Non basta esorcizzare i fantasmi della Guerra, del riarmo atomico, dei muri. La Pace è un lungo processo dinamico che comincia col dubbio e si concretizza con l’ostinazione nel segno della vita.
In queste ore, scrivo nel pomeriggio del 22 ottobre, Israele aumenta il numero dei raid aerei e si avvicina l’offensiva di terra su Gaza.
Nel frattempo, gli islamisti libanesi, Hezbollah, coi loro attacchi missilistici sui confinanti territori israeliani, cercano di trascinare il Libano nella guerra. L’Israel Defense Force ha messo in condizione di non operare gli aeroporti di Damasco ed Aleppo ed ha ucciso in un raid mirato 4 terroristi in Cisgiordania.
Il nulla di fatto nella conferenza di pace convocata da Al Sisi al Cairo ha dimostrato tra luci, ombre, sotterfugi che la strada che la diplomazia deve percorrere è lunga e piena di insidie, ma che non è sbarrata. Un’occasione non colta, sì, ma anche una speranza, piccola ma reale.
Le differenze tra le delegazioni sulla formulazione del documento finale hanno mostrato ancora una volta che la questione palestinese è complicata dai molteplici aspetti che la compongono ( religiosi; di preoccupazione degli stati di doversi far carico di un popolo che considerano pericoloso e instabile; di contiguità ed intersecazione di necessari impegni internazionali ma anche del loro rispetto messo continuamente a rischio da fazioni minoritarie ed estremiste che da decenni riescono a mobilitare le minoranze scontente delle autocrazie arabe).
Il presidente Meloni, che ha dimostrato coraggio diplomatico d’alto lignaggio partecipando direttamente alla Conferenza, ha rilanciato la soluzione due popoli, due Stati: “Hamas voleva compromettere le prospettive di pace, sarebbe stupido cadere nella trappola. No allo scontro di civiltà, la reazione di Israele non sia animata da un sentimento di vendetta”, e nel suo incontro con Al Sisi ha esortato ad “Evitare l’espansione del conflitto”, e rivolgendosi ad Abu Mazen lo ha confermato come interlocutore: “La Palestina non è Hamas”.
Incontrando subito dopo Netanyahu, Meloni, che è stata ringraziata dal primo ministro israeliano (“Grazie per essere qui nella nostra ora piu’ buia.
Combattere Hamas come l’Isis, è una battaglia tra forze di civiltà e dei mostri”) ha portato tre messaggi : a) l’Italia partecipa attivamente, ieri come oggi, alla lotta contro l’antisemitismo; b) il governo italiano comprende la necessità della reazione israeliana e si raccomanda di non confondere Hamas con la Palestina; c) evitare di cadere nella trappola dello scontro di civiltà etero partecipato- con diverse accentuazioni- da Mosca, Pechino, l’Iran, la Corea del Nord ed altri stati ( per esemplificare, sintetizzando e mettendo da parte Turchia e Ungheria, il Venezuela, Cuba, Malesia, parte del sud Sahel, Algeria, Qatar).
Come si legge sarebbe sufficiente trattare uno o due dei temi su accennati per scrivere un articolo coi capelli ben irrigiditi dalla paura.
Il fatto è che, nonostante l’urgenza, la complessità della crisi ha bisogno di tenere possibilmente limitati i conflitti in corso (quello provocato dall’invasione russa dell’Ucraina e quello messo in atto da Hamas, con la etero direzione, il finanziamento e l’incoraggiamento dei quali abbiamo già scritto e detto sulla nostra rivista).
Purtroppo, anche la pazienza, che è necessaria, è rischiosa. Emilio De Marchi, uno scrittore milanese della metà Ottocento che osservò da vicino pregi e qualche difetto dei contadini lombardi e della piccola borghesia dell’epoca, non esitò a sostenere che “la pazienza dei popoli è la mangiatoia dei tiranni”. Perciò saper misurare il tempo col metronomo della diplomazia è arte sopraffina, delicata, impresa pericolosa, seppur necessaria, che deve affidarsi a congetture che traggono spunto dalle esperienze storiche, peraltro superate, per antonomasia, dai tempi correnti.
