STORIA DELL’IDEA DEMOCRATICA PT6

“Kyrios ho demos”

Tornando al dipinto di Eufranore citato nell’articolo precedente, possiamo in ogni caso prendere atto che Demokratia è, a un certo punto, assunta a divinità: ci ricorda, infatti, lo storico che alla dea Demokratia gli ateniesi, nel 330 a.C., dedicarono una statua, a cui le offerte da parte dei generali ci sono testimoniate dai rendiconti dei tesorieri di Atene, ritrovati in frammenti di marmo che risalgono a quel periodo (ma il culto di Demokratia pare sia stato di fatto istituito già nel 403 dopo la guerra civile).

Si tratta, dunque, del riconoscimento a posteriori della presa del potere da parte del popolo emancipato.

L’emancipazione del popolo si presenta, perciò, come la condizione stessa della democrazia, la quale, nell’originale greco – demokratia, il cui uso è documentato nella seconda metà del V secolo – è un astratto (come dimostra la finale in “ia”) formato da due (sostantivi) concreti, demos e kratos, popolo e potere/forza e quindi rivela una evoluzione non solo linguistica. Kratos è diverso da archè (da cui monarchia,oligarchia, ecc.) che rimanderebbe piuttosto al comando (militare-politico), in certo modo traducibile col latino imperium.

La democrazia si impone come e con un colpo di forza da parte del popolo e del popolo come parte, non come i “tutti” quale somma di un “uno”, “pochi”, “molti” (in questo caso è la “isonomia” a indicare la partecipazione di “tutti”: termine che è più vicino al significato moderno-contemporaneo di democrazia, quanto meno se intesa in senso ideale, quale ideale di democrazia o democrazia ideale).

Il popolo come parte sono i “poveri”, con tutto ciò che nell’antichità (e non solo nell’antichità – si pensi alle critiche sulla società di massa fra Otto e Novecento) vi va congiunto: l’ignoranza, cioè la mancanza di istruzione, la mancanza di educazione, la venalità, la volubilità, irrazionalità e così via.

È detto in Tucidide (Guerra del Peloponneso, VI, 39, 1) che il sostantivo che qualifica la democrazia, e cioè demos, indica anche l’intera comunità, a differenza della parola oligarchia che allude a qualcosa di partigiano o fazioso.

Dunque, il demos assume due significati, uno ideale (e, se si vuole, “universale” nel senso del popolo – universitas), per cui il popolo viene a indicare la cittadinanza, e cioè sia la parte popolare di quanti lavorano (dei poveri) sia quella dei pochi liberi dal lavoro; e un significato realistico per cui esso indica, appunto, solo la fazione dei molti, che sono poveri e lavoratori: il popolo qui è parte, e anzi la parte (ritenuta) più faziosa e inaffidabile della cittadinanza. Distinzione che, mutando col mutare dei contesti storici, si ritroverà poi sempre, naturalmente in forme nuove.

Se una caratteristica fin d’ora si può delineare nel concetto e nella realtà del “popolo” è che, mentre l’uno (il re) o i pochi (gli aristoi) contano individualmente, il popolo resta tendenzialmente (e comunque si tende a considerarlo come) una totalità indifferenziata, tanto più se definito come plethos o, in modo peggiorativo, come ochlos, termine questo che suona in senso non troppo lontano da quello indicato con la parola romana plebs, da cui deriva il nostro peggiorativo. Anche quando se ne conteranno i voti o singolarmente (ad Atene) o corporativamente (a Roma), è sempre alla loro somma che si guarda per il risultato finale (solo quando il popolo verrà considerato nella prospettiva individualistica, cioè come l’insieme degli individui-elettori a suffragio universale, saremo arrivati alla democrazia contemporanea).

Ed è in concreto una somma, quella dei presenti/votanti (che sono ad Atene sempre una minoranza intorno al quarto/quinto dei cittadini), che sta per il “tutto”, che, cioè, per una inevitabile finzione, rappresenta l’unanimità degli aventi diritto alla decisione politica. Certamente non si tratta di quella rappresentanza in senso istituzionale che esprime l’esplicita (moderna e contemporanea) volontà di delega.

Ma resta vero che anche la democrazia diretta non si può mai realizzare alla lettera perché, quando il soggetto politico è il popolo pur riunito in assemblea, come ad Atene, e i seimila partecipanti vi prendono una decisione, questa si trasforma per ciò stesso in volontà di tutta l’assemblea virtuale, comprendente la totalità dei cittadini e, dunque, anche di tutti i cittadini assenti, pur aventi diritto alla partecipazione e al voto: insomma, pur essendo istituzionalmente organo di partecipazione diretta, l’assemblea popolare – ecclesia – implica una rappresentanza (non in senso istituzionale) di tutto il popolo la cui presenza unanime, di fatto, è irrealizzabile.

