Atene, V secolo a.C.: democrazia e leadership
“Il suo nome è governo del popolo”, esordisce Pericle, a proposito della Costituzione ateniese, dall’alto della tribuna da cui tiene il discorso commemorativo, in occasione dei funerali di Stato per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso.
Guerra infausta, questa tra Sparta e Atene, in cui, nella lotta per la supremazia ellenico-egea, si trovano contrapposte la gran parte delle poleis schierate nella Lega delio-attica e in quella peloponnesiaca. Già l’inizio, dopo l’attacco ateniese di Potidea e l’invasione e devastazione, da parte di Archidamo re di Sparta, dell’Attica, ha visto gli abitanti costretti a rifugiarsi dentro le mura di Atene, da dove assistono impotenti alla distruzione dei raccolti e alla messa a ferro e fuoco di tutti i loro averi.
Di lì a poco, con la seconda spedizione archidamica, scoppiata la peste in città, Pericle, ritenuto responsabile della guerra, sarà deposto dalla carica di stratega, che deteneva quasi ininterrottamente da circa un quindicennio, e, pur richiamato e rieletto l’anno seguente, proprio della peste finirà vittima illustre, come era già capitato ai suoi due figli. Ma per ora, nell’inverno fra il 431 e il 430 a.C., siamo alle battute iniziali e alle prime vittime della guerra archidamica, come, appunto, viene denominata questa fase della guerra peloponnesiaca.
In questo celebre epitaffio, Pericle, strategos autocrator, insomma leader incontrastato (come erano stati Temistocle, Aristide, Cimone e, forse, più di loro), tesse le lodi di Atene e della sua Costituzione. Ecco come presenta e giustifica la democrazia: “Perché affidiamo la città non a una oligarchia, ma a una più vasta cerchia di cittadini, ma in realtà le sue leggi danno a tutti indistintamente i medesimi diritti nella vita privata; e per quanto riguarda gli onori ognuno viene prescelto secondo la fama che gode: non per l’appartenenza all’uno o all’altro partito, a preferenza del valore”(Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 37). E precisa ancora: “Senza alcuna costrizione nella vita privata, nei rapporti pubblici non trasgrediamo la legge, soprattutto per reverenza verso di essa: ubbidendo ai magistrati in carica e alle diverse leggi soprattutto (…) alle leggi disposte in favore delle vittime di un’ingiustizia e a quelle che, anche se non sono scritte, per comune consenso minacciano l’infamia”. Inno all’uguaglianza democratica che, naturalmente, si innesta su quella “società aperta” (“la nostra Città è aperta a tutti”) che è caratterizzata dalla libertà: “libera si svolge la vita nella nostra Città”.
È all’insegna di questa uguaglianza e libertà, di questa uguale libertà, che si realizza la partecipazione democratica: “Anche se ognuno di noi è preso da occupazioni diverse, riusciamo tuttavia ad avere una buona conoscenza degli affari pubblici. Il fatto è che noi siamo soli a considerare coloro che non se ne curano non persone tranquille, ma buoni a nulla. E siamo gli stessi a partecipare alle decisioni comuni ovvero a riflettere sugli affari dello Stato, poiché non pensiamo che il dibattito arrechi danno all’azione; il pericolo risiede piuttosto nel non chiarirsi le idee discutendone, prima di affrontare le azioni che si impongono”.
Alla libertà nella vita privata (“relativamente ai rapporti quotidiani”) corrisponde la libertà pubblica (“per quanto attiene i rapporti con lo Stato”) che si esprime nella libertà di partecipazione alle decisioni politiche.
Ed è una libertà che sembra anticipare (pur nella grande differenza) quella concezione che si svilupperà e maturerà solo nella modernità: “ciascuno singolarmente, per quanto a me sembra”, prosegue Pericle, “sviluppa presso di noi una personalità autonoma” (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 41).
Ciò che di recente ha fatto reinterpretare la celebre distinzione constantiana fra libertà e democrazia degli antichi e dei moderni secondo una prospettiva più attuale, vicina, quindi, alla nostra sensibilità civica e civile.
Si tratta, in ogni caso, di quella libertà di partecipazione (pur privilegiata) alla vita politica per cui – sono ancora parole di Pericle al quale si deve, fra l’altro, l’assegnazione di un adeguato compenso per i giurati del tribunale popolare e per gli altri magistrati – “noi direttamente o decidiamo almeno di una proposta o meditiamo debitamente sulle questioni politiche”.
