COSTRUTTORI ATTIVI DEL LORO FUTURO (?)
I dati sono una rappresentazione della realtà e in quanto tale ne restituiscono un modello, a volte iper-semplificato. Ragionare sui dati è sempre un’operazione complessa, tanto quanto lo sarebbe ragionare su di una rappresentazione qualsiasi anziché sulla realtà effettiva. Tuttavia, i dati non vanno demonizzati, essi ci danno notizie grezze e ci aiutano a indirizzare il nostro pensiero verso aspetti del reale di interesse speculativo. I dati relativi all’abbandono scolastico vanno intesi quindi come un segnale che, ai livelli fondamentali del nostro tessuto sociale, ci sono dimensioni emergenziali di radicale complessità. Nell’abbandono scolastico la scuola come Istituzione, e gli insegnanti in quanto educatori, fanno esperienza della disfatta assoluta.
Più si accumulano dati relativi all’abbandono scolastico più diventa urgente, non soltanto per i teorici dell’educazione ma per tutti protagonisti della missione educativa, porre le giuste domande e cercare le giuste risposte. Quest’ultime non possono certamente essere quelle dei progetti PNRR (ai quali io stesso ho partecipato) et similia, vale a dire risposte che si muovono pur sempre nell’ambito di quel modello di scuola che in effetti non sta funzionando. L’abbandono scolastico, infatti, va innanzitutto compreso come sintomo di un male profondo e radicato. Fuor di metafora, è l’intera struttura scolastica, a cominciare dall’erogazione dei saperi e dalla organizzazione delle discipline, che andrebbe forse rivista fin dalle fondamenta. Siamo infatti ancora così certi che il modello di lezione frontale, così tanto criticato in letteratura scientifica e teoricamente rimpiazzato da modelli alternativi, non sia in effetti il modello ancora predominante nelle nostre scuole? Siamo ancora certi che l’offerta didattica sappia assumere una forma attraente ed emotivamente intensa per gli studenti? A me sembra infatti che quest’ultimi vivano la scuola come luogo della noia (A. Arace, Adolescenti a scuola. Psicologia dello sviluppo e dell’educazione per l’insegnamento, Mondadori, Milano, 232) non per un difetto di intelligenza o per una scarsa motivazione (sebbene queste due cause continuino ad esistere) ma per una fisiologica incongruenza tra l’arretratezza dei saperi, ancora suddivisi in discipline non comunicanti fra di loro e l’avanzamento della società ipertecnologica, futuristica e sempre più complessa che loro vivono nei tempi e nei luoghi extrascolastici.
Appelli all’interdisciplinarietà, alla complessità e contaminazione dei saperi, alle collaborazioni tra esperti afferenti a campi diversi, cadono nel vuoto di una scuola che resta ferma, nella pratica (non nella teoria) ad un modello di insegnamento frontale suddiviso per discipline che non sanno più porsi con interesse agli occhi degli studenti. Forse sarebbe utile (o necessario?) ridisegnare i percorsi scolastici e immaginare che la loro costruzione non sia affatto realizzata a priori (come offerta formativa decisa dall’alto) ma sia realizzata intorno alle aree di interesse degli studenti. Sarebbe forse necessario immaginare un primo livello di scuola orientato a fornire le competenze di base di calcolo, letto-scrittura, ad affinare le competenze etiche e sociali e anche cognitive, poi ulteriori livelli di scuola simili – ma ancor più flessibili – al modello universitario, nel quale lo studente può scegliere un certo piano di studi e finanche l’inserimento o meno di alcuni esami (discipline per la scuola).
Ridare allo studente quindi la percezione di essere parte attiva nella costruzione delle sue competenze potrebbe dare l’impulso per una metamorfosi della scuola: da luogo della noia a luogo dell’interesse. Sullo sfondo di queste osservazioni c’è una riflessione di più ampia portata sulla necessità di guadagnare un paradigma educativo calibrato sul terzo livello dell’educazione proposto da Gregory Bateson: se al primo livello l’educazione è pensata come mero trasferimento di conoscenze, e se al secondo è invece immaginata come addestramento volto a consolidare la capacità di costruire ‘cornici cognitive’ finalizzate al processamento di queste informazioni, il terzo livello è invece incentrato sulla capacità – che i nostri studenti dovrebbero altamente padroneggiare – di «smontare e rimontare tali cornici cognitive o addirittura sbarazzarsene» nell’eventualità che esse si rivelassero insufficienti, incongruenti o inadatte alle nuove esigenze (di vita o semplicemente di interessi) degli studenti.
Questo ripensamento del sistema educativo darebbe forse l’occasione agli studenti di iper-responsabilizzarsi assumendo una parte attiva nei processi di apprendimento ma soprattutto nel disegno autonomo (o semi-autonomo) dei percorsi futuri di studio e di professione. Questa strategia potrebbe essere risolutiva del problema in questione? La mia risposta è che da sola questa strategia rivoluzionaria, ben oltre certi positivi e inimmaginabili effetti, non sarebbe comunque sufficiente. Accanto ad essa e forse prima di essa sarebbe importante realizzare un cambiamento radicale del ruolo degli insegnanti. Essi, infatti, in questo nuovo paradigma educativo non dovrebbero più esaurirsi nella funzione – peraltro oggi abbondantemente superato almeno nella percezione della popolazione studentesca – di erogatori di conoscenze astratte, ma sposare l’idea della necessità di un investimento affettivo-relazionale più autentico (forse a giusto discapito di quello cognitivo, troppo ipervalorizzato) in grado di produrre negli studenti la sensazione di avere a che fare non con vacue nozioni ma con persone reali a hanno (davvero) a cuore il loro futuro.
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