di Marcello Paci
Avevano tempo, la zona appariva tranquilla, con il fiume poco distante. Rumore dell’acqua tra i sassi, fruscio nel suo scorrere tra la sabbia della riva e la vegetazione delle sponde. Nei secoli il fiume aveva scavato e dato forma a quella vallata che da Nocera arrivava sino a Foligno, e che aveva nome di valle del Topino. Nel mezzo il paese di Valtopina, a ridosso del versante nord-orientale del monte Subasio.
Di lato al fiume, un centinaio di metri oltre la stazione, videro e vi si diressero, la chiesa di S. Maria Assunta.
Quelle grandi pietre squadrate da tempio pagano, antico luogo di culto, diventato poi cristiano, importante perché vi si celebravano i battesimi. E di quel tempo aveva assunto lo stile di chiesa paleo-cristiana medioevale. Addossate alla Chiesa costruzioni abitative che facevano apparire il complesso come un fortilizio di difesa, di cui verosimilmente occorse la necessità, una volta caduta Roma.
Vi girarono intorno, nessuno dentro le case o fuori, sembrava un relitto della storia, ma alcuni panni stesi fuori dalle finestre testimoniavano la presenza di gente che lì abitava, magari fuori per lavori, nei campi o altro.
La chiesa era chiusa, ma dalla tipologia faceva sospettare un interno simile a quello della chiesa di san Giovanni Profiamma che avevano visto passando a bordo del camioncino di Edmondo. Magari le primitive pietre avranno visto il console Flaminio in preghiera a chiedere la protezione degli Dei per la grande opera viaria che stava portando avanti. Gli fu concessa, ma non ebbe lo stesso favore degli dei di lì a poco, quando sul Trasimeno, non molto distante, avrebbe visto massacrare i suoi legionari ad opera dei cartaginesi di Annibale, calati dalle alture circostanti di Tuoro, con le acque del lago tinte del loro sangue a cui aggiunse il suo per condividere uno stesso destino ed evitare di sopravvivere all’onta della sconfitta. Poco distante dalla chiesa ammirarono con gli occhi del mestiere il viadotto, coevo della consolare, parte di un manufatto atto a favorire il deflusso delle acque provenienti dalla collina vicina, a salvaguardia della strada.
Dal lato opposto, oltre il fiume, sulla collinetta dove passava la Flaminia attuale che avevano abbandonato poco prima, all’altezza della lapide che ricordava il compaesano Alessio Gambini, videro la casetta colonica con il monumento sull’aia che celebrava lavori di alcuni secoli prima su quel tratto di strada, franato a causa di una piena del Topino. Invece l’antico tracciato si snodava sotto i loro piedi nel posto dove stavano passeggiando, a ridosso del fiume scavalcato dal grande ponte di cui vedevano ancora l’imposta rimasta su un lato. Quel luogo deserto dove stavano girovagando a passi lenti, per far passare il tempo nell’attesa di un treno da prendere se ci fossero state le condizioni, era proprio un gran bel posto.
Ci si respirava la storia, anche se la mancanza di vita, di gente, di rumori, suggeriva pensieri di abbandono, di morte, che quei resti del passato contribuivano ad ispirare. Ma era sensazione mendace, la storia non scompare mai del tutto, i luoghi dove si è svolta possono apparire sonnacchiosi ma in qualche modo conservano traccia degli avvenimenti che lì si sono svolti. Sarebbe bastato rimuovere la polvere, il fango, magari l’asfalto che ricopriva le pietre dell’antico acciottolato per riscoprire i solchi dei carri che per secoli lì erano passati e se ci si fosse messi in ascolto, si sarebbe sentito il clangore delle armi dei legionari in marcia, insieme alle loro voci, ai suoni della loro baldanza di giovani uomini lanciati alla conquista del mondo, per la loro gloria e quella di Roma.
Come a dare corpo a quei pensieri, all’improvviso dalle colline circostanti un rumore concitato di passi, come di corsa.
In breve spuntarono dal bosco una decina di uomini, scarponi infangati e logori ai piedi, abiti dalle fogge diverse, come raffazzonati da mani premurose di donne, che avevano approntato in fretta indumenti atti a proteggerli alla meglio dal freddo e dalle intemperie della montagna. Portavano armi, fucili per lo più, mitra alcuni, pochi. Quando arrivarono allo scoperto corsero con più fretta, alla ricerca di un nuovo riparo, e intanto guardavano intorno per vedere se ci fossero segni di pericolo. Si accorsero dei nostri che stavano nei pressi del fiume, li raggiunsero. Timore e fermezza da parte di Silvio che si mise dinanzi agli altri, ma quelli non mostrarono al loro avvicinarsi segni di minacce, anzi ancora lontani facevano gesti con le mani come a invitarli a nascondersi.
Quando furono da presso gridarono: “abbiamo i tedeschi alle spalle, dobbiamo nasconderci, non vi fate trovare qui, è pericoloso anche per voi!”.