Che l’affresco di Pericle tenda a idealizzare la democrazia e la vita politica ateniese è più che comprensibile, date le circostanze in cui il discorso è tenuto e la personalità dell’oratore; e non va dimenticato che siamo, in un certo senso, al culmine della potenza, della prosperità e dello splendore di Atene, dove ormai è conservato il tesoro della Lega delio-attica.
È l’epoca di Fidia, il famosissimo scultore che ha lasciata impressa nell’acropoli l’orma del suo genio straordinario. È l’epoca in cui, per esempio, Euripide mette in scena la Medea, Sofocle l’Edipo re. Il 430 a.C. è l’anno in cui muore Zenone di Elea, famoso per i suoi paradossi, come quello di Achille e la tartaruga.
Respiriamo, insomma, l’aria della massima fioritura delle arti e delle lettere, favorita dalla fortuna dell’imperialismo democratico (quindi della democrazia “imperialista”) ateniese al suo acme.
Non meraviglia, allora, che Pericle additi in Atene la “scuola dell’Ellade”, trasfigurando in un ideale universale la concezione paideutica della politica: la politica, insomma, come educazione, come maturazione e crescita della persona, la cui autonomia è, per così dire, lo specchio dell’autosufficienza della polis, secondo la definizione di Aristotele nel secolo seguente (ma, sia chiaro, ancora una volta noi prestiamo ermeneuticamente i nostri concetti – come quello di persona – agli antichi e questo è un limite, non solo linguistico, da non dimenticare mai).
Così conclude Tucidide la sua visione della democrazia che, nelle pagine (libro VIII) e negli anni successivi, si configurerà in realtà come una forma mista in cui la guida politica è affidata a persone sagge – una vera e propria élite – in grado di indirizzare e limitare le passioni popolari e, nello stesso tempo, sotto il controllo degli altri cittadini: “Allora, per la prima volta più che mai, almeno per quanto ricordo – afferma dopo la caduta dell’oligarchia dittatoriale sostituita dal governo dei Cinquemila – gli Ateniesi furono ben governati, perché allora vi fu una saggia combinazione di elementi oligarchici e democratici; e questa ragione diede il primo impulso alla città per rialzarsi da quella situazione che si era fatta disastrosa”.
Cerchiamo di riassumere il senso delle affermazioni di Pericle che, per quanto si conceda alla retorica, stupiscono per la loro modernità (secondo i nostri parametri), almeno nell’interpretazione creativa di questo grande – il più grande – storico ellenico, Tucidide, che poco dopo le celebri pagine dell’epitaffio, nel suo lucido realismo, riconosce che “il governo che ne risultava era, formalmente, del popolo, in realtà era del primo cittadino”: una democrazia, insomma – diremmo noi – a forte leadership personale, quale governo dell’uno col consenso dei molti, che, appunto, già così configura di fatto un modello di “forma mista”.
Quale che sia l’interpretazione (testuale e contestuale) corretta dell’elogio funebre di Pericle, è difficile negare il suo sforzo di mostrare come la democrazia estendeva a tutti i cittadini ateniesi i privilegi prima garantiti ai “pochi” delle classi superiori: la democrazia, insomma, era il governo fondato sull’uguaglianza, ma una uguaglianza non bassamente livellatrice, al contrario, competitivamente meritocratica (perché basata sulla aretè).
Proprio perciò non coincide con quel principio e quel presunto valore che sarà decisamente attaccato, parecchi anni dopo la morte di Pericle, da Platone: la democrazia “distribuisce uguaglianza a piene mani a chi è uguale e a chi uguale non è affatto” (Repubblica,558c).
Pertanto, fosse anche stata nella realtà effettuale (democrazia “reale” o “realizzata”) una democrazia “demagogica” se non addirittura populista – comunque, una autocrazia basata sul consenso popolare – questa notissima pagina tucididea ce ne tramanda il modello ideale come poteva e doveva essere avvertito e auspicato dalla più elevata coscienza riflessa e colta (anche senza dimenticare la critica della demagogica e populista “democrazia reale” da parte dei maggiori intellettuali dell’epoca successiva, da Platone ad Aristotele). Di essa noi, in ogni caso, possiamo qui cogliere i caratteri ideali (almeno nel senso di “tipici”).
