STORIA DI BOBO

Un tratto di campagna umbra ai piedi degli Appennini. Altopiano di media quota intorno ai 500 metri. Inizia a Nocera Umbra dove si arriva percorrendo la via Flaminia.                      

La strada, all’altezza di Foligno, dopo aver toccato Spoleto, si impegna in un passaggio tra il monte Subasio a sinistra e i rilievi preappenninici a destra.                                                                                                                      

Raggiunge Nocera Umbra dopo 25 chilometri, salendo di 300 metri e si immette sull’altopiano che termina a Scheggia dopo altri 35 chilometri. Lì attraversa la catena montuosa degli Appennini superando l’omonimo passo posto a poco più di 600 metri. Da qui la consolare scende sino al mare Adriatico delle Marche Pesaresi.  

L’altopiano non è piatto, ma mosso da forre e rilievi, con gli Appennini incombenti a destra e alture collinari a sinistra che nascondono Gubbio e il suo territorio.                                                                                                                    

Casolari nei campi e paesi che la via romana attraversa: Colle di Nocera, Gaifana, Rigali, Gualdo Tadino, Fossato di Vico, Purello, Sigillo, Scirca, Costacciaro, Villa col dei Canali, Scheggia. A sinistra dei paesi la campagna è intatta, con esclusione di Gaifana dove grandi capannoni ora tragicamente vuoti raccontano un tentativo di sviluppo abortito.      

Questa parte di mondo è abitata dagli Umbri, un’etnia di montanari chiusi e diffidenti, che hanno visto passare davanti a loro la storia del mondo, standosene in disparte, astenendosene per quanto è stato loro possibile. Forse per influsso genetico o a seguito della batosta che ebbero ad accusare in quel del Sentino, quando, mettendosi insieme ad etruschi e sanniti si ribellarono ai romani, da allora in poi rimanendone gli alleati più fedeli.

Dalla Flaminia che corre in queste contrade si distaccano vari diverticoli, che attraversano gli Appennini. Servivano agli uomini per raggiunge il mare Adriatico, per commerci, per il sale, per partire per l’Oriente, per sentirsi meno soli. Uno di questi, da Nocera lungo la valle del Potenza raggiunge il mare in prossimità di Senigallia, e conserva tutt’oggi un nome antico: via Prolaquense o Semptempedana.

Ricorda il nome antico dell’attuale S. Severino, e l’attraversamento di una zona lacustre nei pressi di Pioraco.                                                       
Un’altra strada fu fatta costruire da Papa Clemente XII per raccogliere il sale marino.  Ancora oggi la strada si chiama Via Clementina. Raccontano di un’altra di cui si è persa traccia e che taluni individuano in un tratturo scosceso della montagna tra Gualdo Tadino e Sigillo percorso da Totila con i resti del suo esercito dopo la sconfitta subita ad opera del generale bizantino Narsete.  La battaglia, combattuta in questo luogo dell’Umbria, vide la sconfitta dei Goti e la morte di Totila. 
La tradizione della gente del posto favoleggia di una sepoltura dello stesso in un luogo sconosciuto della montagna, dove si troverebbe la sua corazza dorata e altri tesori.  
C’è chi, ancora oggi, batte la montagna con metal detector per scoprire e appropriarsi del bottino, senza risultato, o forse trovatolo e saggiamente occultato, magari rivenduto a qualche museo americano o ricco antiquario.  D’altra parte questi luoghi a ridosso o lungo la via Flaminia si sono rivelati essere nei secoli un ricco deposito di reperti e tesori: la biga italica trovata sopra Spoleto e ora in America.  
Pochi anni fa, il ritrovamento a pochi chilometri di distanza, a Cartoceto, in territorio marchigiano, di un gruppo di sculture in bronzo e oro della famiglia imperiale Giulia.  Era sepolto a meno di un metro di profondità e individuato dall’aratro di un contadino che stava preparando la terra per la semina.   

In questo territorio, poco o nulla cambiato nei secoli, vengono da alcuni anni i pastori sardi con i loro greggi per il pascolo estivo. Arrivano con grandi camion dove stipano gli animali, accompagnati da un certo numero di cani maremmani.  Sono da anni trapiantati nel continente, vivono i mesi invernali a Civitavecchia sul mare, oltre il quale sta la loro Sardegna che possono immaginare al di là delle acque e dove vanno ogni tanto per incontrare parenti e le cose della vita trascorsa. 

