Teorie del potere e forme di governo
Siamo, con l’equipaggio, all’interno di un’astronave in rotta verso un pianeta da colonizzare: il pianeta della manna. Ancora una volta, dunque, è còlto un momento di “fondazione” della società politica (non dissimile da quella che storicamente portò, oltre atlantico, alla nascita delle colonie, futuro nucleo degli USA), il cui concreto retroterra storico va individuato nella perdita di slancio economico che lo sviluppo aveva via via conosciuto in Occidente nel secondo quarto di secolo successivo alla Seconda guerra mondiale e che ora si rilevava non più indefinito e nel conseguente dibattito apertosi nel mondo anglosassone e angloamericano intorno agli anni Settanta sul ritornante problema della giustizia sociale fra John Rawls, Robert Nozick, Frederick von Hayek, Ronald Dworkin, Michael Walzer e, più in generale, fra neo-contrattualisti e neo-utilitaristi (posizioni di cui si cerca, in questo racconto, il superamento).
L’equipaggio dell’astronave si imbarca in una discussione a fondo sui criteri della distribuzione della ricchezza (la “manna”, che per noi potrebbe anche rappresentare la risorsa per eccellenza del potere) che troverà sul pianeta di atterraggio; discussione che, qui, possiamo equiparare a quella sul governo da darsi nel nuovo pianeta, se nella distribuzione delle risorse consiste quell’amministrare in cui consiste, appunto, il governare. In realtà, l’oggetto immediato e contingente della discussione riguarda lo “Stato sociale” – o, meglio, il nuovo “Stato sociale” – da instaurare; ma, dietro a questo dibattito, emerge la questione della legittimazione.
Infatti, il problema che, più a fondo, l’autore dell’apologo pone è quello della giustificazione del potere (nella prospettiva di una società liberal-democratica) e per la cui soluzione utilizza lo strumento del dialogo “neutrale”: dialogo, cioè, che obbedisca ai requisiti della razionalità, della coerenza e, appunto, della neutralità, sul presupposto generale dell’uguaglianza (“iniziale”) di ciascun interlocutore, sicché la sua opinione “vale quanto quella di ogni altro”, ognuno avendo “diritto a un grado minimale di decisività”.
Principio di anonimità, di indifferenza al risultato e regola maggioritaria completano idealmente questo libero dibattito proceduralmente corretto che riproduce, in termini contemporanei, la concezione classica della politica (della democrazia) come comunicazione (e/o discorso).
Così, di fronte ai vari problemi, temi o punti che infittiscono l’o.d.g. nella discussione all’interno dell’astronave in viaggio interplanetario, da quello della ricchezza a quello della cittadinanza (quando, atterrata l’astronave Explorer, l’equipaggio di questa si trova a discutere con quello di un’altra – l’Apollo – poco dopo anch’essa sopraggiunta sullo stesso pianeta), dai diritti di nascita e biologico-generazionali a quelli demografici e così via, tutto viene passato al setaccio del “dialogo neutrale”, cioè del “dialogo pubblico in cui ciascuno può ottenere riconoscimento sociale della sua condizione di essere libero e razionale”.
È attraverso di esso che ciascuno può e deve rispondere alla richiesta di legittimazione della propria posizione sui vari problemi, a cominciare dalla giustificazione del potere per il quale e nel quale le parti sono in reciproca contesa. In poche parole: il dialogo (“democratico”) – il cui svolgimento è proceduralmente garantito da una comandante “moderatrice” – non riguarda solo il governo dell’astronave, ma la stessa istituzione della cittadinanza e perciò dello Stato.
Dunque, la democrazia non rappresenta solo la procedura istituzionale della “tecnica di governo” per la distribuzione delle scarse risorse, ma la stessa costituzione della società politica e, quindi, della cittadinanza (dato che, come ci insegna già il pensiero greco, cittadinanza e città – o società politica – vanno di pari passo). In questa prospettiva, la democrazia rappresenta una specie di “meta-dialogo” (o di premessa) per la legittimazione dialogico-democratica.
Il racconto di Ackerman è perciò tanto più interessante perché da esso emerge lo strumento inestricabile che avvince il discorso sulle cosiddette “politiche” possibili di una società o di un assetto liberal-democratici e quello, inevitabile, più a fondo e fondamentale sulla corrispondente legittimazione, sui presupposti che stanno alla base stessa del governo liberal-democratico.