In sintesi: originalità e originarietà della costituzione ateniese nella cornice di una concezione integrale (partecipativa) ma non totalistica (non olistica) della politica come vita umana (in realtà, si è visto, dei “liberi” contrapposti agli schiavi, degli uomini contrapposti alle donne, dei cittadini contrapposti ai meteci, ecc.), caratterizzata dalla supremazia delle leggi; centralità della comunicazione come discussione e riflessione (razionale), vòlta a ottenere il consenso; comunicazione, quindi, che presuppone la libertà nel senso più ampio (non solo negativo di non schiavitù, ma positivo di libertà di parola e di intervento) e uguaglianza sia come isonomia (di fronte alla legge) sia come isegoria (uguaglianza di parola) sia come isocrazia (uguaglianza di potere) e, quindi, come uguaglianza di voto; per dirla con la sintesi con cui Polibio, più di due secoli e mezzo dopo, designerà la democrazia greca: “Non si potrebbe trovare un sistema di uguaglianza di diritti, libertà di azioni, e in genere di vera democrazia, nonché una costituzione politica più genuina di quella degli Achei” (Polibio, Storie, II, 38).
Infine, e a coronamento, si ribadisce, cittadinanza come autonomia della persona cui corrisponde l’auto-sufficienza della polis (“in grado di provvedere pienamente a se stessi”): ecco i punti salienti dell’epitaffio, che naturalmente meglio si illumina attraverso analoghe pagine dello stesso Tucidide, come, per esempio, quelle in cui viene riportato il discorso già richiamato di Atenagora (VI, 39), capo del partito democratico, nell’assemblea di Siracusa in occasione della spedizione ateniese guidata da Alcibiade nel 415 a.C.
Afferma costui in risposta a Ermocrate, l’oratore che l’ha preceduto: “Ma io rispondo: anzitutto che per popolo si intende la comunità e per oligarchia una parte di essa; poi, che i migliori custodi delle finanze sono i ricchi, i consigli più accorti provengono dagli intelligenti e le più sagge decisioni, dopo che si è discusso, le prende la maggioranza; e nella democrazia costoro, considerati sia ceto per ceto, sia tutti insieme, godono ugualmente parità di diritti”.
Qui è soprattutto l’uguaglianza come “parità di diritti” a caratterizzare il governo popolare identificato con la comunità (si sottolinei la giustapposizione dei tutti o popolo come “comunità” ai pochi – l’oligarchia – come parte di essa), ma, sotto il profilo istituzionale, contemperata da un’oligarchia: e così ritorna di fatto la figura della forma mista, governo, in ogni caso, che obbedisce al principio di legalità e che giunge alle decisioni politiche prese a maggioranza dopo discussione. Ed è, si capisce, la forma preferita di Tucidide, nel cui epitaffio pericleo la democrazia va intesa, dunque, sia nel senso più ampio di teoria ascendente e consensuale del potere, sia in quello più specifico e tecnico di forma istituzionale di governo.
A proposito di forma mista, sempre restando in una prospettiva realistica, la sua configurazione storicamente più ricorrente e più assimilabile alla – se non identificabile con – la democrazia si trova, dunque, in quel governo consensuale, cioè basato sul consenso popolare dei “tutti”, a guida “aristocratico-oligarchica”, da intendere nel senso – per utilizzare il nostro linguaggio – delle teorie elitistiche. Queste (da Gaetano Mosca in poi) sostengono – come si è accennato – che, a prescindere da tutte le forme di governo o, se si vuole, che in tutte le forme di governo, chi comanda effettivamente è sempre una minoranza organizzata sopra la maggioranzadei governati, legge che vale anche per i governi a maggioranzapopolare (maggioranza elettorale), cioè democratici: questa, insomma, rimanda sempre a una “classe politica” o “élite”, pur soggetta al ricambio periodico (quando addirittura non rinvii alla leadership dell’“uno”, a sua volta espressione di tale classe politica) ma, s’intende, sulla base legittimante del voto popolare (dove ricompare il duplice significato di democrazia).
Ne abbiamo visto l’esempio classico, appunto, in Tucidide, dove, anzi, possiamo cogliere una sintesi dei requisiti fin qui recuperati dell’idea (realistica) della democrazia (assunta come “modello” per così dire “sincronico” tratto dalla storia del pensiero politico, storia che è sempre “diacronica”).
Anche se non si può negare che da tale configurazione emerga sostanzialmente un concetto che pare – e da un certo punto di vista è – antitetico, di per sé, proprio alla democrazia quale espressa nella sua stessa denominazione letterale: essa, alla fine, si rivela a noi contemporanei non, per la precisione, come un “governo del popolo”, ma, semmai, un “governo in nome del popolo e dal popolo controllato”. È il popolo che – almeno in via formale se non sostanziale – legittima elettoralmente la classe di governo e che ne manda e ne conferma o ne alterna al governo alcuni suoi esponenti, in quanto rappresentanti (l’elezione senza rappresentanza popolare non equivale di per sé solo a “democrazia” – cioè governo, pur indiretto, del popolo – giacché anche una monarchia o una repubblica aristocratica possono essere elettive e quindi prevedere l’elezione delle rispettive magistrature, a cominciare dalla suprema). Ma va pure precisato che, quando il consenso popolare da “formale” degeneri in una finzione puramente “formalistica”, priva di qualunque riscontro effettuale nella realtà, a tal punto, dalla democrazia si è decisamente fuori e si è ormai in presenza di un governo oligarchico quando non (prima o poi) monocratico, insomma, di un governo effettivo che non corrisponde affatto più al governo formale.