Nei mesi estivi vengono in Umbria per il pascolo estivo, più Umbria che altre regioni appenniniche, forse per la somiglianza della loro con la lingua umbra, chiusa e gutturale, e un po’ anche per il carattere della gente.  Da alcuni anni vengono nella campagna che si estende intorno al paese di Sigillo.  Un contratto d’affitto virtuale con i proprietari dei terreni, perché, dopo i raccolti e prima delle semine, il brucare delle pecore pulisce il terreno, i loro escrementi lo fertilizzano, e questo nel contempo dà loro il nutrimento per vivere.  
Arrivano con tutto l’armamentario dei pastori, per mungere gli animali, raccogliere il latte, cagliare il formaggio, infine tosarli.  Su tutto vigilano i cani maremmani, quasi pastori in seconda.  
Sono dieci magnifici esemplari che accompagnano le pecore durante la giornata di pascolo, le sorvegliano, perché non si perdano, le radunano la sera per il riposo della notte, vigili a quanti, uomini ed animali, avessero intenzioni di preda o di altro disturbo.  Sul far della sera i cani si dispongono lungo un’ideale linea fortificata che circonda il gregge, ognuno al suo posto, assegnato da un regista inflessibile e scrupoloso.                                                                             

Il regista c’è e si chiama Bobo. È il cane dominante, il più vecchio, ma ancora in salute e autorevole, gli altri gli devono sottomissione.    

Una sera di un inverno freddo e piovoso, C., la proprietaria del fondo, con il marito M., vagavano in macchina sulle strade della loro campagna.  Un giro sul far della sera, prima di rintanarsi in casa per la notte in attesa del nuovo giorno. Passando nei pressi di un casolare dove era ancora lo stazzo per il rifugio notturno delle pecore, intravidero in lontananza una macchia bianca o meglio una cosa che una volta era stata bianca e la pioggia, il fango, foglie e fili d’erba avevano ricoperto come una coltre da dannati.
Era Bobo, quasi irriconoscibile, che stava a guardia dello stazzo ormai vuoto. Era il suo compito, stava scritto nei suoi geni e costasse qualunque cosa, lui stava e avrebbe continuato a star lì, anche se gli armenti non c’erano più.  Era accaduto che i pastori partendo d’inverno alla volta di Civitavecchia, si fossero dimenticati di imbarcare sui camion Bobo, che si era allontanato dal gruppo, come spesso gli capitava, obbedendo al suo istinto di indipendenza.           

Quando li vide arrivare si allontanò, rintanandosi dietro un dosso da cui poteva comunque controllare le loro mosse e magari intervenire se si fossero avvicinati più di tanto.  Quella sera C. ed M. quando tornarono a casa si precipitarono a trovare il numero di telefono dei pastori.
Questi erano due fratelli.
Dino e Giuseppe, uno sposato con famiglia, l’altro scapolo di mezza età. Avevano una sorella che risiedeva a Gualdo Tadino, e da lei ebbero il numero di telefono. Questi, contattati, non si mostrarono troppo preoccupati per la sorte di Bobo, dissero che loro non potevano tornare a riprendere il cane, per lo meno non prima di un mese o due.

Bisogna a questo punto fare un passo indietro all’estate appena trascorsa. Accadeva che soprattutto la sera dopo la calura del giorno, C. e M. andassero in campagna dove incontravano Giuseppe e Dino.  Si intrattenevano parlando amabilmente di facezie, della campagna, degli animali, dei balli domenicali di Giuseppe, degli afflati poetici di Dino. 
Dopo si facevano da parte e osservavano il lavoro dei pastori che preparavano la notte degli animali. 
Radunavano le pecore più vicine a loro, per le altre ci pensavano i cani, che ad un fischio di Giuseppe si mettevano alacremente al lavoro e si sostituivano ai padroni.  M. aveva timore dei cani e se ne stava prudentemente vicino ai pastori per evitare rischi, e per questo veniva preso un po’ in giro.  

Ma sopportava gli sfottò e si sentiva in qualche modo legittimato nella sua prudenza per gli episodi di violenza cui aveva più volte assistito.  In particolare una sera tra Bobo e un altro cane del branco, ribattezzato Ulisse da C.   

