STORIA DELL’IDEA DEMOCRATICA PARTE 2

2. Teorie del potere e forme di governo (prima parte)

Quando nell’autunno del 522 a.C. venne ucciso Gaumata che, sotto le false spoglie del fratello di Cambise II, Berdiya o Smerdi (dallo stesso Cambise, in realtà, assassinato clandestinamente prima di partire per la guerra), aveva usurpato il trono persiano, ci racconta Erodoto che i sette sapienti protagonisti della rivolta contro l’usurpatore si riunirono e “deliberarono sulla situazione generale”.

Era da poco morto a Ecbatana (o a Damasco), in seguito a un incidente (o forse per suicidio) senza lasciare eredi, lo stesso Cambise II, dopo la triennale campagna d’Egitto conclusasi con l’infelice spedizione contro gli Etiopi (cinquantamila uomini sepolti dalla sabbia nel deserto degli Ammoni al confine con la Libia).

Esito amaro che pare obbedire alla legge del contrappasso, quello di Cambise, il quale, poco prima, aveva dovuto assistere – vero fulmine a ciel sereno – all’annuncio degli araldi inviati dalla Persia per ottenere l’atto di sottomissione da parte dell’esercito al falso Berdiya che, approfittando del malcontento popolare diffuso a causa della pressione fiscale aggravata dalla lunga campagna bellica, aveva esentato i sudditi dal servizio militare e dai tributi per tre anni, ottenendo così – come testimonia l’iscrizione di Behistun (l’antica Bisutun) – largo consenso a proprio favore e mettendo con ciò fuori gioco Cambise, ancor prima che morisse.

I sette sapienti, esponenti dell’alta nobiltà persiana e, in quanto tali, rappresentanti (o, comunque, presumibilmente rappresentativi) del popolo, ci dice dunque Erodoto che aprirono un dibattito sulla forma di governo da adottare. Tre di loro, Otane, Megabizo e lo stesso Dario, si assunsero rispettivamente la difesa della democrazia, della forma aristocratica e di quella monarchica, ciascuno esponendo e decantando i pregi della propria e, viceversa, criticando i difetti delle altre.

Così, il primo presenta, in contrapposizione alla tirannide (monarchia dispotica), la democrazia, come fondata sull’uguaglianza dei diritti, funzionante attraverso deliberazioni sottoposte al pubblico dibattito, l’estrazione a sorte delle magistrature e il rendiconto, la garanzia del processo. Ecco l’arringa: “È un mio parere che non più un solo uomo sia unico nostro capo; è un cattivo sistema e non riesce gradito. Avete visto a quale esagerazione si è spinta la tracotanza di Cambise e vi è toccato sperimentare anche quella del Mago, l’usurpatore. E come potrebbe essere la monarchia un ben ordinato reggimento, quando le è lecito fare ciò che vuole senza rendere conto? Il miglior uomo del mondo investito di tale autorità essa lo farebbe uscir fuori dal suo modo abituale di vedere. I beni di cui il monarca dispone lo rendono insolente, e l’invidia è vizio innato dell’uomo; e con questi due malanni egli è affetto da ogni magagna.

E commette molti delitti: sia per orgoglio – perché gode di eccessivo benessere – sia per invidia. Eppure chi è tiranno dovrebbe essere esente da invidia, perché possiede ogni bene; invece la sua disposizione d’animo verso i cittadini è opposta a questa: invidia i migliori finché vivono e sono al mondo, si trova bene con la gente peggiore e ha una speciale inclinazione a dare ascolto alle calunnie. Impossibile vivergli accanto. Se lo ammiri con moderazione, si offende perché non lo corteggi abbastanza; e se lo si corteggia assai, si offende perché lo aduli. E passo alle accuse più gravi: sconvolge i costumi aviti, fa violenza alle donne, uccide senza processi.

Il governo del popolo, invece, porta anzitutto il nome che più affascina: uguaglianza dei diritti. In secondo luogo non procura nessuno dei danni che il monarca procura: tiene le magistrature a sorte, rende conto del potere esercitato, sottomette al pubblico tutte le deliberazioni. Io, dunque, consiglio di rinunziare alla monarchia e di affidare il potere al popolo, perché nel potere del popolo sono tutti vantaggi” (Erodoto, Storie, III, 80, 2-6).

Al contrario, per Megabizo – e per Dario – “non c’è nulla di più stupido e insolente di una moltitudine inetta”, “irrompe e precipita senza capire: è un fiume in piena” (Erodoto, Storie, III 81, 1-2). Senza dire – è questa, poco dopo, l’opinione di Dario – che il popolo “agisce per complotti” (Erodoto, Storie, III, 82, 4) e opera attraverso quelle “forti amicizie” che noi definiremmo clientelari, corporative e faziose o, in ogni caso, lobby (ma che, in quanto “sètte”, come venivano definite fino a due secoli fa, cioè in quanto fazioni, sono state alla base del perdurante pregiudizio verso i “partiti”, anche da parte di illustri e profondi pensatori, fino alla fine dell’Ottocento). Perciò, dice Megabizo, noi “diamo il potere a un gruppo di uomini scelto tra i più capaci”, dai quali, infatti, “si aspettano le decisioni più sagge” (Erodoto, Storie, III, 81, 3).

“Non si può trovare nulla di meglio – incalza a sua volta Dario – di un governante unico, se questi è il migliore” (Erodoto, Storie, III, 82, 2). “La mia opinione è dunque che, divenuti liberi per opera di un sol uomo, conserviamo tale regime e, a parte ciò, di non sovvertire le istituzione avite, che danno affidamento, perché non ci guadagneremmo” (Erodoto, Storie, III, 82, 5). A lui, del resto, come a un “protettore” ricorre il popolo quando le lotte tra gli oligarchi fanno decadere lo Stato nel disordine generale. Così come la libertà (quella, cioè, del popolo non reso schiavo di altri), ribadisce Dario, “è venuta da un monarca”.

