Nel nostro mondo è vietato trasmettere in televisione gli incontri di boxe.
Per quanto essi siano regolati da ferree regole di comportamento, prevedano la necessità di un medico a bordo ring e una riconciliazione finale con riconoscimento del vittorioso da parte dello sconfitto si ritiene pericoloso per la società presentare al consumo pubblico quei contenuti.
Si dice e si ritiene che potrebbero determinare pericolosi atteggiamenti imitativi.
Contemporaneamente, tuttavia, si lanciano vigorosamente in prima serata prodotti televisivi in cui esplicitamente si invitano i partecipanti a dare e presentare il peggio di se stessi.
Chi non appare capace di essere volgare, maleducato, cospirativo e aggressivo si trova immediatamente ai margini del programma stesso.
L’universo sembra dividersi tra chi (a giudizio del pubblico?) riesce a rendersi percepibile con comportamenti che fuori da quel teatro dovrebbero essere considerati scorretti e inaccettabili e chi, non disponendo di una sufficiente ricchezza fecale, cerca di risultare (poverino!) simpatico ed educato.
Nel nostro mondo viene considerato inaccettabile il poter disporre del proprio corpo materiale nella forma estrema e finale del suicidio.
Non essendo, per evidenti motivi, perseguibile il “colpevole” di un tale comportamento la attenzione si sposta su chi possa avere eventualmente aiutato il futuro suicida a creare le condizioni per realizzare il suo obiettivo senza sofferenza ulteriore a quella della vita stessa.
Da qui il reato (e la condanna conseguente) per “istigazione al suicidio”.
Qui il concetto di istigazione si sposta dall’aver spinto una persona a compiere quell’atto finale all’avere cercato di rendere meno doloroso e drammatico quel passaggio a cui si era comunque determinati.
Non rientra nell’ambito della istigazione l’aver reso, per esempio, la vita totalmente insopportabile a chi sceglierà quella strada.
Di tutta evidenza prevale e si riproduce qui un presupposto di carattere religioso che, considerando la vita un dono divino, ritiene quasi blasfemo qualunque comportamento richiami all’uomo il potere e la responsabilità sul proprio corpo.
Ma il rispetto per la corporeità originaria di ciascuno e il vincolo che ne deriva viene dimenticato non appena si entra nella sfera della chirurgia estetica e della possibilità di modificazione anche estrema della propria dimensione materiale e fisica.
Qui prevale, giustamente a parere mio, un criterio di libertà e di responsabilità individuale sul proprio corpo.
Si può, e si deve, rispettare comunque il diritto di ognuno a “gestire” la propria dimensione corporale senza determinare una qualunque responsabilità di carattere etico.
Ma, posto che io devo rispettare (magari ironizzando un poco) la decisione di chi decide di trasformarsi in un gatto, perché non devo avere lo stesso democratico rispetto per chi decide consapevolmente di porre fine alla propria esistenza fisica?
Anche sull’uso del corpo in una sfera economica si aprono delle interessanti, e rivelatrici, contraddizioni.
La persona (maschio, femmina o transgender che sia) che utilizza il proprio corpo per aiutare un’altra persona a provare piacere e lo fa all’interno di uno scambio finanziario è comunque vista negativamente.
Ancor più negativamente sono ufficialmente visti i consumatori di questo servizio.
Essi appaiono sfruttare il corpo di un’altra persona in virtù del potere derivante dai soldi e del bisogno della loro “vittima”.
Si ritiene, insomma, che l’obiettivo del piacere non possa giustificare l’iniquo scambio che si crea, pur senza costrizione e violenza.
Quando, però, l’obiettivo diventa la creazione della vita tutti questi presupposti sembrano venir dimenticati.
Improvvisamente appare giustificata una donna che affitta il proprio corpo a degli estranei per nove lunghi mesi, alla fine dei quali consegna il frutto della temporanea cessione usufruttuaria.
Si dissolvono in un attimo i poetici ragionamenti sulla profondità del rapporto madre – feto durante la gravidanza.
Si rimuove il dolore insopportabile che quella donna avrà presumibilmente provato nell’essere privata del frutto del suo seno.
Vale, prima di tutto, lo strumentale diritto di chi, non potendo per qualunque motivo direttamente riprodursi, lo acquisisce attraverso il denaro, molto denaro.
Temo che si potrebbe continuare con molti altri esempi.
Già ora però appare evidente che siamo di fronte alla difficilissima convivenza tra norme derivanti da un contesto etico – religioso e quelle elaborate faticosamente dal liberalismo nel corso degli ultimi secoli.
Questa dialettica si è ulteriormente complicata con la progressiva e inarrestabile confluenza dei valori e delle culture popolari – di sinistra sul terreno della cultura liberale con il rispetto della libertà individuale che essa inevitabilmente comporta.
Non si tratta di un percorso semplice e spero di poter tornare a parlarne.
Per finire mi sia concesso un ricordo personale.
Il 9 dicembre del 1980 presiedetti a Palermo l’atto di fondazione di ARCI GAY.
Fu una cosa giusta, bella e importante.
Ma, alla prima successiva Assemblea Nazionale dell’ARCI prese la parola il Presidente Fondatore Alberto Jacometti.
Eroico ex partigiano, ex Segretario Nazionale del PSI, membro a vita del nostro Comitato Centrale.
Non potevo non aspettarmi che mi avrebbe elogiato.
“Mi dicono che il compagno Beppe Attene ha fondato un’associazione di quelli che non posso nemmeno nominare per non vomitare qui in pubblico”
Era un altro mondo, insomma.