La politica italiana dal sottobraccio mortale per la Rai all’arm’s lenght, la ‘distanza del braccio’ dal fornitore di media di servizio pubblico, come vuole l’European Media Freedom Act (EMFA)
Sedici/B Techné Storie di media e società
Celestino Spada
Vicedirettore della rivista Economia della cultura
Celestino Spada, già dirigente ai programmi televisivi della Rai e dal 1991 al 1999 responsabile delle ricerche sugli aspetti qualitativi dei programmi trasmessi (Vqpt-Rai) nel suo articolo “Stati Generali di un publico fallimento?” in cui rende conto della due giorni – il 6 e 7 novembre 2024 – dedicata dalla Presidenza della “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi” alla considerazione delle “sfide del servizio pubblico” nell’attuale contesto competitivo nazionale ed europeo (mondiale)”, denuncia quella che definisce nell’occhiello “La politica italiana dal sottobraccio mortale per la Rai all’arm’s lenght, la ‘distanza del braccio’ dal fornitore di media di servizio pubblico, come vuole l’European Media Freedom Act (EMFA)”.
19 novembre 2024
La ‘seconda repubblica’ nelle comunicazioni: di fallimento in fallimento?[1]
Dopo Telecom Italia buttata via ai privati e Alitalia lasciata divorare dal pluralismo politico/sociale, il bilancio fallimentare dei trent’anni (finora) della “seconda repubblica” nelle imprese di comunicazioni in mano pubblica del nostro Paese potrebbe presto arricchirsi per la messa sul mercato o il collasso finanziario della Rai-Radiotelevisione Italiana.
Complice questa volta l’Unione Europea, il cui Media Freedom Act – il regolamento 2024/1083 approvato dal Parlamento e dal Consiglio Europeo l’11 aprile 2024 e in vigore dall’8 agosto 2025 – definisce un quadro comune e statuisce caratteri, condizioni di indipendenza e procedure di finanziamento dei “fornitori di media di servizio pubblico” nei rispettivi mercati nazionali, così incompatibili con lo stato delle cose italiane da suscitare in settori del personale politico, anche di governo, reazioni distruttive della stessa presenza pubblica e/o delle risorse “da canone Rai” ad essa destinate.
Gli Stati Generali sulla Rai voluti dalla Presidente della Commissione Parlamentare di Vigilanza
Se n’è avuta una riprova nella “due giorni” – il 6 e 7 novembre 2024 – dedicata dalla Presidenza della “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi” alla considerazione delle “sfide del servizio pubblico” nell’attuale contesto competitivo nazionale ed europeo (mondiale). Al centro dell’attenzione e del confronto, in particolare, l’adeguatezza della sua organizzazione e responsabilità di direzione a sostenere la concorrenza italiana e internazionale sui fattori della sua produzione come sui pubblici – a cominciare dagli italiani – dei prodotti e servizi da essa offerti nell’universo multimediale e nei modi più vari e capillari dell’economia digitale.
Ne sono venuti elementi di analisi e proposte di innovazione che hanno fatto riferimento e sono risultati consonanti con la “missione” e i caratteri che il nuovo Regolamento europeo indica come ottimali in termini funzionali e come ragion d’essere, legittimità e responsabilità della presenza pubblica nel settore – indipendenza “dal punto di vista editoriale e funzionale”, certezza delle risorse pubbliche dedicate, responsabilità del mandato dell’organo dirigente e sua adeguata durata.
Tutti argomenti e ragionamenti che, però, sono stati accolti come un de profundis da quanti, anche presenti nella Sala Zuccari, continuano a considerare l’assetto attuale e le prospettive prevedibili della presenza pubblica nella maggiore industria culturale del Paese come i soli compatibili con la natura e i modi della nostra democrazia. Mentre, anche in quei due giorni, i media informavano, con dovizia di dettagli, che ai massimi livelli del Governo, in sede di definizione della legge di Bilancio dello Stato 2025, attorno al “canone Rai” si sta proponendo al Parlamento, ai cittadini, alle imprese e ai mercati del comparto una versione a suo modo creativa del gioco delle tre carte applicato alle risorse pubbliche di cui disporrà l’impresa Rai nel 2025 (poi chissà).