La discussione si conclude con una votazione che vede cinque su sette magi aderire all’opinione dello stesso Dario, con la sconfitta della proposta di Otane “che si era adoperato per stabilire tra i persiani l’uguaglianza” (Erodoto, Storie, III, 83, 1). Questi, perciò, si chiama fuori: “Perché non voglio né comandare né essere comandato; e rinunzio al potere a questa condizione: che né io personalmente né tutti i miei discendenti sottostiano al comando di nessuno di voi” (Erodoto, Storie, III, 83, 2). Conclude, a sua volta, Erodoto: “E ora è questa la sola casa che in Persia continui a essere libera, non soggetta che fin dove essa consente, pur osservando le leggi persiane” (Erodoto, Storie, III, 83, 3).

Si chiude, dunque, col richiamo positivo alla libertà e al consenso e con quello negativo al rifiuto contestuale di “comandare” e di “essere comandati”, questa famosa pagina che vede da parte di un greco di frontiera (nativo, per la precisione, di Alicarnasso), il primo elogio esplicito della democrazia e stabilisce, più in generale, il dominio della legge – il nomos – cui i cittadini, non sudditi, della polis sottostanno, a differenza dell’immaginario orientale dove (forse un po’ troppo convenzionalmente) monarca e tiranno si identificano con lo Stato e con la legge.

Il comando della legge – che è uguale per tutti e di fronte a cui tutti sono uguali – è un comando oggettivo (noi diremmo oggi inter-soggettivo), che in qualche modo trascende i singoli (la democrazia, insomma, come quel governo delle leggi per antonomasia con cui tende a coincidere il governo per antonomasia degli uomini, cioè dei “tutti” e dei “molti. Sulla democrazia come governo delle leggi (e della virtù) v. Plutarco, Il convitto dei sette sapienti, 11, 154d): “Sapete bene – afferma Eschine (Contro Ctesifonte, in L. Canfora, Antologia della letteratura greca. Il periodo attico, Laterza, Roma-Bari, 1987, t. 3, p. 343) – che ci sono al mondo tre forme politiche: la tirannide, l’oligarchia, la democrazia; ebbene, mentre tirannidi e oligarchie sono dirette in base al carattere dei governanti, le città democratiche lo sono dalle leggi”.

Ma, in ogni caso, come non definire già “democratica” la procedura di questa specie di Costituente raccontata da Erodoto, che vede discutere e deliberare a maggioranza, su piede di parità, i rappresentanti delle genti persiane convocati per scegliere precisamente la forma di governo?

Si tratta, dunque, di darsi ragione di un’assemblea costituente autoconvocata democraticamente e che democraticamente prende le decisioni supreme, quelle appunto riguardanti la forma di governo e perciò prima che, eventualmente, sia stato scelto l’assetto democratico (o qualunque altro, monarchico o aristocratico).

È un caso tipico – il primo che incontriamo – dal quale emerge chiaramente il duplice significato che, come abbiamo visto, si attribuisce al termine “democrazia”.

Certamente, nella sua connotazione più specifica, esso designa una forma di governo, precisamente quella illustrata da Otane secondo i requisiti accennati prima: il potere responsabile del popolo, considerato capace, cioè competente, di prendere le decisioni politiche, fondato sull’“uguaglianza dei diritti” – potremmo aggiungere, del potere, nel senso dell’uguaglianza di chi comanda e di chi è comandato (traducendo in positivo, come farà Aristotele ma poi anche Montesquieu, le amare conclusioni di Otane) – e che funziona attraverso il dibattito pubblico e il sorteggio delle cariche, sotto la supremazia della legge.

Ma il termine “democrazia” designa qui, ancor prima, in quanto atto fondativo e “costituente”, una teoria del potere in sé, in nome della quale, infatti, i rappresentanti del popolo persiano si arrogano il diritto di scegliere come governarsi e da chi essere governati e lo fanno su piede di parità all’insegna della libertà (i sette sono uomini liberi) in una discussione fondata sulla forza persuasiva dell’argomentazione (anche se, per il vero, si tratta della traduzione e della trasposizione della logica ellenica in ambiente persiano), concludendo con una decisione presa a maggioranza (cinque su sette sapienti optano per la monarchia).

Questa teoria del potere poggia sul fondamento del consenso popolare e/o dei rappresentanti del popolo e, dunque, presuppone l’uguaglianza di questi (popolo e/o rappresentanti del popolo): di qui, la procedura democratica che caratterizza questo dibattito costituente. Chiamiamola democrazia spontanea o naturale (se non, addirittura “primitiva”), o costituente o “originaria”, nel senso che indica la posizione originaria di una società politica, ma in ogni caso essa rivela la convinzione che il potere trova il suo fondamento nel consenso. È la teoria del “potere dal basso” o ascendente e che, successivamente, sarà definita della “sovranità popolare”, come distinta da quella dell’esercizio di questa sovranità, che riguarda, infatti, la forma di governo.

Ma veniamo a un secondo esempio, pur molto distante nel tempo, analogo a questo erodoteo che, peraltro, era già stato ripreso da Dione Cassio (Storia romana, LII, 1-41), altro storico di origine greca ma dell’età dei Severi, il quale immagina un analogo dibattito sulla forma di governo fra Ottaviano, Agrippa e Mecenate, sul quale però non possiamo soffermarci.


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