Ma torniamo alla nostra narrazione, tenendo presente questo modello (sincronico) che si ricava dalla storia del pensiero politico greco: modello poi tramandato nei secoli per la sua armonica ed equilibrata architettura politico-istituzionale, che nulla ha da invidiare a quella dei monumenti conservati dalla grande e irripetibile arte greca e ateniese in particolare, fiorita in questo periodo straordinario.
Certamente, a tale prestigioso sviluppo politico-istituzionale non si giunge d’un tratto, né senza travagli e lotte (come poi dirà, ma a vantaggio dell’esperienza costituzionale romana, l’ultimo dei pensatori politici greci, Polibio). La democrazia non rappresenta un frutto spontaneo, per così dire “selvatico”, ma è il risultato di un lungo processo di maturazione, che un politologo come Samuel Huntington definirebbe di “democratizzazione”, cioè secondo uno svolgimento graduale per acquisizioni successive; discorso, del resto, che vale per la stessa polis quale tipo di organizzazione politica che non ha precedenti storici specifici (men che meno in quell’Oriente politico cui viene spesso contrapposta).
A questo processo converrà fare un cenno, illustrando per grandi linee le riforme istituzionali, sociali e politiche che si legano ad alcuni celebri nomi, talora circonfusi di una luce e di una fama leggendarie e che – da Dracone a Solone – conobbero anzi un lungo periodo di incubazione, durante il quale fu viva fino all’esasperazione la contrapposizione fra i grandi proprietari terrieri e i poveri in genere; ma si pensi, ad esempio, al crescente gruppo di piccoli proprietari indebitati, chiamati hektemoroi, perché dovevano devolvere un sesto della produzione ai primi, pena la schiavitù.
Di qui, il grande compromesso soloniano dei primissimi anni del VI secolo (594 a.C.), quando, investito del potere di riformare la società, l’eupatrida, mentre tenne ferma la vigente distribuzione della proprietà, abolì, dopo la concessione di un’amnistia generale, la schiavitù per debiti, restituendo la libertà a quanti erano stati resi schiavi per insolvenza ed esentando gli hektemoroi dalla devoluzione della sesta parte.
Solone procedette alle riforme istituzionali. Istituì, infatti, il tribunale popolare della Eliea, costituito da giurati, a cui, fra l’altro, era concesso appello contro decisioni dei magistrati, sia per conto della parte lesa sia nell’interesse pubblico. Si viene compiendo, così, quel processo che porta all’applicazione obiettiva delle leggi – che fino a Dracone (621 a.C.) non erano scritte ma affidate alla tradizione mnemonico-orale degli “eupatridi” – ormai sottratte, dunque, alla discrezionalità dei giudici dell’“antico regime” aristocratico.
E così, come dirà Aristotele, il popolo, diventato padrone delle sentenze, diventa padrone della costituzione (Aristotele, La costituzione degli ateniesi, IX, 2).
A parte, poi, l’assetto politico-sociale, realizzato con la divisione in quattro classi degli ateniesi – i pentacosiomedimmi (coloro che possedevano 500 misure di prodotti in natura), gli ippei (o cavalieri), gli zeugiti (proprietari di una coppia di buoi) e i teti (i salariati, braccianti a giornata), questi ultimi esclusi da tutte le cariche politiche – assetto che trasferì l’elezione dalla nascita alla ricchezza, la più importante delle riforme costituzionali attribuite a Solone fu l’istituzione del Consiglio dei Quattrocento. Questo organo, composto di cento membri per ciascuna delle quattro tribù, aveva il compito di istruire tutte le questioni che dovevano essere decise dall’Assemblea. Infine, a coronamento di tutta l’opera, Solone redasse un nuovo codice di leggi, destinato a durare per centinaia di anni.