Insieme raggiunsero un boschetto e una volta al riparo aggiunsero: “stanno facendo una rappresaglia, venite con noi, non ci devono trovare!
Decisero di raggiungere il fiume che in quel tratto era abbastanza profondo da ricoprirli oltre la cintola e dunque anche interamente per il tempo necessario, in caso di emergenza.
Presero a percorrerlo sulla riva destra, in senso contrario alla corrente, in direzione di Nocera. Sembrò una scelta felice quella del fiume, perché sulle rive cresceva una folta vegetazione che dopo una trentina di metri non permetteva di procedere.
All’udire le voci dei tedeschi avvicinarsi, si tolsero gran parte dei vestiti, li caricarono avvoltolati a mò di massaie di un tempo sulla testa, sopra gli abiti le armi, con la mano che schiacciava il tutto e si immersero nell’acqua continuando a procedere per allontanarsi più velocemente possibile dalla radura dove stavano dilagando i soldati. In silenzio procedevano lungo il fiume, si udiva solo lo sciabordio dell’acqua. Poi, prima impercettibili e via via più distinte, si udirono le voci dei tedeschi che si avvicinavano. Il gruppo dei fuggitivi si raccolse in prossimità della riva, uno di loro prese gli abiti e le armi e li mise in una buca del terreno che ricoprì con foglie e sabbia. Quindi velocemente rientrò in acqua e insieme agli altri vi si acquattò fino ad immergersi quasi completamente, in prossimità del bordo del fiume.
I militari, intorno ad una trentina di individui si erano sparpagliati nella radura, indossavano la divisa grigio-verde della Wehrmacht, tutti giovani, alcuni quasi imberbi, determinati nell’atteggiamento e nel vociare tra di loro, come mossi dal dovere di svolgere al meglio la funzione loro assegnata.
Loro e tutti i camerati distaccati in Italia si trovavano ad operare in una terra ostile, dopo una dubbiosa fratellanza mai assimilata, frutto della volontà politica dei governanti, non sentimento di popolo che aveva subito e inflitto lutti nella passata guerra.
Queste truppe dislocate nella penisola per combattere gli alleati, dovevano dunque guardarsi dalla gente, divisa tra la fedeltà al vecchio alleato protettore della neonata Repubblica Sociale Italiana e l’adesione agli appelli del re e di Badoglio passati al nemico di ieri. I militari germanici pur nella teutonica, acritica, assoluta, pratica del dovere, provavano sentimenti che andavano dalla paura per la loro vita, alla rabbia verso gli italiani traditori, e ne facevano spietati esecutori di rappresaglie, quando si prestava loro il fianco con azioni di guerriglia, o attentati. Alcuni entrarono nella stazione ferroviaria, altri controllarono la chiesa con le abitazioni annesse, gli anfratti e i boschi intorno. Un gruppetto si avvicinò al fiume, iniziò a percorrerlo lungo le sponde, chi verso valle, chi in direzione dei nostri.
Penetrarono nella fitta vegetazione che ricopriva la riva, ma dopo pochi metri si fermarono per l’impossibilità di procedere. Si sarebbe trattato di immergersi nel fiume se avessero voluto seguitare la perlustrazione. Confabularono tra di loro. I nostri con il cuore in mano aspettavano.
Al richiamo imperioso del loro comandante che dirigeva le operazioni da un luogo in prossimità della chiesa, i soldati desistettero e si ritirarono. I nostri al momento erano salvi.
Tutta la pattuglia si raccolse davanti la chiesa, in formazione raggiunse la strada soprastante dove li attendevano dei mezzi blindati e dei camion.
I nostri erano rimasti immersi nell’acqua fredda e all’affievolirsi del vociare dei tedeschi, e all’udire il rumore dei motori in allontanamento, presero a riemergere cautamente, ormai intirizziti per la temperatura e l’immobilità.
Progressivamente riguadagnarono la riva del fiume, raccolsero gli abiti e le armi, alla bene e meglio asciugarono i loro corpi e i vestiti con cui erano entrati in acqua e ricompostisi, prudentemente si affacciarono nella radura lasciata deserta dai tedeschi, di cui non c’era più traccia.
Zeno fu l’ultimo a uscire dall’acqua, aveva approfittato della immersione nel fiume per esplorare le buche negli anfratti del greto, un antico modo di pescare che i ragazzi del paese e lui con loro, praticavano nel fiume Chiascio. Si catturavano lucci, trote e altri pesci, che arricchivano il pranzo di famiglie numerose, sapientemente cucinato da mamme angeliche, custodi della vita. Una bella dose di proteine nobili, quel pesce, in tempi in cui la carne era privilegio delle classi abbienti, poche persone in ogni comunità.
Zeno uscì con il ricco bottino, sarebbe servito anche per festeggiare lo scampato pericolo.