Nella settimana della Pasqua cattolica e cristiano riformata, della Pesach ebraica, nei giorni della Pasqua ortodossa, giustamente molto, a cominciare da papa Francesco, è stato propriamente detto attorno alla Pacem in terris. Io incontrai l’enciclica tanto tempo fa e continua ad accompagnarmi soprattutto in quest’anno di inusitata e feroce guerra.
La Pace è, più che un obbiettivo razionale ed utile, una conquista ed una realizzazione dell’uomo; è anche un dono, urlava l’enciclica di Giovanni XXIII a << tutti gli uomini di buona volontà>>, credenti e non credenti, a << “tutte le nazioni, tutte le comunità politiche>> invitate ad accettare la condizione spirituale del rinnovamento per cercare << il dialogo, il negoziato>>, ciò che unisce, non ciò che divide, per scorgere. << l’evoluzione verso una nuova, migliore umanità>>.
Correva l’anno 1963, era aprile quando fu diffusa l’enciclica. Qualche mese prima era iniziato il Concilio Vaticano II; due mesi dopo, a giugno, il Papa morì.
L’allora neo-cardinale cileno, il salesiano Raúl Silva Henriquez, arcivescovo di Santiago, gran punto di riferimento dei democratici cileni negli anni settanta ed ottanta del novecento, non nascose ai giovani studenti del convitto salesiano coi quali amava conversare passeggiando nel porticato del cortile della Basilica del Sacro Cuore a Roma, dove alloggiava durante i lavori del Concilio, il timore che nutriva, assieme ad altri padri conciliari, della fine anticipata del Concilio e in , qualche modo, della grande speranza escatologica suscitata dalla Pacem in terris, che tanta opposizione aveva suscitato tra i conservatori, le destre ed all’interno della stessa Chiesa, compresi i gesuiti.
Compresi allora che senza essere convinti del bisogno della Pace, questa non si raggiunge, ma che per ottenere, una volta convinti, la Pace è bene conoscere, per trovare soluzioni ai motivi che la impediscono.
Mi tornò a mente la lezione della Pacem in terris accompagnando Bettino Craxi a Santiago del Cile, ed organizzando la sua visita all’emerito Arcivescovo Silva Henriquez nel febbraio del 1989. In Cile si era consumata per quasi un ventennio una crudele guerra per la libertà, la democrazia, l’indipendenza. Era giunto il momento storico della soluzione. In quella visita il segretario del PSI e vicepresidente dell’Internazionale discusse anche con il Cardinale la possibilità di costituire una Concertación de Partidos por la Democracia per modificare tramite referendum almeno 59 punti della Costituzione cilena. Era necessario il tacito ma essenziale consenso statunitense (Craxi era molto ascoltato a Washington) e il consenso generale dei partiti democratici dell’America Latina (Craxi che veniva da Caracas, dove aveva partecipato il 2 febbraio all’insediamento del Presidente Carlos Andrés Pérez Rodriguez, aveva sondato tutti leaders dei partiti dell’Internazionale). Faticosamente si stava formando la Concertación nella quale infine si schierarono il Partito Radicale Cileno, membro dell’Internazionale Socialista e la Democrazia Cristiana. Il Partito Socialista, nominalmente erede di Allende, giudicò eccessivamente “riformista” e gradualista la proposta di revisione costituzionale, non aderì alla Concertación e votò per il rechazo.
La Concertación stravinse (col 93% di consensi), Pinochet ed i militari non finirono in prigione ma se ne andarono con sostanziali garanzie di immunità personali e il democristiano Patricio Aylwin fu eletto, finalmente con un voto democratico, Presidente del Cile.Mi rafforzai nella convinzione che la Pacem in Terris è un dono che si conquista.
