La morte di Socrate e il destino della democrazia
Siamo negli anni Venti del V secolo a.C., il decennio successivo alla morte di Pericle e alla devastazione dell’Attica a opera delle truppe spartane. Di lì a due decenni, si assisterà, nella restaurata democrazia “moderata” ateniese, alla messinscena del processo a Socrate e alla sua condanna a morte.
Come è risaputo, Socrate viene condannato alla pena capitale da un tribunale popolare: ben 280 voti contro 220 nella sentenza di condanna. La vittima più illustre della democrazia, dunque, è quel Socrate che ci è stato tramandato dalla storia (anche e specialmente del pensiero politico) come quell’uomo democratico, non solo perché non di aristocratica discendenza (figlio, come è, di uno scultore e di una levatrice) ma per quel suo dialogico incalzare l’uomo comune considerato portatore virtuale della sapienza che alberga nell’interiorità di ogni uomo – non si può infatti far prendere coscienza del teorema di Pitagora perfino all’analfabeta che non sapeva di conoscerlo? – sicché a buon diritto poteva e può apparire come un sostenitore di quel sapere virtualmente alla portata di tutti, che consiste nella conoscenza della virtù, dunque della capacità di distinguere fra bene e male, fra giusto e ingiusto.
O non vale, piuttosto, l’interpretazione opposta – sviluppata a cominciare da Platone, il suo più illustre discepolo – dal momento che questa presa di coscienza trova la sua premessa nel sapere di non sapere, cui Socrate richiama non solo l’uomo comune ma anche il professionista del sapere, il sofista, smascherato nella sua dotta arroganza in quanto portatore di una concezione fondamentalmente elitaria della sapienza e della virtù e, di conseguenza, del governo?
Di fronte alla degenerazione del costume democratico non rischiava davvero Socrate di apparire, secondo la rappresentazione di Aristofane (Le vespe), come il fastidioso calabrone che pungolava la polis democratica, criticandone impietosamente le classi dirigenti e, perciò, prefigurando di fatto quel governo dei sapienti virtuosi come l’autentica élite capace di instaurare e rispettare quel governo delle leggi cui in ogni caso il governo degli uomini, sottostandovi, deve approssimarsi?
Ma allora, doveva considerarsi irrimediabilmente perduta la democrazia ateniese e diciamo pure la democrazia tout court come una delle tre note forme di governo?
Riprendiamo in esame il processo a Socrate. Il tribunale che lo aveva condannato, costituito da una giuria popolare di cinquecento (per la precisione, cinquecentouno) cittadini sorteggiati fra i comuni cittadini (per un anno) e non da giudici di professione, rispecchia fedelmente l’idea e la prassi della democrazia ateniese, imperniata su quella Ecclesia di cui, spesso, demos era sinonimo, democrazia in ogni caso caratterizzata fondamentalmente dal dilettantismo e non dal professionismo politico in senso tecnico. Siamo nella democrazia restaurata, dopo l’esperienza dei Trenta tiranni, democrazia definita “moderata”, ormai lontana da quella gloriosa della stagione periclea. Si fanno sempre più frequenti e incalzanti – da Platone a Isocrate a Senofonte – gli appelli alla patrios politeia, in un vano sforzo di restaurazione dei valori costituzionali.
È solo la voce dei conservatori? O dietro questo appello non si prepara quello stato d’animo che dispone il cittadino, pur nebulosamente, a favore della leadership personale di un gruppo ristretto di governo se non addirittura del carisma dell’uno (come uno era stato il mitico fondatore-legislatore della polis)? E, tuttavia, non si può negare che, comunque, le istituzioni democratiche funzionassero ancora. Ma funzionavano male. E Socrate ne è la riprova vivente.
È sufficiente questa constatazione per condannare irreversibilmente la democrazia?
Essa è certamente, come e anche più di ogni altra forma di governo, estremamente imperfetta, perché imperfetti sono i cittadini, gli uomini, non solo quelli comuni, ma anche i più competenti, saggi, sapienti e sarà lo stesso Platone a rendersene e a renderne via via conto nelle sue opere della maturità e della vecchiaia, ammaestrato dal fallimento dell’esperienza siracusana, tre volte invano tentata, intesa a instaurare, sotto la guida illuminata del “sapiente”, il migliore Stato possibile.
Perciò, questo governo degli uomini in cui si risolve per definizione la democrazia deve rimanere sempre, se non vuole degenerare, sotto le leggi, anzi, per le cose dette, la democrazia è – dovrebbe essere – il governo della legge per antonomasia.
E non è in ottemperanza a queste leggi e a testimonianza di queste leggi che Socrate non rinuncia – come potrebbe – alla pena capitale?
Socrate diventa così un vero e proprio problema: fin dall’inizio, dalla sua morte. Tutto il travaglio di Platone rappresenta una risposta, un tentativo di risposta al “problema Socrate”, che resta il problema di tutta la sua lunga vita.
Il problema di Socrate e il “problema Socrate” convergono, anzi coincidono, dunque, nel luogo ideale delle Leggi platoniche: l’autorità delle leggi, che fa tutt’uno con la razionalità e la virtù, sta alla base della polis, costituisce l’essenza della politica e, perciò, del governo, quale governo della ragione, di chi sa perché ha “scoperto” la verità: l’arte politica è l’arte del bene e del giusto, cui si giunge attraverso il dialogo, inteso non quale fine a sé stesso, quale retorica vòlta a convincere speciosamente la moltitudine, la “massa”, ma quale ricerca della verità in sé e per sé.
Il contributo di Socrate nella vicenda del pensiero democratico sta dunque nella ricerca del principio di legittimazione, alla luce del quale si capisce anche la sua critica della forma di governo democratico e, al limite, proprio in riferimento al suo incalzante procedere dialogico, la proposta di una democrazia quale “metadialogo” politico che presuppone la persuasione e l’evidenza, per un verso, e, per l’altro, quel fondamento di un potere-autorità che non parte dal basso ma dall’interno.
A voi lettori, benevoli, le conclusioni.
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