Era accaduto che, una volta munte le pecore, era rimasto un po’ di latte in una ciotola, i due cani si erano ritrovati nello stesso momento a metterci la testa.  Ne era seguita una rissa furiosa che nemmeno il bastone di Giuseppe scaricato sul dorso dei contendenti era riuscito a sedare.
Un’altra volta, se possibile, la scena era stata ancora più terrificante.   Un signore romano, possessore di un doberman che era il terrore del paese, aveva preso l’abitudine di venire a passeggiare in campagna.  Lasciava libero il cane che, oltre che nella piazza del paese dove faceva il vuoto al suo apparire, ora anche in campagna seminava il terrore per i malcapitati che si trovavano a girare nella zona.
Una sera M.e C. si trovavano a parlare con i pastori, dinanzi al casolare dove stazionavano le pecore, quando sentirono latrare il doberman che a grandi falcate si avvicinava a loro.  Stava quasi arrivando alla meta che si era prefisso, chi sa con quali non gradevoli scopi, quando Bobo pigramente abbandona il suo cantuccio e si porta al centro dello spazio, volgendo la testa verso l’intruso galoppante.
La corsa del doberman si arresta a pochi centimetri dall’altro. 
I due musi che si fronteggiano.     Il doberman latra ancora di più, Bobo persiste nel suo silenzio. Si guardano fissi. Bobo inarca il corpo, ritta la coda, l’altro volge altrove lo sguardo, si gira e se ne va.
Non era accaduto niente, ma la scena aveva una carica selvaggia di violenza che lasciò nell’aria qualcosa come una elettricità che i presenti percepirono su di loro, anche sui pastori che erano più avvezzi al rapporto con gli animali. 
Nell’estate, che aveva preceduto l’abbandono di Bobo, C. aveva cominciato ad avvicinarsi ai cani sotto lo sguardo attento dei pastori ed era riuscita a stabilire un contatto, da legittimare il suo naturale non aver paura degli animali, anche di quei maremmani, che disturbati sul posto di lavoro avrebbero potuto rivelarsi ostili.
Li aveva ribattezzati con nomi della cultura classica: Ulisse, Cleopatra, Diomede, etc. … 
Si avvicinava a loro, li chiamava, non andava oltre come avrebbe voluto, consigliata cosi dai pastori per i quali il rapporto con i cani era fatto di essenzialità: richiami imperiosi, bastonate all’occorrenza, certo non carezze o altre smancerie.

Ciò nonostante C. giorno dopo giorno, riuscì ad avvicinarsi ai cani più da presso e azzardare qualche carezza, con molti, non tutti.

Tra questi il più ostico era Bobo che avrebbe voluto cooptare con gli altri in un rapporto che avrebbe previsto coccole e altre cose del genere.  Ma con Bobo no, non fu possibile. Lui non se la filava, al richiamo di lei si allontanava, o come fanno gli umani, girava la testa altrove. 
Quasi se avesse avuto parole, a dire: “ma questa che vuole da me”?

“Vedi di non insistere che quanto meno ti arriva una digrignata di denti”.       

Poi l’estate era finita e si arrivò a quell’inverno con l’abbandono di Bobo.  Dopo quella sera del fortuito avvistamento, la sera successiva e poi tutte le altre che seguirono, C. cucinava un pastone caldo che poi trasportavano in campagna in prossimità dello stazzo.
Bobo rimaneva lontano, ma se ne intuiva la presenza e sera dopo sera cominciò ad avvicinarsi sì da poterlo intravedere.      

Dopo che loro se ne erano andati, consumava il lauto pasto, come potevano verificare la sera successiva trovando la ciotola vuota. Dopo qualche giorno anche con loro presenti, ma a debita distanza.       

Con il cibo cominciò a riacquistare un aspetto dignitoso, trovò le forze per accudire il suo corpo e l’aspetto ne migliorò.
Il pelo tornò ad essere bianco, folto e pulito, mise su grasso e muscoli, e cominciò a vagare per la campagna lanciando ululati notturni che riaffermavano la sua salute e certificavano per coloro che erano nella zona la sua presenza sul territorio.
In lui, la solitudine, l’assenza del lavoro assoluto che era stato sino ad allora la sua vita, la libertà, che il caso gli aveva concesso, mitigarono quel timore nei confronti dell’uomo- padrone, che diventava ferocia verso gli altri. Il cielo terso delle notti d’inverno, la campagna intorno dormiente, ma vigile, in attesa dell’esplosione primaverile, lo facevano confusamente sentire parte di un tutto che inconsciamente lo apriva ad un rapporto diverso, quasi di minore diffidenza, di comunione con il circostante.
Così lentamente e progressivamente C.  portando la sera il pastone, poté avvicinarsi sempre di più e cominciare a cogliere nello sguardo di Bobo meno diffidenza.    