In questo senso, una parte diventa in realtà rappresentativa di tutti, così come anche la rappresentanza istituzionale si risolverà, dal punto di vista sostanziale, in una finzione. E, tuttavia, il diritto di parola e di voto, naturalmente, già fa intravedere che, quando al popolo si guarderà e il popolo verrà considerato nella prospettiva degli individui che lo compongono e dei gruppi in cui questi, a loro volta, si organizzano, allora è maturata, complice il cristianesimo, la democrazia contemporanea (pur nell’antichità ellenica prefigurata).

E sta proprio qui il paradosso storico che, specialmente a cavallo fra il XIX e XX secolo, vede, insieme, la nascita delle teorie elitiste – per le quali, a prescindere dalle forme di governo, è sempre una minoranza organizzata che governa sopra una maggioranza – e l’organizzarsi delle masse (popolari) dei governati (nei sindacati, partiti, ecc.).

Queste ultime si organizzano al fine di controllare il potere dei governanti con il voto che li conferma o ne determina il ricambio al governo. Ed è proprio questa contro-organizzazione del “popolo” democratico che, a sua volta, sta alla base della mobilità politica, cioè del passaggio, non solo virtuale ma effettivo, di componenti delle classi popolari in quella “politica”.

La vera originalità della democrazia sta praticamente in questa struttura analoga della classe governata rispetto a quella governante (a sua volta la teoria elitista esce confermata dal fatto che, per organizzarsi, le masse – e dunque i partiti e i sindacati di massa – vedono al loro interno formarsi gruppi ristretti – segreterie politiche – con i rispettivi leaders di governo interno).

La democrazia contemporanea, non a caso, nasce individualista per poi svilupparsi come “sociale” (o nasce, insieme, come individualista e sociale: così negli Stati Uniti d’America). Da questo momento, ogni tentativo di retrocedere a totalità indifferenziata, a “massa” (tentativo che fa tutt’uno con quello di ritornare alla “comunità” primitiva o società di vicinato, abbandonando la “società” in senso stretto e moderno, cioè differenziata e complessa o società di “contratto”), non potrà sortire che totalismi – tali anche i “populismi” – o totalitarismi.

In conclusione: il popolo, in senso politico, indica sia quella delle tre parti che, rispetto all’“uno” (monarca) e ai “pochi” (aristocrazia), si pone come la specifica parte dei “più”, cioè dei “lavoratori” o “poveri”, sia quella universitas che comprende le tre parti insieme e, in questo senso, costituisce veramente “tutti” (in senso universale).

Ma si tratta dei “tutti” presi secondo una prospettiva “pluralista” – non solo perché comprensiva delle tre “parti” (o, almeno sociologicamente, delle due parti, i ricchi e i poveri) ma anche perché la parte più numerosa è, a sua volta, naturalmente (o spontaneamente) articolata in corpi ed enti “intermedi”, come poi si dirà, e non artificiosamente e artatamente monolitica o “totalista”, che conduce, invece, alla caduta nelle varie forme di “populismo, di “plebiscitarismo”, di “democrazia totalitaria”, come è stata chiamata, infine, di veri e propri totalitarismi.

Da queste degenerazioni emerge anche l’ideale di “popolo” come articolato (sociologicamente o socialmente) nelle tre parti – così troviamo nelle Supplici, 238 ss. – dei cittadini ricchi, dei nullatenenti e di coloro che stanno in mezzo, né troppo ricchi né troppo poveri, cui spetta salvare “la città mantenendone l’ordine”. Il demos come meson viene così a prefigurare, da Aristotele in poi, quell’ideale moderato di democrazia che, per un verso, farà leva, ai nostri giorni, sui ceti medi (alti e bassi) intesi ormai in senso tecnico-sociologico, per un altro verso, tecnico-istituzionale, tende a convergere se non proprio a identificarsi con la forma mista, combinazione di elementi (organi) istituzionali (assemblea elettorale, parlamento, gabinetto-governo e premier-capo del governo) e, rispettivamente, di “parti” politico-sociali proprie della forma di governo dei pochi e dei molti oppure – altra diffusa variante dottrinaria – dell’uno, dei pochi, dei molti. In questa e di questa quarta forma di governo, il popolo rappresenta, infatti, la universitas comprensiva (alla lettera) dei “tutti”.

Ma è, questo, più un auspicio che una costatazione: dal punto di vista realistico, resta il fatto, per Aristotele, che il governo dei molti, cioè del demos, è di fatto il governo degli aporoi, i poveri, i non ricchi che sono la maggioranza e, insieme, rappresentano la gente comune.

Ritroviamo, così, l’ambiguità semantica del termine, che indica sia la gente ordinaria, in contrapposizione alle classi più elevate, sia l’insieme di entrambi, i “tutti”, appunto.


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