Esistono molte ricette che portano i nomi dei luoghi che le hanno generate. Ma si tratta sempre di aggettivi: torta caprese, pasta alla siciliana, risotto alla milanese. L’unica ricetta che conosco che ha univocamente il nome di un luogo è quella degli spaghetti alla Nerano. Che poi neanche è esattamente vero; Nerano è il Comune, ma il posto è la frazione di Marina del Cantone sulla Costiera Amalfitana. La ricetta è originaria del Ristorante Maria Grazia, presente dagli anni cinquanta con i tavoli su palafitte, in un angolo terminale di una bella spiaggia di sassi.
Si tratta di una pasta con le zucchine solo in apparenza semplice, ma piena di insidie lungo il percorso della sua cottura. Leggiamo la ricetta: annotando che questa è solo una delle tante varianti che si accreditano come originali.
Ricetta Spaghetti alla Nerano
Tagliate le zucchine in rondelle sottili, friggetele in olio d’oliva e asciugatele su carta assorbente. In una padella mettete a soffriggere dell’aglio e levatelo quando ha preso colore. Intanto cuocete la pasta. Qualcuno frulla una parte delle zucchine. Salate le zucchine e adagiatele nella padella. Scolate gli spaghetti al dente, metteteli in padella con le zucchine e mantecate un poco ravvivando la fiamma, anche aggiungendo un po’ di acqua di cottura. Togliete dal fuoco, aggiungete il formaggio grattugiato; deve essere rigorosamente il provolone del Monaco di media stagionatura e mescolatelo alla pasta e alle zucchine. Qualcuno mette anche un po’ di Parmigiano. Si vagheggia di un segreto di Maria Grazia che mescola tre formaggi. Ma quali? Alla fine aggiungete pepe e il basilico. Personalmente, il basilico lo metto già tra le zucchine mentre si asciugano e, confesso, che a volte aggiungo anche un po’ di menta.
Da ragazzi, i nostri bagni seguivano un rituale preciso e ripetitivo. Fittavamo un gozzo a Positano e ci si dirigeva verso la Punta della penisola sorrentina per avere, al ritorno, il maestrale in poppa. La mattina ci si tuffava a Ieranto, più tardi sotto la Torre di Montalto e, al tramonto, nella Baia di Recomone. In mezzo c’era Marina del Cantone e il Ristorante di Maria Grazia, dove spesso scendevamo. Il gozzo che fittavamo si chiamava La Rinascita e, in pieno ’68, quel nome ci sembrava evocativo. Il prezzo era molto abbordabile per le nostre tasche, anche perché eravamo gli unici che potessero affittarlo. Per metterlo in moto bisognava girare una manovella dura e sinistrorsa, per cui occorreva qualcuno con molta forza nel braccio sinistro. Quel qualcuno noi lo avevamo: era il nostro amico Massimo.
La principale insidia nella preparazione degli spaghetti alla Nerano è nelle zucchine, che rischiano di essere troppo raggrinzite e, orrore degli orrori, addirittura annerite sui bordi e quindi insopportabilmente amarognole. Le rondelle vanno tagliate né troppo sottili, né troppo larghe; ma, soprattutto, devono essere tutte di uguale spessore per essere fritte in modo omogeneo.
Sulla Rinascita ci si andava più o meno in otto persone. Quella mattina eravamo dodici, quindi affittammo un secondo gozzetto con un motore fuoribordo. La novità era Natalie, una ragazza francese, figlia di uno scrittore in vacanza a Positano. La sera prima avevamo parlato a lungo; nonostante la mia timidezza ero avvantaggiato, rispetto agli altri amici, perché parlavo bene francese. Mi piaceva Natalie, capelli rossi e un taglio orientale degli occhi; forse era miope e questo accentuava il mistero del suo sguardo.
Un secondo rischio è nell’ottenere un piatto troppo asciutto, compatto, non scivoloso e armonico. La causa può essere un eccesso di amido in cottura, un’inadeguata quantità di olio in padella, una pasta messa in padella non troppo al dente.
Natalie, Massimo e gli altri erano sulla Rinascita, io guidavo il gozzo piccolo con due amici della comitiva e Mara, che aveva portato tra noi l’amica francese. Mara scherzava sulla sera prima: «Guarda che Natalie ti aspetta a braccia aperte». Altre volte ci ero cascato. Nella mia timidezza avevo paura a dichiarami e lei mi invitava a farlo sempre con quella frase, che, inevitabilmente, sfociava in cocenti rifiuti. Da Maria Grazia si sbarcava così. Si ancorava il gozzo, e un barchino veniva a prenderti per portarti alla scaletta del ristorante. Mi piaceva quella ringhiera di legno e tutte quelle balaustre riverniciate ogni estate. Dopo decine di anni la vernice aveva ormai un discreto spessore e, ogni tanto, un graffio rivelava quella delle passate stagioni.