Una guerra integrale che sfiora il disastro nucleare
La guerra provocata dalla invasione russa dell’Ucraina è particolarmente complessa ed è, in modo drammatico, un unicum. A partire dalla Seconda guerra mondiale la teoria ha permesso una classificazione del sistema bellico, distinguendo la guerra in:
- Strategica
- limitata
- locale
- civile
- rivoluzionaria
- insurrezionale
- colpi di stato
e dei tipi di intervento in:
- internazionale
- di grandi potenze
- locale
Non sfuggirà che in misura diversa tutte le individuate parti classificate sono presenti nella guerra in corso nella martoriata Ucraina. Il che obbliga, per sedersi ad una Conferenza di pace, la necessità di studiare quali siano le questioni che devono essere affrontate e risolte col dialogo, quali siano le forze chiamate a gestire i lavori della Conferenza e quali quelle che ne devono garantire l’esecuzione nei tempi e con le modalità pattuite.
Un tema, dopo quello della identità e della legittimità statuale, apertamente messo in discussione, riguarda i confini territoriali. Ed è di frontiere che trattiamo in questo capitolo.
I confini deboli
Il Soviet Supremo, il 26 dicembre 1991 ratificò la dissoluzione dell’URSS, la nascita di stati indipendenti, fra i quali l’Ucraina. La legge istitutiva divenne definitivamente operativa nella notte di Capodanno tra il 31 dicembre 1991 ed il primo gennaio 1992. Quella ratifica conteneva anche il riconoscimento reciproco tra le nuove sovranità nazionali, compresa quella tra Russia e Ucraina.
In questo anno di guerra in corso, mascherata in operazione speciale, sin quando è stato possibile per i governanti russi immaginare che il conflitto si sarebbe concluso in breve tempo, il Cremlino ha giustificato l’invasione addebitandola a varie cause, tra le quali il mancato rispetto degli accordi di Minsk (Minsk II e Minsk III, rispettivamente del 2014 e 2015); dalla indipendenza gli ucraini hanno, invece, costantemente richiesto il rispetto dei confini del 1991.
Nasce spontaneo chiedersi: quali sono questi confini, previsti dall’Accordo del 1991, regolato dall’accordo siglato a Minsk l’8 dicembre 1991 e ancora meglio specificato dall’Intesa di Alma Ata del 21 dicembre, come abbiamo visto ratificato dal Soviet Supremo il 26 dicembre?
Nel 1991 l’Ucraina, nuovo stato indipendente, ereditò i confini dell’ex Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina. È un dato di fatto, legato alla lunga ricostruzione storica della identità anche territoriale dell’Ucraina sulla quale già ci siamo soffermati, che nel 1991 la linea di confine tra Russia e Ucraina, all’incirca lunga 1900 chilometri, era una linea amministrativa, né tracciata né materialmente indicata.
Per il diritto internazionale la fine dell’Urss fu un caso di smembramento, con il quale lo Stato precedente si estingue per dare vita alla formazione di due o più Stati nuovi; infatti, l’ONU ammise Ucraina e Bielorussia, in quanto membri fondatori, in base all’art. 4 della Carta delle Nazioni Unite, mentre gli altri Stati nati dallo smantellamento furono ammessi ex novo. Occorre ricordare che la Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1942, infatti, aveva qualificato come “Stati” anche alcune entità che non lo erano, per l’assenza del requisito di indipendenza, come l’Ucraina e la Bielorussia, realizzando una presunzione iuris et de iure.
A Minsk nel 1991
L’8 dicembre 1991 il presidente russo Borís Él‘cin incontrò i leader di Ucraina e Bielorussia. Si accordarono sullo scioglimento e la costituzione di una Comunità di Stati Indipendenti (Csi). I tre contraenti si impegnarono a garantire ai propri cittadini uguali diritti e libertà, indipendentemente dalla nazionalità o da altre distinzioni. Ciascuna delle parti contraenti si impegnò a garantire ai cittadini delle altre parti diritti e libertà civili, politici, sociali, economici e culturali secondo le norme internazionali generalmente riconosciute in materia di diritti umani, indipendentemente da fedeltà nazionale o altre distinzioni. Gli accordi si allargarono alla protezione delle minoranze, obbligo per ciascun Stato contraente che, in virtù dell’art. 5, si impegnò a riconoscere e rispettare l’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini esistenti all’interno della Comunità ex sovietica.
