tanti alberi che ha piantato nel suo podere, è tuttora al centro del giardino.


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