Molte vernici prima, era arrivato da Capri Pupetto Sirignano, mitica figura di principe viveur degli anni cinquanta. La bettola di Maria Grazia non era ancora Ristorante e non aveva molto da cucinare.
«Maria Grazia pigliate queste zucchine e tagliatele a fette. Avete formaggio? mettiamo un po’ di questo provolone del Monaco. È poco? Aggiungiamoci anche un po’ di parmigiano. Con questo condiamo un bel piatto di spaghetti». Poi, rivolto alla sua comitiva: «Avete visto come si fanno i miracoli? Non è un caso che tra i miei ascendenti c’è San Gennaro».Fin qui la leggenda, ma ho un racconto indiretto di un testimone oculare che ricorda una storia un po’ diversa. Era il ragazzetto che guidava il motoscafo che portava il Principe da Capri alla Penisola. Lui ricorda che il Provolone del Monaco non c’era, ed è probabile che una semplice bettola non avesse un formaggio più costoso di altri. Forse si usarono parmigiano e pecorino. Ma la vera rivelazione del suo racconto è che, dopo quella prima volta, le zucchine venivano fritte il giorno prima, lasciate riposare con il basilico e, attenzione, ricoperte di parmigiano. Così le zucchine veicolano con loro il profumo del formaggio. È forse questo ancora il segreto? Poi probabilmente, col tempo, è arrivato anche il Provolone del Monaco.
La nostra tavolata era un po’ in fondo, quasi sotto la roccia. Ordinammo spaghetti alla Nerano. Da terra intanto era arrivato il Barone Carafa. Non lo conoscevamo di persona, ma era oggetto di un gioco che ci divertiva molto. Mentre ci passava davanti, qualcuno di noi diceva sempre: «Buon giorno Barone», e la risposta arrivava puntuale: «Uè bello, salutami a Papà!». Colpito da Natalie, il Barone le si avvicinò dicendole: «Ma a te lo specchio che ti dice la mattina? Che ti dice lo specchio?». «Barone, la signorina è francese non vi può capire». Allora lui senza perdersi d’animo: «Le miroir ne te dit pas, tous les matins, comme tu es belle?» Poi, a voce alta per farsi sentire da tutti: «Beati i Francesi! Io le cozze le mangio solo a Parigi!». Prima di sedersi al suo posto, girava tra i tavoli a salutare conoscenti e sconosciuti e, davanti al piatto con le zucchine, puntuale arrivava la storia del Provolone del Monaco.
«Questo provolone racconta una favola. Comincia nel lontano Afghanistan. Un ufficiale dell’epoca murattiana, originario di Agerola, qui su sulla montagna di Sorrento, diventato soldato di ventura nel lontano Pakistan, era stato nominato governatore di Peshawar. Con metodi efferati ridusse all’ordine le tribù di tagliagole di quelle terre. Aveva persino insegnato agli indiani a tirare d’artiglieria, riportando una mitica vittoria sull’esercito inglese. Di ritorno a casa, ricco e col titolo di generale, passò dall’Inghilterra dove Wellington, quello della battaglia di Waterloo, gli regalò una spada intarsiata di pietre preziose. Ma lì comprò delle mucche di razza Jersey, che incrociate con quelle di Agerola, generarono la razza Agerolina che ci dà il latte del provolone del Monaco. Qui inizia la seconda favola. Il generale che aveva domato gli Afghani, nulla poté contro gli Agerolini. Sposò, per interessi familiari, una giovane nipote che amava un suo coetaneo. Il povero generale perse la vita a Pasqua grazie a un capretto, che forse la nipote aveva avvelenato. Il lieto fine è che la giovane ricchissima sposò il suo amore».
Avevo sentito il Barone esibirsi decine di volte, ad alta voce, con questo racconto. Mi piaceva e ammiravo la capacità di usare sempre le stesse parole, come in un copione.Intanto, era arrivato l’Avvocaticchio, così era soprannominato, con una coppia di amici. Erano i genitori di Natalie. Natalie si alzò e mi chiese di avvicinarmi per presentarmi ai suoi. Ero un po’ imbarazzato; pensavo perché io e non gli altri? Perché parlavo francese? Perché significavo qualcosa per lei?
Tornammo a sederci. Tra gli amici si era sviluppata una discussione sull’origine del soprannome dell’Avvocaticchio. Chi glielo aveva affibbiato? Quando? E di qui altre derivazioni di fatti e fattarelli delle nostre estati.