Gli accordi di Minsk non furono dettagliati: la questione dei confini, fu percepita di minor rilievo rispetto alla disintegrazione dell’Urss. Él’cin aveva sostenuto l’indipendenza dell’Ucraina al fine di sconfiggere Michail Sergeevič Gorbačëv, ed il suo interesse era più che soddisfatto.La dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina nell’agosto 1991 e il successivo referendum segnarono una “separazione consensuale” fra le parti, adornata da dichiarazioni di principio molto ampie come il rispetto reciproco dell’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini esistenti “all’interno del Commonwealth”, un impegno che significava promettere di mantenere le frontiere aperte e i controlli transfrontalieri.
Nulla fu detto o scritto su come delimitare i confini, fino ad allora puramente interni tra le “Repubbliche” dell’Urss. Questo declassamento a questione secondaria era intimamente legato al contributo che Kyiv offrì alla Comunità degli Stati Indipendenti, alimentando a Mosca la certezza che lo status quo era sufficiente a contentare la neonata nazione che, addomesticata dalla memoria della politica di potenza subita da Stalin, avrebbe continuato a gravitare attorno all’impero ex-sovietico.
Come sappiamo non andò così e passarono altri tre anni prima che la Federazione russa superasse la clausola del “riconoscimento dei confini dell’Ucraina all’interno della CSI”.
Furono necessari, per ottenere un impegno formale a garantire i confini e la sovranità dell’Ucraina in cambio della rinuncia al suo arsenale nucleare, l’Accordo Trilaterale del 1994– tra Russia, Ucraina e Stati Uniti – e il Memorandum di Budapest.
Per Mosca fu quella l’occasione giusta per esercitare un ricatto parallelo, legando indissolubilmente il riconoscimento dell’integrità territoriale dell’Ucraina alla questione della Flotta del Mar Nero, di stanza nella penisola di Crimea. Il fatto che quest’ultima fosse legata a doppio filo allo status della base navale di Sebastopoli creò il primo vero nodo giuridico-diplomatico internazionale post-Guerra Fredda. La convinzione, poi, da parte delle élite politiche russe che la Crimea dovesse restare esclusivamente russa contribuì a creare una zona grigia che ha permesso gli eventi del 2014.
Il memorandum di Budapest (1994)
Il Memorandum di Budapestè uno snodo essenziale per comprendere l’attuale drammatica crisi bellica.
Nel 2014 il Dipartimento di Stato statunitense ( https://www.state/t/avc/isab/234902.htm. 2 December 2014) così annotò:” The annexation of Crimea, the first time that one nation has seized and annexed territory from another in Europe since the end of World War II, and one where Russia was in direct violation of pledges subscribed to in the Helsinki Final Act and the Budapest Memorandum of 1994”.
Con questa dichiarazione il Dipartimento di Stato, nel pieno della crisi ucraina del 2014, sottolineò che per la prima volta in un territorio “europeo” era stato coscientemente violato il principio di legalità e rispolverato all’occorrenza il diritto basato sulla forza.
Il Memorandum comprendeva tre accordi politici sostanzialmente identici firmati alla conferenza dell’Osce a Budapest, in Ungheria, il 5 dicembre 1994, per fornire garanzie di sicurezza dai suoi firmatari in relazione all’adesione della Bielorussia, del Kazakistan e dell’Ucraina al Trattato sulla non Proliferazione delle armi nucleari (acronimo angloamericano, Npt). I tre memorandum sono stati originariamente firmati dagli Stati dotati di armi nucleari e membri permanenti e con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la Federazione Russa, il Regno Unito e gli Stati Uniti. Gli altri due Stati, Cina e Francia, firmarono accordi separati contenenti misure di garanzie più attenuate.
I memorandum vietavano alla Federazione Russa, al Regno Unito e agli Stati Uniti di minacciare o usare la forza militare o la coercizione economica contro Ucraina, Bielorussia e Kazakistan, “tranne per legittima difesa o altrimenti in conformità con la Carta delle Nazioni Unite”. A seguito del memorandum e dei suoi corollari, tra il 1993 e il 1996, Bielorussia, Kazakistan e Ucraina rinunciarono ai loro arsenali nucleari.