Azzardare ipotesi è un esercizio intellettualmente stimolante e assai incerto quando dalle congetture si traggono decisioni operative che coinvolgono pace e guerra, vita e morte, sofferenze o sviluppo; ma questa è la politica, cioè la capacità di portare a sintesi bisogni e necessità, offrendo soluzioni realistiche ed immediate, i cui effetti dureranno, comunque, nel bene e nel male, in un tempo futuro indeterminato.
Nella notte del 20 ottobre in un discorso alla nazione, il secondo dallo Studio Ovale durante la sua presidenza, Joe Biden ha affermato: «Siamo a un punto di svolta globale». Ha accusato Putin e Hamas, pur con le loro differenze, di «voler cancellare le democrazie vicine».
Ha dimostrato, coi fatti, di essere stato- visitando Ucraina e Israele- il primo presidente Usa, dai tempi di Lincoln, a visitare una zona di guerra non direttamente controllata dalle Forze Armate statunitensi, rimarcando quanto già dichiarato in una intervista rilasciata nei giorni precedenti: “«l’America» può «gestire entrambe le guerre. Ne abbiamo la capacità e l’obbligo. Siamo una nazione necessaria» e che deve restare un faro nel mondo”: «Non possiamo lasciare vincere tiranni e terroristi: se non vengono fermati causeranno più distruzione».
Il Presidente Biden che, fra parentesi, ha dimostrato vigore e lucidità contrariamente all’immagine di fragilità fisica e mentale propagandata da segmenti diversi dell’elettorato statunitense specialmente ma non esclusivamente repubblicano, ha chiesto ai suoi concittadini di appoggiarlo per difendere gli «interessi e la sicurezza nazionale degli Stati Uniti», perché «il costo dell’inazione e dell’abbandono sono molto più alti».
Biden, dopo la evidente ed inaspettata sconfitta militare subita da Israele due settimane or sono, ha preso atto che questa è molto più perniciosa, diversa da quella subita da Golda Meir (che dopo la Guerra dello Yom Kippur, ed il caos politico che ne seguì nonostante la vittoria finale su Egitto e Siria, preferì nel 1974 dimettersi da primo ministro) ed ha rotto gli indugi prendendo atto che si è esaurita la grande forza diplomatica di Gerusalemme, basata sull’idea che il suo esercito era imbattibile.
Alla fine del mese di settembre, a New York, Biden suggeriva al primo ministro israeliano di convincere la destra del suo governo a bloccare la politica degli insediamenti coloniali e a cominciare a ritirarsi da quelli smaccatamente abusivi per convincere il governo di Riad a firmare un Trattato di pace e di riconoscimento diplomatico con Israele.
Oggi è ancora più chiaro che limitare ad un accordo tra stati (il Patto d’Abramo), così caro a Trump e Netanyahu, la sicurezza di Israele (e del mondo) è limitativo ed inefficace.
Appare ancora più profetica la relazione all’Assemblea Generale del segretario generale dell’ONU alla realizzazione dei due popoli-due stati che, per motivi opposti e convergenti risultati, blocca da decenni la soluzione della crisi.
Il presidente degli Stati Uniti è, con tutta evidenza, passato dai consigli al presidente di una nazione amica, quasi uno Stato membro honoris causa della Federazione nord americana, a suggerimenti operativi sui tempi e sui modi della reazione militare che è inevitabile.
Vedremo se Biden dal riconosciuto ruolo di capo del più potente, ricco ed influente stato del mondo è passato ad interpretare il ruolo, raro eppur necessario nei tempi bui, del leader, di quei “capi” che non si limitano a governare, ma sono capaci di motivare i propri cittadini ed altre nazioni a raggiungere obbiettivi che, durando nel tempo, modificano sostanzialmente il modo stesso di vivere nel mondo che si evolve.
Henry Kissinger, nel suo recente libro edito in Italia da Mondadori:” Leadership, sei lezioni di strategia globale” ha, con la consueta e dotta efficacia che lo contraddistingue, distinto i politici secondo il loro ruolo, la loro funzione da quella particolare genia rappresentata dagli statisti e dai profeti.
I leader emergono quando profonde crisi di transizione impongono il governo del passaggio tra il passato che sopravvive ed il futuro che stenta ad affermarsi.
Chi ha avuto modo di studiare teoria e pratica del pensiero di Kissinger conosce la grande importanza che lo studioso americano ha annesso alla soluzione della prima guerra dei Trent’anni (1618-1648), che fu assieme guerra fra stati, guerra civile, guerra religiosa, provocata dalla rottura dell’unità cristiana ad opera di Martin Lutero (1517).