L’altro grande riformatore, dopo l’esperienza tirannica di Pisistrato, seguita da quella del figlio Ippia, fu Clistene (508-7 a.C.), che istituì il Consiglio dei Cinquecento, basato su una nuova divisione dell’Attica – su base territoriale anziché sulla ricchezza – in dieci tribù, trenta trittie (tre per tribù) e 139 demi, divisione destinata anch’essa a durare per più di 700 anni. A Clistene si deve anche l’introduzione del Collegio degli strateghi, in numero di dieci, eletti annualmente dal popolo, e che presiedevano al nuovo modello di esercito, il cui nerbo era costituito dai reggimenti degli opliti, forniti da ciascuna delle dieci tribù. Infine, sotto Clistene venne introdotto l’ostracismo, con cui un leader poteva essere mandato in esilio per un decennio (senza perdita di status o proprietà).
A completare la democratizzazione istituzionale pensò Efialte (458-7 a.C.) che trasferì tutti i poteri politici dell’Areopago – superstite istituto aristocratico – agli organi decisionali quali l’Assemblea, il Consiglio e il Tribunale popolare, lasciando al primo solo la competenza per l’omicidio in cui la vittima fosse un cittadino ateniese.
In sintesi, se con Solone venne assicurato l’accesso popolare (eccettuate le due ultime classi) alla Ecclesia e alla Eliea e con Clistene al ghenos venne sostituito il demos nella nuova geografia politico-elettorale dall’Attica, con Efialte il processo di democratizzazione istituzionale venne a compimento grazie allo svuotamento dei poteri e delle attribuzioni dell’Areopago e alla loro concentrazione specialmente nell’Ecclesia.
Sia chiaro – va ribadito – che queste tappe del processo di democratizzazione in cui si pongono via via le basi istituzionali per lo sviluppo dell’eguale libertà dei cittadini, propria della democrazia, non tutte si inseriscono nella storia vera e propria di quest’ultima (come, senz’altro, con Clistene); alcune riguardano, infatti, solo la sua pre-istoria (così, per esempio, con Solone). Ma tutte hanno contribuito, indirettamente o direttamente, alla graduale maturazione della nostra forma di governo.
Nel frattempo, la trasformazione di Atene da potenza terreste (che, con Clistene aveva proceduto alla razionalizzazione dell’esercito, composto di dieci reggimenti con a capo un generale) a potenza marittima aveva visto l’emersione storica dei teti, fra i quali venivano reclutati gli equipaggi. E, come abbiamo intravisto, le braccia a cui sono affidate le navi – “è il popolo che fa andare le navi e ha reso forte la città”, dice lo Pseudo-Senofonte – sono le stesse che, inevitabilmente, finiscono per prendere in mano la nave dello Stato…
La logica conseguenza è, infatti, che a buon diritto “le magistrature siano accessibili a tutti – sia quelle sorteggiate che quelle elettive – e che sia lecito, a chiunque lo voglia, di parlare all’assemblea”. “Chiunque lo voglia” – in greco: ho boulomenos – indica il soggetto che prende l’iniziativa per le leggi (approvate dai nomothetai) e per i decreti (di competenza dell’Assemblea), in genere colui che prende la parola e propone mozioni.
Pur in apparenza espressione dell’uguaglianza democratica, ho boulomenos, come specifica Demostene, è più precisamente “qualunque ateniese lo voglia fra quelli a cui è consentito”: certamente, “persona qualunque”, priva cioè di uno status ufficiale; anche se nella concreta realtà storica – si ribadisce – era sempre una minoranza (per livello di educazione, per attitudini oratorie, ecc.) quella che saliva sulla tribuna degli oratori. E minoranza ancor più ristretta era quella rappresentata dai politici di professione, come li chiameremmo noi oggi, avessero la veste dell’oratore dell’Assemblea o di legislatore o di generale (stratega), quindi di magistrato finanziario o di promotore di processi pubblici.
La loro estrazione e il loro reclutamento, in buona sostanza, avvenivano tra i benestanti (tali in origine o anche in conseguenza della carica politica), insomma, una vera e propria élite ristretta che concentrava nelle sue mani l’effettivo potere (come accade ancora oggi, per esempio, fra le grandi famiglie degli USA e non solo lì).
È quanto, del resto, emerge da quella specie di antiepitaffio, come è stato definito, che è la Costituzione degli Ateniesi del citato Pseudo-Senofonte, acerrimo critico della democrazia (“reale”) ateniese: “Giacché, appunto, se stanno bene e si accrescono i poveri, la gente del popolo, i peggiori, allora si rafforza la democrazia. Quando il popolo consente che prosperino i ricchi e la gente per bene, non fa che rafforzare i propri nemici”.
L’importante, per il popolo, è “essere libero di comandare”, non certo il buon governo.
L’Anonimo è sicuramente un oligarca convinto e, dunque, un vero e proprio elitista teorico: “In nessuna città l’elemento migliore è favorevole al popolo, bensì l’elemento peggiore: il simile favorisce il proprio simile”.
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