Ferruccio de Bortoli, Giulio Tremonti e lo stato della libera concorrenza in Italia
Quindici/A Hermes Storie di geopolitica – Italia
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
In un articolo per Democrazia futura,”Sul liberismo e l’INPS: feticcio o manomorta di Stato?”, Salvatore Sechi ci spiega le ragioni per le quali anche dal governo Meloni non ci si può aspettare molto in tema di riforma dell’economia di mercato e della libera concorrenza. “Sul mercato – chiarisce lo storico sardo – pesa ancora la sconfitta delle cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare degli ex enti previdenziali. Una vicenda colossale di dissipazione del pubblico danaro e un penoso e annoso calvario per gli ormai vecchissimi inquilini. La grande campagna di alienazione e vendita degli immobili da essi occupati, è, infatti, finita in migliaia di azioni legali intentati all’Inps e all’Invimit”.
09 settembre 2024
La gestione del patrimonio immobiliare INPS secondo un articolo del 2014 de Il Sole 24 Ore
Un giornalista posato e sempre attento come l’ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, e uno studioso ed ex ministro assai indipendente come Giulio Tremonti sono dei signori. Non amano darsi addosso delle legnate né crogiolarsi nel lezzo degli insulti, ma manifestano a voce alta opinioni diverse su una questione annosa: qual è lo stato della libera concorrenza nel capitalismo italiano?
De Bortoli e Tremonti battagliano sulla qualità degli ultimi provvedimenti legislativi varati dal governo Meloni.
Tremonti si è mostrato più positivo nei confronti delle iniziative del Sottosegretario all’economia Maurizio Leo. Ma sul mercato pesa ancora la sconfitta delle cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare degli ex enti previdenziali. Una vicenda colossale di dissipazione del pubblico danaro e un penoso e annoso calvario per gli ormai vecchissimi inquilini.
La grande campagna di alienazione e vendita degli immobili da essi occupati, è, infatti, finita in migliaia di azioni legali intentati all’Inps e all’Invimit. Anche il governo Meloni è chiamato ad occuparsene per un evento molto recente.
Dopo una trentina di anni, le Corti d’Appello del Tribunale di Bologna in primo e in secondo grado, invece di accogliere la richiesta di contenere il prezzo di vendita degli immobili, e di metterli finalmente sul mercato, hanno sancito in due non impeccabili sentenze che il patrimonio immobiliare dell’Inps addirittura non è mai stato in vendita!
Le migliaia di persone che lo hanno pensato non avrebbero capito che si trattava di una ricognizione sociologica. Sarebbe, cioè, stata volta ad accertare un eventuale interesse all’alienazione e all’acquisto da parte di privati di questo numeroso stock, stravecchio e mal gestito, di beni pubblici. Che ne pensa il ministro Giancarlo Giorgetti?
La tortuosa vicenda finirà ancora una volta anche nelle pagine del settimanale Economia (un inserto allegato al Corriere della sera del lunedì diretto da de Bortoli) che ha sempre difeso le ragioni del mercato e non della manomorta delle imprese di Stato.
Nella storia del liberismo italiano si è oscillato tra il fare un feticcio o un’ideologia del mercato autosufficiente alternativa all’intervento dello Stato e a programmi di pianificazione, e il concepirlo come dovrebbe essere concepita, e lo fu da John Maynard Keynes, Luigi Einaudi, e, infine anche da Federico Caffè secondo il quale
“la scienza è una continua distruzione creatrice non un monotono dipanare il filo che può trarsi da un unico bozzolo”.
Una premessa va tenuta presente nel giudizio, per non attendersi troppo. La premier e il suo partito (Fratelli d’Italia), insieme ai suoi alleati (veri e propri fratelli coltelli), come la Lega (da Matteo Salvini spolpata di ogni respiro culturale) e i liberali conservatori di Forza Italia non hanno mai mostrato nessun interesse né storico-culturale né politico alla riforma del capitalismo. Almeno nella misura delle correzioni proposte a suo tempo da Carlo Cattaneo (ormai degradato a decotta memoria strapaesana) e nei programmi di governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti.
Nell’insieme, e a prescindere dai singoli propositi di qualche leader o ministro, sono stati tutti, in misura minore e diversa l’uno dall’altro, movimenti volti alla pura gestione del potere. I maggiori guasti e malanni li si è voluti identificare e circoscrivere a quanto hanno lasciato sul terreno i governi di centro-sinistra. guidati da Romano Prodi, Mario Monti e Mario Draghi. Nessuna ubbia o spasmo per modificarlo in nome di un disegno che non siano le mollezze intellettuali del pensiero debole chiamato sovranismo.
Dal governo Meloni non ci si può aspettare molto, dunque.
Contrapposti alla globalizzazione, i cosiddetti sovranismi equivalgono a ridare fiato a tutte le congiunture e le illusioni delle politiche ristrette, da piede di casa, del regionalismo, una sorta di revival del nazional-popolare di destra.
Basta ascoltare il tutto e il nulla della Lega, cioè Salvini, per rendersi conto del passo indietro, della straordinaria e incolmabile voragine che è stata fatta nel giro di un decennio nel nostro paese rispetto, per esempio, ai tempi di Francesco Saverio Nitti.
Lo studio di Massimo Crosti dedicato a Francesco Saverio Nitti
Un giovane ricercatore, Massimo Crosti, di recente ne ha ripercorso gli aspetti essenziali della riflessione ideologica, dell’analisi economica e politica e dell’operato dei governi diretti da Giovanni Giolitti.