Kissinger individuò la affermazione di un nuovo Ordine Mondiale in conseguenza dell’osservanza, dinamica, delle clausole del Trattato, meglio dire dei Trattati, di Westfalia.
Un Ordine Mondiale che resse sino alla metà degli anni 30 dello scorso secolo e alla conclusione della Seconda guerra mondiale ha prodotto una seconda Guerra dei trent’anni (quella che definiamo pudicamente guerra fredda) durante la quale si è sviluppato un altro Ordine Mondiale che, per ragioni differenti, ha lasciato il pianeta in un pericolo sistema ondulatorio di crisi tipiche degli stati di transizione.
La nostra attuale conversazione può apparire, non soltanto ai terrapiattisti, se non totalmente inutile per lo meno decentrata dall’obbiettivo di descrivere la realtà del momento, le cause immediate e le soluzioni prossime delle crisi. Il mio amico, confermo “amico”, Maurizio Belpietro- col quale ho peraltro lavorato decenni or sono, ama ripetere che giornalismo e libri di storia, figuriamoci di filosofia, sono prodotti diversi, che compito dei giornalisti è raccontare i fatti per come li vedono e quella speciale angolazione dello sguardo può, caso mai, far nascere le opinioni diverse e contrastanti dal mainstream.
Belpietro è galantuomo e lascia sui suoi quotidiani, lo testimonio, libertà di pensiero ed espressione anche totalmente discordanti dalle sue. Il fatto è che comprendere le ragioni e trovare soluzioni a crisi che sono esplose senza efficaci reti di protezione dal disastro non è possibile; perciò, si deve ricorrere alla Storia per parlare dell’attuale conflitto che oppone il terrorismo cieco, violento, criminale dell’estremismo di Hamas ad Israele, non in quanto Israele ma perché abitata da ebrei che devono essere annientati in quanto tali. Oh, cielo, non è vero che non sia possibile, in realtà si può in tre casi: stupidità logica, totale ignoranza storica, cinico antisemitismo.
Non conoscere la Storia dell’Ucraina e continuare a ripetere le fake moscovite sulla responsabilità dell’Occidente per l’invasione di uno stato sovrano internazionalmente riconosciuto è possibile : c’è un mondo di salariati certi nella socialdemocrazia tedesca, tra i filo nazisti sempre tedeschi, la destra post-vichysta della famiglia Le Pen in Francia, i pericolosi triplogiochisti turchi, ed anche le anime candide di Mélenchon in Francia, di Podemos in Spagna assieme a più italiani di quanti ripetano in Parlamento le fake del Cremlino.
Eppure, in parte ha ragione Belpietro, conoscere per lo meno le dinamiche che sono alla base delle crisi non deve obbligatoriamente trasformarsi in un saggio storico, filosofico.
Alla lunghissima disputa storica e teologica del diritto di Israele a vivere sulla sua terra non si può rispondere con un singolo articolo. Perciò rimando volentieri a tanta produzione saggistica apparsa in questi anni, magari aggiungendo il consiglio di leggere una chicca: l’opera di un orientalista olandese, Adrian Reland (1676-1718). Reland, che insegnò lingue orientali a Harderwijk (1699) e Utrecht (1701), pubblicò due opere importanti: Palaestina ex monumentis veteribus illustrata (Utrecht, 1714) e Antiquitates sacrae veterum Hebraeorum.
I testi sono importanti perché scritti ben prima dell’Illuminismo, delle tragedie che colpirono il popolo ebreo nel Novecento, delle violate risoluzioni delle Nazioni Unite, delle divisioni e spartizioni che quel territorio subì dall’Impero Ottomano, anzi, i testi danno contezza addirittura numerica e dei nuclei familiari che abitavano la terra d’Israele.
Il bello, o il brutto, è che tanto sapere è necessario per inquadrare con dati oggettivi la situazione ma che, storicamente, è necessario accompagnare lo studio storico con la “politica” contemporanea, ovvero quanto è accaduto negli scorsi decenni. Sono certo che se le persone interessate trovassero difficoltà a reperire i testi (poco conosciuti) potrebbero chiedere ausilio ad una delle Sinagoghe che arricchiscono l’Italia, dove, io che son nessuno, ho usualmente trovato gentile ospitalità.