La pasta con le zucchine quella volta aveva qualcosa di particolare. Sentivo un sapore e un odore di menta. Non so se era stato un colpo di vento dalla collina o una fogliolina finita per errore tra quelle di basilico. Nessuno aveva sentito quel gusto, che io trovavo straordinario.
Il piccolo segreto che alcuni praticano e metter molte foglie di basilico tra gli strati di zucchine che si asciugano. La zucchina un po’ esausta dalla frittura raccoglie meglio il profumo inebriante e penetrante del basilico. Lo stesso basilico poi si aggiunge fresco sul piatto, alla fine. Da quel giorno metto anche qualche fogliolina di menta sulle zucchine.
Da un motoscafo, era sbarcato un nuovo gruppo. Eccoli là, i soliti, chiassosi, esibizionisti, col loro repertorio di numeri conosciuti: mangiare il bicchiere di vetro, mordere appassionatamente l’orecchio dell’amata, per restituirle con un bacio l’orecchino staccato delicatamente con i denti, le poesie recitate a voce alta e così via. Li chiamavamo i “Feriti a morte”, dal nome di un famoso romanzo di qualche anno prima. Allora detestavo quel romanzo. Stavamo cambiando il mondo con la nostra rivoluzione, e lì si teorizzava che l’unica salvezza era fuggire da un luogo che “ti addormenta e ti ferisce a morte”, per poi soffrire per sempre della nostalgia di una vita che scorre tra mare, sole, salsedine, in un tempo fluido consumato vanamente.
Altra piccola questione: ma si può aggiungere, per mantecare, il burro nella padella? Si commette un sacrilegio? Alcuni ristoratori ce lo aggiungono. Certo rende fluida e cremosa la pasta, ma bisogna saperne controllare la cottura, altrimenti il disastro nel sapore è in agguato.
Avevamo finito di mangiare, quando Mara, e gli altri dissero che sarebbero tutti tornati con La Rinascita. In questo modo, così solo con me e Natalie a bordo, il gozzetto piccolo sarebbe andato più veloce. Intuivo la manovra per lasciarci soli, e già assaporavo il ritorno col vento in poppa. Prima di partire Mara portò a Natalie i suoi vestiti, e La Rinascita salpò rapidamente. Natalie volle scendere sulla spiaggia. Camminavamo lungo la risacca che agitava rumorosamente i sassi. A un certo punto disse: «Io non torno con te. Mi sarebbe piaciuto, ma è tutto troppo combinato.Voi siete molto uniti, passate da anni le estati qui, sapete nomi e soprannomi di tutti. Io sarei solo un racconto in più. Excuse moi, torno in macchina con i miei».
Un’ultima questione riguarda se mettere o no un rosso d’uovo. Alcuni ristoratori pensano che si aiuti la pasta a non “assettarsi”, aggiungendo alla fine un rosso d’uovo e dando due o tre giri agli spaghetti. Operazione rischiosissima che ci spinge verso terre lontane da questo mare, ai confini con la Carbonara.
Aveva ragione Natalie, anche il mio ritorno solitario, sarebbe diventato un nuovo racconto estivo, una chiacchera da bar. Quasi venti anni dopo la posta mi ha recapitato un suo acquarello di quella giornata. Sulla via del ritorno fui superato dal motoscafo dei “Feriti a morte”. Ci salutammo come si faceva tra barche amiche. Anni più tardi, dopo il terremoto dell’ottanta, ripresi in mano quel libro di La Capria, e l’ho amato come uno dei miei libri preferiti. Quei playboy giocherelloni e disperati, non avevano niente a che fare con la cattiveria e la volgarità di chi sarebbe venuto dopo. Non bisognava più lasciare la città per soffrirne di nostalgia; nessuno ti addormentava più, per ferirti a morte. Quei luoghi continuavano a esser votati alla piacevolezza del vivere, ma il peggio che poteva capitarci era, al massimo, di essere “Colpiti di striscio”.
Il pregio degli spaghetti alla Nerano è che ti lasciano in bocca il loro sapore per molto tempo. Niente di sgradevole solo un insieme armonico tra la forza del formaggio, la dolcezza delle zucchine e il sapore solista del basilico e per me, quella volta, della menta.
Nella baia di Recommone, gli amici della Rinascita nuotavano già nel sole del tramonto….. Da ragazzi, i nostri bagni seguivano un rituale preciso e ripetitivo. La mattina ci si tuffava a Ieranto, più tardi sotto la Torre di Montalto e, al tramonto, nella Baia di Recommone.
Qui potete leggere la ricetta dello Chef Salvatore Di Meo “Spaghettoni alla Nerano“.