Quindi il Memorandum di Budapest fu il documento, garantito dai tre Stati depositari del Trattato di non-proliferazione nucleare (acronimo italiano, Tnp), che convinse l’Ucraina a consegnare 1600 testate nucleari alla Russia, dopo le prime 2400 già consegnate tra il gennaio ed il maggio del 1992.
L’Ucraina, a differenza della Bielorussia e del Kazakistan, si era da subito (a quanto pare con buone ragioni) mostrata diffidente nei confronti della Russia, e soltanto le garanzie anglo-americane la convinsero a cedere armi che altrimenti sarebbero state oggetto di una più prudente condotta.
Il politologo americano John J. Mearsheimer, considerato un caposcuola del pensiero realista nell’ambito delle relazioni internazionali, scrisse un celebre articolo su Foreign Affairs, alla vigilia della firma del memorandum di Budapest (Budapest Memorandums on security Assurances, “Council on Foreign Relation”,5 november1994).
Mearsheimer sostenne, opponendosi al mantra politically correct, che la denuclearizzazione non avrebbe arrecato benefici all’Ucraina e non avrebbe stabilizzato il quadrante europeo nordoccidentale. Bill Clinton sbagliava: “President Clinton is wrong. The conventional wisdom about Ukraine’s nuclear weapons is wrong. In fact, as soon as it declared independence, Ukraine should have been quietly encouraged to fashion its own nuclear deterrent. Even now, pressing Ukraine to become a nonnuclear state is a mistake”.
Il politologo dell’Università di Chicago, a differenza dei potenti analisti della Casa Bianca, del Dipartimento di Stato, della Segreteria alla Difesa (in mancanza di documentazione specifica non faccio cenno ai servizi di intelligence) aveva capito che la global security di Clinton non poteva applicarsi all’Ucraina, perché, almeno lui, la storia russo/ucraina la conosceva e diffidava della capacità/volontà del Cremlino di tener fede alle garanzie messe sulla carta del Memorandum. Anzi, Mearsheimer, scrisse che in alcuni casi specifici la deterrenza nucleare era l’unica possibilità di impedire la guerra: “…Nevertless, nuclear proliferation sometimes promotes peace. Overall, the best formula for maintaining stability in post-Cold War Europe is for all the great powers- including Germany and Ukraine- to have secure nuclear deterrents and for all powers to be nonnuclear”. Occorre ovviamente ricordare che Clinton non era l’unico, anche se il più autorevole, mentore della sicurezza denuclearizzata. Dalle Nazioni Unite giungevano sul tavolo del Consiglio di Sicurezza pressocché unanimi suggerimenti perché le armi nucleari, una volta gestite dal sistema sovietico, non si disperdessero in più entità statali e fossero, invece, ricollocate sotto la responsabilità russa. Questo è il senso ultimo dell’accordo quadro che è sottinteso al Memorandum di Budapest, il quale, nonostante la dissoluzione dell’URSS riconosceva, in quanto potenza nucleare, alla Russia lo status che era riservato al precedente imploso sistema.
Tuttavia, la mancata applicazione della lettera e dello spirito del Memorandum di Budapest non è esclusivamente addebitabile alla responsabilità di Mosca, perché è stata accompagnata da una debole, anemica, preoccupazione anglo-statunitense prima e poi delle altre potenze, garanti in modalità diverse, la Cina e la Francia.
Almeno per quanto riguarda impegni più chiaramente definiti l’Ucraina deve attendere il 1995 ed il 1997.
Ogni gradino è una gran fatica
Accordi di Sochi (1995) e “Trattato” sull’amicizia (1997)
Negli Accordi di Sochi del 1995, la Russia confermò lo status della Crimea come parte dell’Ucraina, spingendo per i diritti esclusivi su Sebastopoli come parte di un lungo contratto di locazione. È stato solo nel maggio 1997 che Russia e Ucraina hanno finalizzato i dettagli della questione, concordando un contratto di locazione per 20 anni.