Sempre a proposito della necessaria leadership nella nostra epoca divisa e conflittuale.
Oggi, nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale, dell’informatica e della telematica, nell’era in cui il pianeta si è rimpicciolito, abbiamo scoperto che l’odio prevale sulla presupposta “natura”, modello di felicità ed umanità, esaltando corruzione, degradazione.
Il politologo Franco Astengo, assieme al mio caro amico il costituzionalista Felice Besostri, sostiene da tempo che gli Stati (armati) commettono sempre lo stesso errore, quello di non consultare i filosofi, perché non vogliono sentirsi dire che l’unico presupposto per la civiltà è la pace.
Come è noto Kant nella sua seconda edizione del saggio “per la Pace perpetua” aggiunse un “articolo segreto” :<<Le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli stati armati per la guerra>>
Mi sembra probabile che con questo articolo Kant non intendesse suggerire un riversamento di ruoli, cioè che politici filosofeggiassero e che i filosofi diventassero politici, piuttosto che l’analisi dei bisogni, delle necessità, delle crisi, delle soluzioni nascessero dal confronto critico delle idee.
Astengo (ed altri anche di diversa estrazione culturale, politica, religiosa ( penso a parti non irrilevanti della Chiesa cattolica) pensano alla Pace anche come strumento indispensabile per la transizione a nuovi sistemi sociali ed economici. In verità la pace come strumento rivoluzionario è una vecchia idea, molto diffusa, per esempio durante la Prima guerra mondiale, con esiti non perfettamente allineati ai buoni propositi. Oggi questa strumentalità, che ascoltiamo da autorevoli pulpiti laici e religiosi, è trainante perché viviamo (o sopravviviamo?) nell’epoca della debole mobilitazione sociale provocata dallo sfilacciamento non soltanto delle strutture aggregative tradizionali (partiti e sindacati) ma persino dei concetti alla base della società liquida di Bauman, duramente colpiti anch’essi dall’atomizzazione sociale.
Nel tempo della digitalizzazione ancora incontrollata la strada al socialismo attraverso l’acclamazione della Pace appare molto pericolosa.
Kissinger, che sul metodo di Westfalia ha costruito decenni di stabilità relativa durante i quali il mondo è stato significativamente modificato, insiste su tre necessità metodologiche: a) affrontare, con piena coscienza della Storia, i problemi con una visione a lungo termine; b) impedire che le esigenze del presente pregiudichino il futuro; c) accettare che emergano “potenze” in grado di coordinare, agevolare e far rispettare le politiche globali.
Nei miei precedenti articoli e podcast , esprimendo chiaramente opinioni sugli avvenimenti in corso, ho sempre invitato all’esercizio di un grande compromesso che – come vedremo- non esclude la necessità, anzi sottolinea l’obbligatorietà di operare azioni necessarie per garantire equilibri e sviluppi nuovi; nello stesso tempo ho invitato alla presa di coscienza della “speranza”, legata in sé e per sé alla natura umana in quanto tale delimitata nel tempo; proprio il limite dell’uomo esalta il valore non soltanto potenziale del futuro.
A difesa delle pur gracili speranze, da rafforzare, dopo il criminale eccidio perpetrato da Hamas, appaiono chiari i seguenti elementi:
- non è scattata la temuta trappola di Tucidide. La reazione di Israele è stata all’altezza dell’unica democrazia medio orientale; grazie anche all’azione degli Stati Uniti e di alcuni stati europei tra i quali soprattutto l’Italia, la Francia e la Germania, nonostante provocazioni, fake news, sguaiate manifestazioni a favore dei terroristi delle quali, credo, a suo tempo studieremo e conosceremo meglio le origini organizzative;
- è apparsa netta l’alleanza strumentale antiebrea, antiamericana, antioccidentale della Russia, dell’Iran, della Turchia, della Cina, della Siria, di Cuba e del Venezuela, della Corea del Nord; la crisi in atto ha reso evidente, tra l’altro, la fragilità politica dei BRICS e, al contrario, nonostante una martellante propaganda, la solidità dell’Alleanza Occidentale.