La ‘sfida’ delle risorse pubbliche certe per la Rai
Di questa “sfida” attuale, incombente, sulle risorse finanziarie del servizio pubblico nessuno fra i politici e i commissari della Vigilanza presenti alla “due giorni” ha ritenuto opportuno parlare, il che ha avuto la sua parte nel ricordarci in che mani l’attuale dipendenza dal Parlamento mette oggi le sorti della maggiore impresa culturale italiana[2]. Un accenno alle risorse ha fatto l’attuale Amministratore Delegato Rai Giampaolo Rossi, di lunga esperienza nel suo gruppo dirigente, che ha indicato il nodo da sciogliere nella
“natura giuridica della Rai e il suo ruolo di hub industriale per un’intera filiera produttiva del nostro Paese, quella dell’audiovisivo”
alle prese anch’essa – come i “fornitori di media di servizio pubblico” dei paesi europei cui si riferisce il Media Freedom Act – con l’offerta concorrente delle piattaforme digitali continentali Usa e cinesi. Mentre i rappresentanti delle organizzazioni sindacali dei tecnici, impiegati e operai, e dei dirigenti della Rai, concordi fra loro, hanno fatto presente che in queste condizioni nessuna azienda può essere gestita validamente stante il declino delle pratiche tradizionali del broadcasting e dei canali digitali sullo schermo domestico per l’affermarsi, in specie presso i giovani fin da bambini, dei più vari scambi sui dispositivi personali mobili, dentro e oltre i videogiochi e i social network. Elementi di contesto che impongono (anche) alla Rai continue innovazioni di processo e di prodotto e tempi di produzione, reclutamento e formazione del personale e verifica dei risultati, a cui non è funzionale la durata triennale dei mandati dei CdA e degli AD, prevista oggi dalla legge.
Dal 2015 tre Parlamenti, sei Governi e Commissioni bicamerali inaffidabili per il servizio pubblico
Bisogna prendere atto che proprio sul terreno delle risorse destinate al finanziamento della Rai è venuta meno negli ultimi dieci anni l’affidabilità del Parlamento, e in particolare della Commissione bicamerale competente, circa le sorti attuali e prossime future dell’impresa pubblica dell’audiovisivo e della multimedialità italiana. Da quando, approvata la legge n. 220/2015, una quota del “canone Rai” (la tassa pagata da allora con la bolletta elettrica da chiunque possegga apparati di ricezione audiovisiva e multimediale) è stata dallo Stato trasferita a imprese private con la conseguenza che quella che era – e resta – una “tassa di scopo”[3] potrebbe (per scelta del ministro competente o per inerzia) essere risucchiata nella contabilità generale dello Stato: vale a dire esposta alla competizione elettoralistica sulle risorse e alle “mediazioni” indifferenti a finalità e obbiettivi di politiche pubbliche (ridotte a voci di spesa), che ogni anno caratterizzano l’approvazione della legge di bilancio (ciò che si potrà constatare ancora una volta nelle prossime settimane). Lasciando da parte le possibili obiezioni dell’Unione Europea circa la turbativa della concorrenza e del mercato conseguente al finanziamento pubblico di imprese private, la cosa singolare di questa scelta è che parte di quello che il cittadino paga come ‘canone Rai’ viene data a imprese concorrenti italiane ed estere (operanti in Italia!)[4] sulle stesse risorse di produzione e sullo stesso pubblico nazionale a cui si rivolge l’impresa in mano pubblica. E che, senza i 270 milioni di introiti che le sono così sottratti ogni anno (sono le stime della Area Studi Mediobanca[5]), non solo la capacità di investimenti della Rai in nuove produzioni è compromessa, ma anche l’equilibrio annuale dei suoi conti, come hanno avuto modo di far presente i suoi amministratori alla stessa Commissione Parlamentare “di Vigilanza”[6].
