STENIO SOLINAS O DELLA QUALITÀ IN SETTECOLORI

Stiamo parlando di Stenio Solinas. Stenio all’inizio degli anni Settanta del secolo passato si laurea in Lettere all’Università La Sapienza di Roma, con una tesi sullo scrittore Giuseppe Prezzolini. Romano classe 1951, Stenio milita nel FUAN, l’organizzazione dei giovani universitari missini (diverrà successivamente il Fronte della gioventù). La pubblica discussione è un affronto. Viene assediato. La seduta di laurea si tiene a porte chiuse. Un funzionario di pubblica sicurezza evita il peggio. La «meglio gioventù» di sinistra non tollera i fascisti. Di lì a poco, nello stesso ateneo, dimostrerà di non tollerare neppure i comunisti.

Lo scoprirà Luciano Lama. Il capo del sindacato comunista in una mattina piovosa del febbraio 1977 verrà messo in fuga. La sua nutrita guardia del corpo (che lo salverà a stento), composta dalle robuste tute blu dei portuali di Civitavecchia, si squaglierà al cospetto dalla forza d’urto «extraparlamentare». La strategia per assaltare il palco dove Lama sta parlando è perfetta.

Prima viene mandata in avanscoperta la cavalleria leggera degli «indiani metropolitani», allegri cazzoni tanto variopinti quanto innocui. Poi seguirà la cavalleria pesante degli «autonomi»: lancio di bulloni, bottiglie, pietre e uso di chiavi inglesi per finire il lavoro. Ma torniamo a Stenio. Il giovane laureato ancora non sa di avere un grande avvenire caricato sulle esili spalle. Scrive bene. Legge molto. Ha mille curiosità. E, soprattutto, avverte come troppo aderenti gli abiti dell’«esule in patria». Dopo collaborazioni sporadiche diventa giornalista professionista. Prima a La notte (1981), poi a L’europeo (1989), dove incontra il Vittorio Feltri, che lo porta a Il giornale (1994), affidandogli la responsabilità delle pagine culturali. In mezzo c’è la parentesi scandalosa di La voce della fogna, rivista satirica di destra (di brevissima durata), che imbarazza a tal punto i missini da cacciare il direttore Marco Tarchi (politologo di solidi studi), e sopprimere nella culla il foglio irriverente. Stenio ci mette poco a trasformarsi in un giornalista culturale di talento.

Scrive chiaro. Va diretto alle questioni. Non fa sconti a nessuno. Il suo sguardo oltrepassa le vicende nazionali per allargarsi, a centri concentrici, su un vasto mondo. Macina articoli brevi o lunghi. Spesso affilati come la lama di un rasoio. E quella scrittura asciutta, dettata talvolta dalla fretta quotidiana, una volta rivista, si riversa nelle pagine di libri perfetti. Magnifici libri. Coraggiosi. Controcorrente. In collaborazione con Maurizio Cabona pubblica C’erravano tanto a(r)mati (1981), testo chiave, trasversale, riflessione a più voci (dissonanti) sul senso tragico degli «anni di piombo», una «stagione all’inferno» gravida di estremismi, di destra e di sinistra.

Segue un’altra provocazione intellettuale: Per farla finita con la destra (1987). Poi Stenio ai saggi di critica letteraria, costume, viaggi (soprattutto acquatici), aggiunge tre splendide biografie, dedicate a personaggi poco conosciuti: Henry de Monfreid (2015), Wyndham Lewis (2018) e Saint-Just (2020). Il testo più personale e stimolante di Stenio e Compagni di solitudine. Una educazione intellettuale (di recente rieditato in una nuova versione da Bietti). A Stenio piacciono i ribelli, gli irregolari, gli esteti (anche quelli armati). Ama ritrarre le biografie dirompenti, che si tratti di Leni Riefenstahl o di Brigitte Bardot, di George Gordon Byron o di Pierre Drieu La Rochelle.
Compagni di solitudine è il confronto serrato con un’altra passione di Stenio: la storia.

Il Novecento è stato un secolo gravido di ideologie, spesso responsabili di figli mostruosi.

Ma è stato anche il secolo dell’avventura. Gabriele d’Annunzio, Lawrence d’Arabia e André Malraux hanno fatto della propria vita un’opera d’arte, legata all’esperienza della guerra, non meno di Ernest Hemingway e Louis-Ferdinand Céline. Il demone dell’avventura ha preso altre diramazioni. Ad esempio, ha contagiato viaggiatori-narratori come Paul Morand e Bruce Chatwin. Ma l’avventura, nel secolo delle ideologie assassine, si è coniugata con la militanza. Due splendidi ritratti, posti in parallelo, riassumono la questione.
Due comunisti. Uno russo emigrato a Parigi, Ilya Ehrenburg, scrittore e propagandista del verbo di Stalin; l’altro tedesco, Willy Münzenberg, autodidatta a capo di un potente gruppo della comunicazione (il «trust Münzenberg»), emigrato anch’esso a Parigi dopo l’arrivo al potere di Hitler. Ilya è la mente; Willy il portafoglio del comunismo internazionale. Ad entrambi si deve l’equiparazione (ancora oggi piuttosto in voga) del comunismo all’antifascismo. Idea geniale per occultare la natura totalitaria dell’Unione Sovietica. I due avventurieri per un buon tratto di tempo sono andati a braccetto, percorrendo senza inciampi la stessa strada. Uno appariva e disquisiva, dettando la linea; l’altro regolava il gioco restandosene dietro le quinte. Poi il «padre Stalin» si fece sospettoso.

La «vecchia volpe argentata» di Ilya trovò le parole giuste per rassicuralo; il «miliardario rosso» non ci riuscì. Entrambi «megafoni di Stalin», quest’ultimo spense per sempre la voce di Willy. Nella sua nuova vita di direttore editoriale Stenio Solinas sa scegliere libri interessanti come pochi. Gianpiero Mughini ha definito la Settecolori la più bella casa editrice in attività. Ed ha ragione. In poco tempo nel catalogo sono apparsi, tra gli altri, Giuseppe Berto e Louis Aragon, Robert Brasillach e Maurizio Serra, Jean Giono e Paul Morand, Lucien Rebatet e Francisco (Paco) Umbral. Senza dimenticare Justin Marozzi che in L’uomo che inventò la storia ripercorre oggi i viaggi di Erodoto. È un esempio rarissimo di storico-viaggiatore che guarda il passato per capire il presente, senza alcun preconcetto, con acume intellettuale e grazia nella scrittura. Si pubblica troppo? Pazienza! Importante è pubblicare la qualità.


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