- L’Unione Europea ha evidenziato le oramai radicate fragilità di una Unione intergovernativa che si troverà a dover scegliere o nello sdoppiamento dell’Unione tra un nucleo ristretto di paesi capaci di organizzarsi su un più marcato sistema federale di bilancio e sicurezza ed una parte di paesi che sono attualmente in grado di partecipare adeguatamente solo (e non è poco!) ad una politica commerciale ed in alcuni casi alla moneta unica. L’Ungheria, la Slovacchia, in qualche modo la Polonia, hanno dimostrato la fragilità istituzionale della “grande Europa” e le sfide future non consentono ulteriori debolezze;
- Il grande compromesso necessario ha bisogno della riforma urgente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La forte presenza statunitense non è sufficiente ad arginare il conflitto mondiale. Mediare difendendo i propri popoli ed i principi democratici che li sostengono non è affatto semplice. Il mainstream che si gratifica progressista e che anima spelacchiate manifestazioni pro-Hamas, negando il valore della vita dei civili e dei bambini israeliani, non è soltanto volgare antisemitismo stratificatosi negli anni, è anche la prova del nove della facilità con la quale nella autoproclamata sinistra, ma anche nella destra e nel centro europeo ed americano, si preferisce accomodarsi nella accogliente e conformista poltrona dello scontro di civiltà. È faticoso non dare per scontato il fallimento totale degli accordi di Oslo oppure considerare impossibile una soluzione in due o tre tappe al disastro provocato da Hamas e facilitato dal pessimo governo Netanyahu (che ha offerto l’idea che Israele non fosse più una ma divisa e indebolita da tribù discordanti su tutto, persino sui concetti basilari che hanno tradizionalmente inspirato l’esercizio della democrazia e l’autorità della giustizia).
- È chiaro che dopo il disastro iracheno ed afghano gli Stati Uniti impongono oggi che si dia una risposta, prima dell’eventuale occupazione di Gaza, alla semplice domanda: e dopo? Il dopo significa che urgono trattative, che si potranno ratificare soltanto nelle Nazioni Unite, su chi e come, temporaneamente, ad esclusione di Israele e degli Stati Uniti, nelle tappe necessarie, si dovrà occupare di gestire la crisi umanitaria e la ricostruzione della striscia di Gaza. E, poi, passo passo, ricollegare la questione palestinese cisgiordana a quella palestinese della Striscia. Infine, conducendo trattative coinvolgenti gli stati arabi già firmatari del patto d’Abramo e l’Arabia Saudita coinvolgere a pieno titolo non una generica entità palestinese, ma uno stato palestinese. Sapendo che ci sono sempre canaglie alle porte. Netanyahu un giorno dovrà spiegare se era a conoscenza dei finanziamenti multimilionari del Qatar, trasformatosi all’occorrenza mediatore, ad Hamas. La UE e la NATO non potranno continuare a fingere di non aver capito il pericolo che rappresenta la Turchia (sul quale ho recentemente scritto).
- Biden ha avvisato Iran e Cina e non vi sono reali ragioni per non valutare che Pechino abbia compreso, al di là di alcune dichiarazioni (assai meno calorose del recente passato) che l’amicizia con la Russia non può essere sostenuta a tutti i costi e che il continuo bombardamento sui villaggi israeliani dei missili finanziati da Teheran porterà al bombardamento israeliano (autorizzato da Washington) di importanti obbiettivi strategico militari dell’Iran. Perché l’Occidente anzitutto non deve, ma anche non può, consentire, se vuole evitare lo scontro di civiltà, che venga colpito chi rappresenta questa civiltà, basata sul diritto e la giustizia ed il rispetto della vita.
Questi son soltanto i prolegomeni di una complessa crisi; purtroppo, ci vorrà tempo perché le due crisi che oggi son diventate un tutt’uno, quella russa e quella terroristica islamista, si avviino a soluzione.
C’è la speranza concreta che Biden, nonostante o forse per l’età, sia, secondo il metodo previsto da Kissinger, la connessione occidentale che sappia rispondere con fermezza e senza odio cieco all’offensiva contro l’Occidente, che non sarà vinto perché la Cina limita o blocca l’esportazione della grafite.
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Una risposta a “STORIA, FANTASIA, SPERANZA PER BLOCCARE L’ARBITRIO”
Un articolo di altissimo livello,come ci ha sempre abituato il compagno Beppe Scanni, che chiarisce il che cosa,il perché ed il per come tentare di superare un’ atavica questione che si ripercuote su gran parte del mondo.