Questo accordo ha aperto la strada al “Grande Trattato” sull’amicizia, la cooperazione e il partenariato firmato a Kyiv il 31 maggio 1997 dal presidente dell’Ucraina Leonid Kuchma e dal presidente russo El ’cin.
L’Ucraina ottenne finalmente il riconoscimento formale di “Stato uguale e sovrano” con la Russia, che si impegnò a rispettarne l’integrità territoriale e l’inviolabilità dei confini “esistenti “ed altrettanto sottoscrisse Kiyv.
Kuchma ed El ’cin solennemente sottoscrissero i principi di partenariato strategico alla base del Trattato che, con il riconoscimento dell’inviolabilità dei confini esistenti, il rispetto dell’integrità territoriale e l’impegno reciproco a non utilizzare il proprio territorio per nuocere alla sicurezza reciproca, impegnava le due parti a non invadere rispettivamente l’altrui territorio, a mai dichiararsi guerra, a risolvere diplomaticamente le eventuali controversie!
Non solo. Entrambe le parti garantivano i diritti e le libertà dei cittadini degli altri Paesi sulla stessa base e nella stessa misura in cui tali diritti erano previsti per i propri cittadini, nell’ambito delle legislazioni nazionali degli Stati o dei trattati internazionali. Ogni Paese avrebbe protetto nell’ordine stabilito i diritti dei suoi cittadini residenti in un altro Paese, in conformità con gli impegni previsti dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, da altri principi e norme universalmente riconosciuti del diritto internazionale, dagli accordi all’interno del Commonwealth degli Stati indipendenti. L’accordo, tra l’altro, confermava l’inviolabilità dei confini dei Paesi, indipendentemente dal fatto che Russia e Ucraina non avessero finalizzato materialmente un confine.
Il “Grande Trattato” ha alimentato il mito che la inerme Ucraina avesse conseguito una significativa e duratura vittoria diplomatica. Gli avvenimenti posteriori ci raccontano una storia diversa. L’Ucraina può dimostrare che la sua autonomia, indipendenza, sovranità non sono frutto di allucinazioni dei suoi dirigenti, del suo popolo, né estemporanee e strumentali dichiarazioni di dirigenti russi da Vladimir Lenin a Nikita Sergeevič Chruščëv a Michail Sergeevič Gorbačëv a Borís Nikoláevič Él‘cin al funambolico Vladimir Vladimirovič Putin. I Trattati, il riconoscimento internazionale più volte certificato, dimostrano la fallacia della martellante propaganda russa che sostiene imperterrita falsi storici; questa è certamente una vittoria ucraina in confronto alla Storia. Nei fatti, la Russia ha usato a lungo termine gli accordi per svuotarli di significato, minando l’integrità territoriale della contro parte, installando basi militari, inviando truppe ed unità della Marina in Crimea, bloccando con escamotages la ratifica del Trattato del 1997 per costringere l’Ucraina a partecipare all’Assemblea interparlamentare della CSI,organo di integrazione svuotato di poteri ma dall’alta valenza simbolica, sfruttabile per gonfiarla di autorità improprie.
Il metodo russo è stato coerentemente ispirato dallo stesso modello esecutivo e l’Ucraina è sempre stata sostanzialmente lasciata sola da chi si era impegnata a difenderla in cambio della sua denuclearizzazione. Esempio di scuola: il Trattato sul confine di Stato Russia-Ucraina, firmato il 28 gennaio 2003, che definì sostanzialmente i confini terrestri comuni, fu ottenuto dal presidente ucraino Kuchma in cambio dell’ottenimento della partecipazione di Kyiv a due nuovi progetti di integrazione, la Comunità economica eurasiatica e lo Spazio economico comune.
Una sorta di cavouriana politica del carciofo. Nonostante la memoria selettiva di Putin, che firmò a nome della Russia il Trattato (rinnegato) del 2003, per la prima volta fu affermato che il confine di Stato russo-ucraino sarebbe stato individuato nella linea e superficie verticale che si realizza “seguendo quella linea che divide i territori statali delle parti del Trattato dal punto in cui i confini statali di Ucraina, Russia e Bielorussia si incontrano fino a un punto situato sulla costa del Golfo di Taganrog”.