Forse un grazie?

Dopo circa un mese i pastori ebbero modo di tornare in Umbria e si portarono via Bobo. Venne di nuovo l’estate, tornarono i pastori e con loro il gregge, i cani maremmani e Bobo. Se ne stava come al solito per conto suo, in disparte. Controllava il circostante pronto ad intervenire: pecore da accudire, cani da comandare, estranei da cacciare. I pastori erano i suoi padroni, tra loro c’era un contratto non scritto ma cogente più della carta stampata.       

Gli davano carta bianca, loro sopraintendevano, procuravano il cibo, che per i cani spesso era solo pagnotte di pane e quello che rimaneva del lavoro serale sul latte delle pecore.
Però c’era qualcosa di più quell’anno per Bobo. L’inverno appena trascorso un essere umano, C., lo aveva salvato dall’abbandono, dalla fame, dal freddo.         Lui in qualche parte dei suoi gruppi di neuroni sapeva tutto questo, ma questo non poteva articolarsi in un pensiero logico, quella cosa girava, riverberandosi nei circuiti neuronali della regione talamica, del rinencefalo, dove è la sede della memoria e dell’affettività.       

Sentì che quell’essere, simile ai suoi pastori, stessa razza ma diversa da loro, gli procurava uno stato di contentezza al suo apparire. Gli si placava dentro l’aggressività pronta a scattare con la contrazione dei suoi muscoli, con il rumore digrignante dei denti affilati. Fu così che quando C. veniva in campagna, Bobo la lasciava accostare a lui, e lei coraggiosa di suo, si fece via via più audace, e fu stargli accanto, come nessuno aveva mai potuto fare, fu accarezzargli prima il collo e poi il viso, poi baci sulla fronte che lasciavano sul pelo le tracce del rossetto che Bobo portava in giro orgoglioso per i campi del suo lavoro.       

Si arrivava a scene da sala operatoria con C. che equipaggiata di un grosso coltello asportava dalla cute del cane le zecche e altri insetti che si annidavano tra il suo pelo.
Poi anche quell’estate finì e fu l’ultima, perché dall’estate successiva Dino e Giuseppe sarebbero trasmigrati sulla montagna di Gualdo Tadino .

Accadde che mossi dalla nostalgia di rivedere gli amici pastori C. ed M. riuscirono a farsi dire dalla sorella che viveva a Gualdo Tadino la zona della montagna dove tenevano il gregge, e dove li avrebbero trovati.  Un pomeriggio vi si recarono e non fu difficile trovarli.      

Grande familiarità, saluti, strette di mano, domande di come fosse la vita e il lavoro in quel nuovo posto, di come avessero trascorso l’inverno. In tutto questo i cani si aggiravano in lontananza e C. domandò di loro e in particolare di Bobo. “Era qui un momento fa” disse Giuseppe, “ma ora non lo vedo”.  Lo richiamò con un fischio, ma anch’esso non ebbe esito.  C. provò un po’ di rammarico, ma non disse niente, non poteva dire che in quella gita c’era anche il desiderio di rivedere Bobo, accanto e di più al piacere di stare con gli amici. Infine saluti, abbracci, la promessa che si sarebbero rivisti, a Dio piacendo, negli anni successivi. Si incamminarono sul sentiero che dopo alcune centinaia di metri li avrebbe ricondotti alla macchina.                        

Quando arrivarono, accanto alla automobile, accucciato a terra: c’era Bobo.        

Era venuto a salutarla, da solo, lontano dagli altri, uomini e cani.  La storia tra loro due era roba loro, non potevano condividerla con nessun altro.  M. si fece da parte. Dopo un po’, quando fu il tempo ripartirono.     

Sul far della sera, in lontananza, sentirono ululati, via via sempre più deboli, fino a scomparire nel buio della notte.


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