In quella terribile fine d’Aprile del 1945 (il fascismo era caduto 600 giorni prima e la cosiddetta Repubblica Sociale si estingueva nel sangue) il Partito d’Azione tentava di salvare la vita a Benito Mussolini.
Gli Azionisti erano la stirpe più nobile e “antica” dell’antifascismo militante e combattente.
Volevano farla finita davvero con il fascismo e, di conseguenza, intendevano processare Mussolini in un Tribunale e non in una piazza.
Ritenevano, a ragione, che un vero procedimento legale sarebbe stato fondamentale per una vera soluzione di continuità con il Regime e per iniziare a costruire una Italia veramente nuova.
Ma ci si misero di mezzo gli inglesi e i comunisti e tutto finì nella “macelleria messicana” di Piazzale Loreto, secondo la definizione che ne diede Ferruccio Parri.
L’Italia aveva sorpassato il fascismo, ma gli italiani non lo avevano superato.
Il suo fantasma sarebbe rimasto ad essere evocato o maledetto, condizionando la vita democratica della nuova Italia.
In realtà, il superamento di una fase storica, soprattutto se dolorosa e contraddittoria, è molto più complesso del girare altrove la testa o dello sputare su una bara.
Implica, prima di tutto, la ricerca e il riconoscimento delle cause anche lontane che hanno generato i fatti di quel periodo.
Chiede di assumersi delle responsabilità di carattere collettivo, a partire dal presupposto che in una società complessa nessuno può dirsi integralmente innocente di ciò che è stato fatto e vissuto.
Si può essere orgogliosi di non avere aderito e financo di essersi opposti, ma in una collettività una percentuale anche minima di “colpa” ricade comunque su tutti.
Ancora, il superamento non può pretendere di ignorare e rimuovere quelle parti positive che hanno comportato quel tanto di consenso o di adeguamento passivo che sono stati comunque alla base della vita di una comunità (nazionale o meno che sia) durante un determinato lasso di tempo.
Naturalmente, come accade spesso in questi casi, tutta la complessità di percorso di superamento può essere sostituita dalla straordinaria forza eversiva di un’azione simbolica.
Il 7 Novembre del 1970 Willy Brandt cade in ginocchio, a Varsavia, di fronte al monumento che ricorda la eroica resistenza ed insurrezione del Ghetto contro le truppe del III Reich.
Brandt non è mai stato nazista (anzi!), non è credente e in quel momento è il Cancelliere della Repubblica Federale di Germania.
Genuflettendosi senza preavviso utilizza un linguaggio simbolico inusuale per lui e chiede perdono a nome di tutti, anche di chi il nazismo lo ha combattuto sempre.
In quanto Cancelliere chiede perdono anche a nome della sua democratica Nazione e del suo Popolo. Elabora, insomma, tutto l’orrore di quegli anni e chiede di superarlo. Non fa politica, non giudica e non assolve. Nel 1971 gli verrà assegnato il premio Nobel per la pace e nel 1976 verrà eletto Presidente della Internazionale Socialista, ma il suo momento più alto resterà quello di quel giorno a Varsavia.
Dunque, superare non è facile mentre sorpassare urlando sembra facilissimo.
Ma, rifiutandosi al superamento, ci si trascina dietro una serie di conseguenze molto più gravose dello sforzo iniziale richiesto.
Un buon esempio di questa deformazione è il rapporto che l’Italia continua ad intrattenere con una serie di fatti che caratterizzano un periodo storico più vicino del fascismo.
A partire dalla seconda metà degli anni ’60 sino a quella degli anni ’80 in Italia sono avvenute molte cose con cui ci siamo rifiutati sinora di fare i conti.
Diverse decine di migliaia di persone (giovani e giovanissimi, per lo più) hanno praticato e condiviso forme di lotta e di impegno politico di natura non propriamente legale.
Ciò è avvenuto a sinistra come a destra, sia pure con forme e manifestazioni diverse a seconda delle ideologie di appartenenza.