Il punto in cui si incontrano i confini statali di Ucraina, Russia e Bielorussia avrebbe dovuto essere definito da un trattato separato.
Fu solo il 14 maggio 2010, sette anni dopo la firma, che il governo della Federazione Russa promulgò la risoluzione n. 720-r, ordinando al Ministero degli Affari Esteri della Federazione di iniziare a lavorare per concludere un accordo con il governo ucraino sulla demarcazione del confine.
Nel dicembre 2014, però, ancora alcun lavoro sulla definizione del confine era stato realizzato e l’Ucraina era riuscita a posizionare appena un paio di centinaia di segnali di confine, niente a fronte dei necessari, almeno una decina di migliaia giacché il confine Russia-Ucraina si estende per oltre 1900 chilometri.
È in questo quadro che si è sviluppata per decenni, dal Memorandum di Budapest, quella sorta di guerriglia ibrida che è l’assieme delle azioni coercitive su diversi fronti non soltanto militari, ma “mediatici”, economici, di cyber warfare, politici, diplomatici, che si è accentuata dopo la deposizione del governo ucraino filorusso di Viktor Fedorovyč Janukovyč (2010-2014) provocata dalla rivolta di Euromajdan. Una rivolta anche questa animata da complesse ragioni, non capite- spesso per motivi non disinteressati-da diverse potenze firmatarie e non firmatarie del Memorandum. Basti pensare agli interessi sull’energia di stati-chiave dell’Unione Europea e le conseguenze delle “guerre del gas” del 2006,2008,2009 che, soltanto oggi vengono riconosciute come violazione dei principi di Budapest, in quanto pressione economica coercitiva per alterare gli equilibri interni ucraini, favorendo fazioni minoritarie filorusse, e allo stesso tempo “acquisire” nuovi “alleati” desiderosi di buoni guadagni.
Si è sviluppata in questo contesto, favorita da una non innocente debolezza occidentale, la narrazione del Cremlino sul “colpo di stato”, “il nazismo anti russo” della rivoluzione popolare di Euromajdan che aveva portato alla formazione, secondo il ministro degli Esteri di Mosca, Sergej Viktorovič Lavrov, di “un governo con il quale non abbiamo sottoscritto alcun accordo vincolante”. Una bizzarra interpretazione del diritto internazionale, secondo il principio basilare della responsabilità in capo agli Stati di tener fede ai patti internazionali in continuità temporale non interrotta dalla successione dei governi. La stessa bizzarria, maggiormente rimarcata dalla analogia con quanto accaduto nel 1917 quando Lenin guidò la formazione dello Stato bolscevico, ed in riferimento al governo ucraino, è stata espressa da Putin nel marzo del 2014 durante una conferenza stampa ed è facilmente rintracciabile sul sito del Cremlino: htpp://en.kremlin.ru/events/president/news/by-date/04.03.2014
La fragilità del potere ucraino sorto dopo Euromajdan, le violazioni del diritto internazionale, l’invasione della Crimea, la ulteriore incertezza occidentale, hanno segnato progressivamente l’avvicinarsi alla attuale guerra.
Poiché soltanto la retorica sosterrebbe che l’eroismo del popolo ucraino debba essere votato all’eterno sacrificio, come raccomandato nel Breviario di storia romana di Eutropio che scrisse riferendosi alla rovinosa sconfitta di Canne, nella quale morirono trentamila romani: Nemo Romanorum pacis mentionem habere dignatus est (nessuno dei romani si sognò di nominare la Pace), anzi, essendo piuttosto timorosi che, come paventato dal filosofo Hobbes, la naturale tendenza dell’umanità, prima dell’avvento dello Stato, a sopraffare gli altri creando uno stato di conflittualità permanente e fuori controllo, generi un disastroso bellum omnium contra omnes, vedremo assieme di continuare la ricerca dei perché e per come del conflitto; per offrire basi solide alla ricerca non generica ma alla ferma volontà di realizzare non una Pace qualsivoglia, non una tregua momentanea, un cessate il fuoco ( che pur non guasterebbe), ma una Pace convinta e duratura.
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