Non si è trattato di un colpo di testa momentaneo. Come si è già avuto occasione di osservare[7], questo storno di risorse pubbliche a favore di imprese private, anche estere, in attività che attengono all’informazione, all’espressione e all’identità culturale della nazione italiana, è stato il risultato della convergenza bi-partizan e costante delle più varie maggioranze espresse da tre Parlamenti e di scelte rinnovate anno dopo anno nelle leggi finanziarie di tutti i governi che si sono succeduti dal 2015 (Renzi, Gentiloni, Conte 1, Conte 2, Draghi, Meloni). In questi anni, si potrebbe dire, una “costituzione materiale” si è affermata nella prassi politico-mediatica ed è stata sancita anno dopo anno dalla legge, che ha di fatto privato di dignità istituzionale il servizio pubblico radiotelevisivo e multimediale, facendo dello stanziamento delle risorse pubbliche ad esso destinate una variabile dipendente, ogni anno, dai rapporti fra i partiti, nonché – con questo governo lo vediamo – anche dalla competizione interna alla stessa maggioranza parlamentare.
Come si può constatare in queste settimane, con il vice-premier e leader della Lega, Matteo Salvini, impegnato a dettare al ministero dell’economia scelte in materia di “canone Rai” che toccano direttamente le risorse e l’attività produttiva della Rai (in cui il partito della premier, Fratelli d’Italia, ha assunto i ruoli di comando) e, di riflesso, gli interessi della Fininvest, socio fondatore e tuttora principale supporter dell’altro alleato di governo, Forza Italia, impegnata – la Fininvest – a sopravvivere senza troppe scosse alla fine del duopolio televisivo, che ne ha assicurato finora il primato sul mercato nazionale e una presenza significativa su quello europeo.
L’audiovisivo e la multimedialità in Italia: una nebulosa pubblico/privata e italo/estera
Di fatto, questa costituzione materiale e questa prassi legislativa sono venute a collocare le attività produttive – i soggetti e i modi della creatività e competenza culturale degli italiani e i fattori di sviluppo che esse implicano – le risorse e le imprese dell’audiovisivo e della multimedialità, operanti nel “mercato italiano”, in una nebulosa pubblico/privata e italiana (nazionale)/internazionale (filiali “in loco”) che è definita, giorno per giorno, dai rapporti e dagli scambi della competizione a bassa intensità (con scontri e conflitti sempre possibili) dei vari soggetti presenti, e dalla solidarietà e collaborazione “di fondo” fra di essi. Nella sostanza, un intreccio di tipo nuovo fra lo Stato e la società – di cui è parte integrante la presenza estera – è venuto a caratterizzare nell’ultimo decennio l’universo italiano della radiotelevisione e della multimedialità, nel quale è stata inclusa la Rai-impresa di servizio pubblico (quanto meno, ogni anno, parte delle risorse ad essa destinate dalla legge). Un fatto che si può constatare anche, da tempo, nella produzione italiana di cinema e di audiovisivo, che vede fra i protagonisti spesso gli stessi gruppi e le stesse imprese multimediali private (anche imprese italiane “partecipate” o divenute filiali di gruppi internazionali) nell’attingere ogni anno ai fondi pubblici di competenza del Ministero della Cultura, rispetto ai quali hanno un ruolo non marginale nelle nostre Regioni e nei grandi Comuni le Film Commission[8].
Le imprese e i mercati delle industrie radiotelevisive e multimediali in Europa e le scelte dell’EMFA
È il caso di osservare che questo assetto delle imprese e dei mercati della radiotelevisione, del cinema, dell’audiovisivo e della multimedialità è venuto caratterizzando da decenni – dall’avvio delle radio e teletrasmissioni via satellite negli anni Ottanta – in Europa, e nell’Unione Europea, i paesi più piccoli per dimensione, popolazione e risorse. Un fatto documentato da allora dalle rilevazioni periodiche dell’Osservatorio Europeo dell’Audiovisivo di Strasburgo, che il Parlamento e il Consiglio dell’Unione Europea hanno avuto evidentemente presenti nell’elaborare, nel corso degli anni, e approvare, l’11 aprile 2024, l’European Media Freedom Act: un Regolamento, condiviso all’unanimità, in una materia che da sempre, nella storia dell’Unione, è stata considerata di esclusiva competenza nazionale.