In altre parole, si tratta dell’intimo legame, appunto, pur nella distinzione, fra i due significati di democrazia, quale principio di legittimazione del potere (nel lessico di Ackerman, democrazia come “meta-dialogo”) e quale forma del suo esercizio-governo.
Nesso che trova espressione, non solo simbolica ma istituzionale, nel voto che costituisce la traduzione politica di quel consenso posto sia a fondamento giustificativo e costitutivo o costituente del potere in genere (in quale che sia forma di governo e, anzi, logicamente precedendola) sia della verifica tecnico-istituzionale con cui di volta in volta si conferisce – e si rinnova con l’alternanza – il mandato a governare (nella specifica tecnica forma di governo “democratica”).
Per concludere queste quattro parti.
Nel cuore di un avventurosa campagna bellica (quella d’Egitto guidata da Cambise e dopo una cospirazione vittoriosa contro l’usurpatore, Gaumata, ucciso e detronizzato dai sette sapienti) come nel pieno di una guerra civile (quella inglese, nel 1642-9), infine nel corso di una trasmigrazione inter-stellare (quella dell’Explorer) sempre ci troviamo in presenza di un inizio o di un nuovo inizio (la congiunzione “o” va presa in un significato esplicativo piuttosto che disgiuntivo: storicamente, l’inizio rappresenta sempre un nuovo inizio nel senso di un rinnovamento o di una ripresa della tradizione in cui l’uomo è calato e contro la quale opera. L’inizio nel senso archetipo, cioè dell’archè quale principio originario, è, infatti, un concetto filosofico-limite, come lo erano per i filosofi ionici il fuoco e l’acqua o il vento o i “quattro elementi” insieme.
D’altro canto, l’idea illuministica del “nuovo inizio” come “inizio nuovo” o, meglio, “ex-novo”, ossia la rivoluzione è, si sa, tutta moderna e la letteratura in materia ha dimostrato – da Edmund Burke ad Alexis de Tocqueville fino agli storici contemporanei, ad esempio François Furet – che anche il supposto e teorizzato rovesciamento della tradizione è pur sempre interno a questa, nel senso che anche l’anti-tradizione, in nome di una affatto nuova tradizione da inaugurare con la rivoluzione, rimane una teoria ottativa, per così dire, storicamente non verificabile), di un momento di eccezione, in una fase costituente, dove si prendono le decisioni fondamentali, che stanno a fondamento della convivenza politica. E sempre vediamo riprodursi la situazione che abbiamo definito di democrazia “originaria” o “naturale” o, appunto, “costituente” – caratterizzata dall’uguaglianza-libertà dei costituenti e da regole e procedure già democratiche (o meta-democratiche) – situazione nella quale si delibera l’assetto istituzionale e, dunque, la forma di governo eventualmente (come nei casi riportati) democratica.
È il caso storico, per noi italiani, che si è verificato nel 1946, con il referendum istituzionale e le elezioni dei rappresentati per l’Assemblea Costituente.
Il primo, cioè la convocazione degli elettori con suffragio universale maschile e femminile (quest’ultimo per la prima volta nel Paese), per la scelta della forma di governo (monarchia o repubblica democratica), decisa quindi a maggioranza, implicava già il presupposto democratico nel primo significato del termine e cioè la sovranità popolare. La seconda – l’Assemblea Costituente – a sua volta elaborò la Costituzione, sia nella parte programmatrice sia in quella istituzionale, e cioè concernente l’organizzazione e il funzionamento, insomma l’esercizio del potere (dei poteri), in una parola, la forma di governo democratica (repubblicano-democratica) che rappresenta, appunto, il secondo significato del termine.
Sono altrettanti esempi da cui traspare quella duplicità di significato di cui il termine “democrazia” è sostanzialmente carico. E centrale in tutti e tre è il ruolo del consenso di cui titolare è il “popolo” (nelle sue varie accezioni storiche, sociologiche e politologiche) o, quanto meno, i suoi rappresentanti (in senso ampio, non necessariamente nel senso tecnico-istituzionale moderno e contemporaneo).
Ma chi è il “popolo”, quale il suo ruolo politico, appunto, nell’assetto istituzionale – o in previsione di questo assetto – democratico?
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