Da un paesotto come Muro Lucano, in Basilicata, tra il 1904 e il 1911 un giovane intellettuale si era impadronito della migliore cultura europea, sia sul piano degli economisti e degli amministratori, elevando l’arretratezza del Mezzogiorno a un aspetto internazionale e fisiologico del capitalismo.
Con la Lega e Giorgia Meloni un micidiale passo indietro, un vero e proprio Mìserabilismus. Infatti ad essere cantata è la vecchia musica: un nuovo e maggiore intervento dello Stato per sanare ineguaglianze sociali e territoriali, con un affondo del liberismo, del mercato e della libera concorrenza. Non coabitazione, ma sempre più una forma indocile di contrapposizione.
Storicamente non può dirsi che il capitalismo libero-concorrenziale sia stato una grande bandiera ammainata. Chi come Luigi Einaudi dopo la Prima guerra mondiale l’aveva issata, nei primi anni del secondo dopoguerra ne scrisse una sorta di decreto funebre. Sul Corriere della Sera intitolò il de profundis, il fantasma liberista.
Ci si renderà conto solo una decina di anni fa, grazie a Mario Monti, che l’Italia è un paese dove tutto, dall’economia alla burocrazia, gira intorno a un sistema di piccole e grandi corporazioni. Chiamate impropriamente imprese, non amano farsi guerra, ma piuttosto scambiarsi favori.
Quando a Torino Luigi Einaudi accettò di fare il capolista di un piccolo esercito entrato in guerra col grande capitalismo, si troverà circondato da una cortissima compagnia di giro: i più giovani colleghi Attilio Cabiati, Edoardo Giretti (il più attivo di tutti e amato da Antonio Gramsci), Antonio De Viti de Marco. Nel mondo extraeconomico potette contare su intellettuali come Gaetano Salvemini e Piero Gobetti e nella sinistra politica, su uno dei maggiori leader dei giovani socialisti e poi comunisti, Antonio Gramsci.
Quest’ultimo, fin dal suo arrivo a Torino, fu un avversario dichiarato del protezionismo e un fautore della libera concorrenza, in cui vide incubata la sfida alla capacità del socialismo di assicurare un regime di piena occupazione, alti salari, sviluppo delle forze produttive e grande tecnologia. Si può dire che fino al viaggio di Woodrow Wilson in Europa, nel 1918, egli resti incerto sulla possibilità del capitalismo di auto-riformarsi.
La Rivoluzione d’ottobre e la prospettiva di una estensione del “fare come in Russia” lo indussero a preferire Lenin e i bolscevichi. Fino alla litania di giustificare – già col colpo di mano di Lenin (che, nel 1918, avendo perso le elezioni, per non accreditare la vittoria dei menscevichi, sciolse l’Assemblea degli operai e dei contadini) la loro progressiva trasformazione in costruttori di uno dei regimi più dispotici e oppressivi del Novecento.
Il suo compagno e amico Piero Sraffa non spese mai una riga né una parola a favore di un mercato di libera concorrenza. Nei rapporti con Luigi Einaudi e con Attilio Cabiati il tema non fu mai oggetto di chiarimenti e tanto meno di giustificazioni. Un dissenso radicale, dunque.
L’ipotesi della riforma del capitalismo nacque e morì col piombo nell’ala. Anche perché socialisti e, come emerge dalle riflessioni di un giurista come Candido Fois, socialisti e comunisti, fin dalle origini avevano identificato il loro programma di ribaltamento del capitalismo non nelle imprese e nelle società, ma nell’abolizione della proprietà giuridica dei mezzi di produzione e di scambio. Storicamente il fattore principale che si è imposto è stato il primo, e non il secondo.
Riferimenti bibliografici
Massimo Crosti, Nitti interprete del Novecento, Napoli, Editoriale Scientifica Italiana, 2024, 240 p.
Giuseppe Are, Stato e mercato nella modernizzazione italiana. Scritti di storia contemporanea, Cosenza, Marco editore, 2009, 356 p.
Fabrizio Barca, Il capitalismo italiano. Storia di un compromesso senza riforme, Roma, Donzelli, 1999, 143 p.
Francesco Forte, Luigi Einaudi: il mercato e il buongoverno, Torino, Giulio Einaudi, 1982, 200 p.
Roberto Marchionatti, Attilio Cabiati. Profilo di un economista liberale, Torino, Aragno, 2011, VIII-119 p.
Riccardo Faucci, ‘La scienza dell’amor proprio’. Cultura e politica degli economisti italiani dal Risorgimento alla Ricostruzione, Introduzione di Eugenio Ripepe, Vol. 57 degli Studi della Fondazione Luigi Einaudi di Torino, Firenze, Leo Olschki, 2018, XXIV-404 p.
Raimondo Cubeddu, La cultura liberale in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021, 372 p.
Giuliano Guzzone, Gramsci e la critica dell’economia politica. Dal dibattito sul liberismo al paradigma della «traducibilità», Roma, Viella, 2018, 305 p.
Andrea Boitani, L’Illusione liberista. Critica dell’ideologia di mercato, Roma-Bari, Laterza, 2021, 208 p.
Luca Michelini, “Antonio Gramsci e il liberismo italiano (1913-1919)”, in Gramsci nel suo tempo, a cura di Francesco Giasi, prefazione di Giuseppe Vacca, Roma, Carocci editore, 2008, 960 p., 2 volumi [il testo si trova nel volume secondo alle pp. 179-181].
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