Due aspetti appaiono in questo quadro significativi:
- il consenso di tutti gli Stati nazionali, anche di quelli con maggioranze parlamentari e governi di orientamento nazional/sovranista, sulla ragion d’essere, la missione, il ruolo, le risorse e la responsabilità della presenza di un’impresa pubblica nel settore, con caratteri e garanzie tassativamente stabiliti, e
- il consenso degli Stati nazionali più grandi per popolazione, risorse e capacità produttiva, finora poco interessati a una statuizione europea e ormai alle prese anch’essi con la crisi verticale delle forme tradizionali (fisiche) di distribuzione e di offerta della loro propria produzione, per l’evanescenza dei relativi pubblici e per un andamento delle risorse del loro mercato nazionale dell’audiovisivo e della multimedialità – la pubblicità – drenate, per verso, dagli abbonamenti e dagli accessi all’offerta di programmi e servizi delle piattaforme digitali continentali statunitensi e cinesi e, per l’altro, dalla valorizzazione pubblicitaria dei contatti e del tempo di attenzione delle persone sui dispositivi mobili via Internet con gli accessi così resi possibili ai prodotti e ai servizi offerti online ai loro cittadini e, in generale, ai loro abitanti.
Nella sostanza, le dinamiche impresse in tutti i paesi del continente europeo ai mercati dei media dall’avvento dell’economia digitale, con i modi e le ragioni dei suoi scambi di prodotti e servizi, hanno “unificato” l’Europa in un settore di primaria valenza socio-culturale e “identitaria”, oltreché economico-finanziaria, per il ruolo di mercato della pubblicità commerciale e la tendenza in atto a dislocare il baricentro degli assetti stabiliti dagli anni 1980 verso le piattaforme digitali internazionali. E anche oltre, stante il fatto che l’audiovisivo e la multimedialità sembrano essere quasi soltanto i front runner di uno sviluppo centrato sulla e guidato dalla Intelligenza Artificiale, in grado di condizionare, se non di determinare (ancor più di quanto sta già avvenendo) “i linguaggi e il senso comune” delle diverse comunità nazionali, come ha scritto Michele Mezza, con il
“rischio di una nuova stagione di colonialismo semantico e culturale” [9].
La Rai-Radiotelevisione Italiana: stampella di imprese private o missione di servizio pubblico?
Si potrebbe pensare che la nebulosa pubblico/privata e italo/estera – che sembra essere, insieme, causa ed effetto della “costituzione materiale” vigente e delle scelte legislative circa la destinazione delle risorse pubbliche compiute nell’ultimo decennio in questo settore – nasca dall’intenzione e di fatto costituisca un tentativo di “governare” i processi che caratterizzano anche in Italia le imprese e i mercati della radiotelevisione e della multimedialità. Una sorta di “via italiana” alla transizione in atto che ha fra i protagonisti primari i soggetti del duopolio televisivo pubblico/privato italiano che, dopo la “privatizzazione selvaggia” della radiotelevisione degli anni Ottanta, ha stabilizzato nei decenni della “seconda repubblica” gli assetti e gli scambi di mercato sotto il loro controllo politico e istituzionale. Un’esperienza che si ripete, questa volta associando all’operazione le imprese internazionali che nel frattempo si sono imposte presso il pubblico italiano con la concorrenza sul versante televisivo (Sky) o con la loro offerta di programmi, anche realizzati in Italia, affidata alle piattaforme digitali con seguito di abbonamenti e di pubblico nel nostro mercato.
Un tentativo di governo di imprese e attività di economiche e dei processi in atto che si potrebbe definire “corporato” a cui si associa, evidentemente, una “terza via” nella messa a disposizione di risorse pubbliche a imprese private – ciò che aggiunge qualcosa all’esperienza secolare italiana del ‘salvataggio’ di imprese private fallite o di imprese di diritto privato in mano pubblica operanti sul mercato (l’esperienza dell’Iri nell’ambito e nel solco della quale si è collocata finora la vicenda della Rai-Radiotelevisione Italiana). Un assetto e un indirizzo di “governo” che sembra assegnare alle “risorse da canone”, versate dal contribuente per il servizio pubblico radiotelevisivo, il compito di sostituire nel sistema e nel mercato italiano le risorse pubblicitarie in fuga verso le piattaforme continentali e verso i contatti e i servizi online valorizzati dall’economia digitale. Un ruolo servente, non “sovrano” per la legislazione e la ragion d’essere socio-culturale e produttiva del servizio pubblico.