Insomma, un bacino complessivo di molte migliaia di italiani si è considerato (ed era) disponibile ad aderire a prospettive di conquista del potere (o di resistenza al potere) stesso basate sull’uso delle armi, della violenza e della sopraffazione degli avversari.
Sia chiaro che non tutti gli aderenti a questa base di massa hanno commesso atti illegali, hanno impugnato e usato armi, hanno costituito strutture segrete ed effettivamente operato contro la democrazia in Italia.
Tutti, però, si sono sentiti disponibili a collaborare, se fosse stato necessario, con i propri compagni di lotta anche in presenza di gravissimi reati e di una effettiva contrapposizione con lo Stato.
Il non riconoscimento nelle Istituzioni unito alla necessità di operare attivamente per abbatterle è stato, con tutte le sue conseguenze, un elemento fondante sia dell’estrema destra come della estrema sinistra.
In entrambi gli ambiti si è collegato a valori preesistenti, a sentimenti diffusi, alla insofferenza per i comportamenti “pacifici” dei rispettivi Partiti che presidiavano quelle aree politiche.
I quali Partiti (MSI e PCI), d’altra parte, avevano scelto di non rimuovere effettivamente queste opzioni ma, più semplicemente, di governarle cercando di evitare atteggiamenti estremi e azioni irreversibili.
A questa “doppiezza” politica si unirono vari fattori.
Tra essi il contesto internazionale, l’azione di servizi segreti italiani e non, una certa arretratezza culturale tipicamente italiana e, perché no?, anche l’estremizzazione dei comportamenti tipica della fase post – adolescenziale.
Il risultato è stato che un confine sottilissimo ha separato moltissimi giovani italiani, di destra come di sinistra, dalla decisione finale di impugnare le armi contro lo Stato e contro i propri avversari politici.
Un certo numero ha invece assunto quella decisione e nei loro confronti non può esistere altro che una corretta via giudiziaria.
Ma gli altri hanno evitato, talvolta per puro caso, di scegliere quella strada e hanno proseguito il loro cammino nel mondo.
Tuttavia, però, i loro pensieri di quegli anni giacciono in fondo ai loro cuori.
Generano sensi di colpa o divertimento, vergogna o tentativi di rimozione, silenzi oscuri o minacciosi avvertimenti, o chissà quante altre cose.
L’Italia ha dimenticato tutto questo, ma non lo ha mai consapevolmente superato.
Nessuno sembra disponibile a ragionare sul perché la prospettiva della lotta armata abbia raggiunto solo nel nostro Paese una tale dimensione di massa.
Non vengono costruiti riferimenti tra quanto avveniva ieri e quanto era avvenuto avantieri.
Piuttosto che superare effettivamente la malattia si preferisce portarsela dentro come un handicap nascosto che potrebbe manifestarsi nuovamente.
Molti di noi, ormai vecchi, abbiamo vissuto intensamente e direttamente quegli anni.
Tutti però sappiamo, pur se non abbiamo varcato quel confine, di non essere davvero innocenti e forse vorremmo che la nostra Nazione elaborasse e superasse quegli anni strani, belli e terribili insieme.
SEGNALIAMO
Commenti
2 risposte a “SUPERARE, NON SORPASSARE”
Leggo con molto piacere i tuoi scritti, talvolta sottilmente provocatori ma comunque stimolanti. C’è sempre una riflessione o un punto di vista che mi trova d’accordo, anche quando non condivido la tua tesi di fondo.
Grazie di condividerli con me.
Bellissimo anche questo, Beppe. Sento molto il peso di quegli anni sui rischi che ho corso, ma anche per gli errori che ho fatto e per i prezzi che hanno dovuto pagare miei coetanei da una parte e dall’altra. Ed oggi, dopo tanto vagare per cinquanta anni nella sinistra italiana, se mi sento vicino a qualcosa, di questa storia che ha oltre un secolo, questo è l’approccio degli azionisti di allora.