La liquidità, è ormai evidente, non è più soltanto una categoria sociologica in grado di spiegare ‘alcuni’ dei fenomeni del nostro tempo, ma una teoria adeguata a spiegare nel dettaglio i meccanismi profondi della contemporaneità. Si tratta certamente di una parola abusata, dai confini semantici ampi e assai sfumati, che richiede pertanto alcune importanti precisazioni onde evitare fraintendimenti e facili inappropriati utilizzi. Innanzitutto bisogna subito precisare che si tratta di una teoria che spiega bene sia il comportamento della società considerata nel suo complesso, sia il comportamento della mente dei singoli individui. Si tratta, quindi, di un modello teorico che riesce a rendere ragione dell’assetto dei macrosistemi sociali così come quelli delle singole individualità (che costituiscono quegli stessi sistemi).
D’altra parte è pur vero che la società sì esiste, ma non come entità astratta bensì come risultante dei singoli cittadini che la compongono, e pertanto è possibile individuare delle linee ricorsive che dal macrosistema si ripresentano a livello individuale per poi ritrovarsi, in una sorta di evidente logica circolare, ancora a livello macroscopico.
Detto in altri termini: menti liquide creano una società liquida e una società liquida non può non creare menti liquide. Ciò detto è difficile quindi ignorare che la liquidità sia ormai divenuta un vero e proprio assetto psicologico del cittadino del nostro tempo. Non si tratta, cioè di comportamenti scelti consapevolmente, che quindi potrebbero a posteriori appellarsi come ‘liquidi’, ma di modelli di azione, criteri di valutazione e scelte comportamentali che hanno un’intrinseca struttura liquida e che il soggetto mette in atto senza rendersene più conto, essendo ormai assuefatto a queste dinamiche imperanti e pervasive.
Il cittadino del nostro tempo, in altri termini, non mette a fuoco le proprie scelte (in generale la propria vita) sotto il segno della liquidità, ma agisce normalmente trovando nella società – altrettanto liquida – un rinforzo, per così dire, della fragilità delle sue scelte. Le scelte fragili sono quelle che non hanno il carattere della stabilità e della durata, ma si configurano come stati momentanei e parziali che non hanno la forza di dare alla vita dell’individuo una caratterizzazione precisa e determinata definitivamente.
Scelte che un tempo si ponevano come traguardi esistenziali fissi e fondamentali dell’esistenza (laddove con fondamentali intendo riferirmi letteralmente ai fondamenti stessi della vita umana) oggi appaiono piuttosto come checkpoint ripetibili di un percorso di vita caleidoscopico e frammentato. Penso al matrimonio, alla creazione di un nucleo familiare stabile e determinato, alla scelta del percorso di studi, all’impiego lavorativo, alla costruzione del proprio focolare domestico, alla cura delle amicizie più intime, alla custodia delle proprie radici. Amore, amicizia, lavoro oggi non costituiscono più strutture stabili e durature della vita umana ma si configurano come costruzioni tanto appariscenti nelle forme esteriori quanto deboli nelle fondamenta.
Grandi cerimonie realizzate per impressionare il contesto sociale più vicino si associano a repentini disfacimenti del matrimonio stesso che pure quelle feste nuziali così pompose avrebbero voluto celebrare. Dichiarazioni sentimentali subitanee lasciano presto il posto a rotture relazionali precoci, in una evidente dicotomia tra l’appariscenza del dichiarato e la vera sostanza del vissuto.
Persino le fedi religiose appaiono oggi preda di cambiamenti subitanei dovuti non a lunghe e meditate riflessioni sui fondamenti stessi del credo religioso quanto piuttosto a mode del momento, seguite senza alcun esercizio del pensiero critico. Sebbene un utilizzo eccessivo della categoria della liquidità possa determinare una evidente demonizzazione dei cambiamenti umani, che in quanto tali non vanno assolutamente condannati aprioristicamente, non si può certo negare che gran parte di essi oggi non sono determinati da ‘buone ragioni’ o da reali esigenze, quanto piuttosto da vuoti desideri spesso attivati da logiche di mercato, mode pseudo valori intorno ai quali la società del nostro tempo sembra essere organizzata. La nozione di cambiamento va letta, nella grande analisi di Bauman, in corrispondenza con quella di consumo.
Ebbene, tra un cambiamento normale (laddove l’aggettivo normale va intenso non in riferimento ad una norma rigida, universale e assoluta, ma alla vita di un essere umano armoniosamente vissuta tra il moto continuo delle sue – spesso imprevedibili – evoluzioni e la stasi dei traguardi – sociali, personali e relazionali – raggiunti) e un cambiamento compulsivo corre la stessa differenza che c’è tra il concetto di consumo e quello di consumismo (Z. Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido, Laterza, 2010, p. 73).
Ecco un bel passo del sociologo sul quale vale la pena riflettere: «il consumismo è un prodotto sociale, non un verdetto irreversibile dell’evoluzione biologica. Se si desidera vivere in base alle regole del consumismo, limitarsi a consumare per sopravvivere non basta: il consumismo infatti è molto, molto più del semplice consumo e assolve a molteplici funzioni. […] Consumismo significa trasformare gli esseri umani, innanzitutto e soprattutto, in consumatori, facendo passare ogni loro altra caratteristica in secondo piano, retrocedendola a ranghi inferiori e derivati. Consumismo significa anche convertire le necessità biologiche in capitale commerciale. E talvolta anche politico» (ibidem). È quindi opportuno ribadire, alla luce delle riflessioni di Bauman, che la liquidità non è una categoria meramente sociologica in grado di spiegare alcuni meccanismi del nostro tempo, ma una vera e propria categoria antropologica in grado di rendere ragione della nuova natura umana e del suo costante bisogno di consumare.
È come se ci fosse una discrepanza tra una parte – quella liquida appunto – della natura umana sempre più affannosamente desiderosa di costruire e distruggere strutture identitarie, divenute maschere interscambiabili (ogni uomo, nel tempo liquido, è davvero uno e centomila) è un nucleo antropologico, insofferente verso questo caleidoscopico movimento insensato che è divenuto la vita umana.
È proprio questo nucleo la sede di quell’insoddisfazione esistenziale e di quella lacerante mancanza di identità che l’uomo liquido, pur nei moti consumistici costanti, avverte immaginandosi sull’orlo di un baratro senza fine. Non deve quindi stupire che il consumismo, che è il modo dello stare-al-mondo dell’uomo contemporaneo non sia in realtà un segno del benessere psicologico e spirituale (se mai è un segno, dice Bauman, della salute della società capitalistica). Al contrario è il segnale di un mutamento nel quale l’uomo è inciampato – sembrerebbe in modo irrimediabile – e dal quale fatica ad uscire.
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