In ogni caso, una legislazione e una prassi – quelle affermatesi nell’ultimo decennio – che devono avere la loro parte nel fatto che l’attuale Ministro dell’Economia e delle Finanze, Giancarlo Giorgetti, interrogato il 7 agosto 2024 sulle vicende Rai, ha espresso la sua difficoltà a cogliere nelle leggi vigenti il carattere di servizio pubblico dell’attività dell’impresa Rai, affidata da cinquant’anni alla responsabilità e alla vigilanza del Parlamento della Repubblica.
Sembra evidente che il confronto parlamentare e il processo legislativo che si sta avviando nella commissione competente del Senato, in vista dell’entrata in vigore dell’European Media Freedom Act l’8 agosto 2025, avrà la sua utilità nel chiarire le idee e nella piena assunzione di responsabilità della “classe politica” italiana in questa materia.
[1] L’autore è stato dirigente ai programmi televisivi della Rai e dal 1991 al 1999 responsabile delle ricerche sugli aspetti qualitativi dei programmi trasmessi (Vqpt-Rai), ha insegnato Economia della televisione all’Università Cesare Alfieri di Firenze e Teorie e tecniche della comunicazione di massa alla Facoltà di Sociologia dell’Università la Sapienza di Roma. Dal 2008 è capo-redattore e vicedirettore della rivista Economia della cultura.
[2] La registrazione degli interventi nelle due giornate è disponibile in https://www.senato.it > attualità > archivio delle notizie 7 Novembre 2024.
[3] Più volte nel corso dei decenni la Corte di Cassazione ha definito il canone per le radiodiffusioni una “imposta di scopo” – vale a dire un’imposta il cui gettito non può essere destinato se non agli obbiettivi specifici per i quali è stata istituita.
[4] Non solo italiane queste imprese (fra le quali Mediaset, La7, TV locali, Radio Locali), ma anche estere (Sky, Discovery Italia, Eutelsat, Telecom, Viacom, eccetera), insieme con la Rai (!) associate dal 2013 nella “Confindustria Radio Televisioni”.
[5] L’Area Studi di Mediobanca valuta che la Rai incassa oggi circa l’86 per cento di quanto pagato dall’utente (era il 93% nel 2013). In termini assoluti vuol dire una trattenuta di 270 milioni all’anno dal 2016. La Rai, intanto, continua a presentarsi ai cittadini come unica percettrice delle risorse da canone. Vedi online il “Decalogo” Rai.
[6] Cfr. la registrazione delle audizioni dell’Amministratore Delegato Rai nel periodo 2021-2023, disponibili on line sul sito Commissioni-Web Tv Camera.
[7] Celestino Spada, “Dall’Europa una spinta a coltivare il sentimento della nostra comune cittadinanza”, Democrazia Futura, IV (3), luglio-settembre 2024. Anticipato ne Il Mondonuovo.club, 15 ottobre 2024.
[8] V. la costante, puntuale, “copertura del tema” assicurata su key4biz da IsiCult diretto da Angelo Zaccone Teodosi. Per tutti: “Dossier IsiCult: A proposito di ‘Tax Credit’ cine-audiovisivo, di decreti direttoriali e di commissioni di esperti…”, key4biz 30 settembre 2024.
[9] Michele Mezza, “A cosa serve oggi la Rai?”, Democrazia Futura, IV (3), luglio- settembre 2024. Anticipazione ne Ilmondonuovo.club, 1° ottobre 2024: “Oggi in Europa solo un tema rende irrinunciabile un potente sistema pubblico multimediale: la tutela di linguaggi e senso comune di un intero paese.”
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