TRANSIZIONE ALL’ITALIANA

Certamente esiste, che ci piaccia o meno, una “via italiana alla transizione”.

Essa si manifestò quel 25 luglio del ’43 nei caminetti romani intasati di camicie nere che occorreva bruciare al più presto per cancellare venti anni circa di appassionato sostegno.

Riapparve nelle brillanti dichiarazioni di dirigenti nazionali del PCI, che si affrettavano a spiegare di non essere mai stati comunisti, nemmeno quando erano comunisti.

Si presentò nella sordida aggressione fisica ai danni di Craxi, organizzata in quel di Piazza Navona da fascisti e comunisti tutti d’accordo per una manifestazione vigliacca e miserabile.

Il cuore di questo atteggiamento, che da individuale si trasforma spesso in collettivo, sta nella propensione tutta italiana a scansare da se stessi le drammaticità della Storia.

Di fronte ai momenti di transizione che per loro natura chiederebbero chiarezza di intenti e assunzione di responsabilità la linea di autodifesa è chiara: aggredire chi appare in difficoltà, contribuire se possibile alla sua caduta, cancellare anche simbolicamente qualunque connivenza passata, presente e futura.

Si tratta di un atteggiamento più vasto del pur geniale “correre in aiuto del vincitore” di Ennio Flaiano.

Implica e porta con sé, pur non elaborata, l’idea di una profonda amoralità della Storia e del percorso umano al suo interno.

A nulla sembra servire l’avere dato i natali a Benedetto Croce e a Giovanni Gentile.

Nel momento in cui l’individuo ritiene di essere costretto a rapportarsi con i grandi fatti storici, il senso comune sembra rifugiarsi in un machiavellismo d’accatto malamente funzionale alla diretta (e ristretta) sopravvivenza.

Il concetto di responsabilità collettiva ed individuale si dilegua.

E non basta, purtroppo, a rianimarlo il ricordo di Alcide De Gasperi con il suo “Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me” dell’agosto ’46 a Parigi.

Tuttavia va anche detto che a volte la complessità della Storia consegna allo spettatore dei contesti così densi da non poter essere elaborati con le furberie delle tradizionali tecniche di rimozione e salvaguardia.

È quel che succede da qualche mese, determinandosi un quadro in cui l’opportunismo tattico fatica a trovare il proprio spazio: un contesto in cui, come vedremo, è ben difficile (anche per dei professionisti) individuare sia vincitori da soccorrere che sconfitti da affossare.

Il governo Meloni è il primo governo, da diversi anni, a giungere al potere in seguito a una elezione democratica e ad una piattaforma elettorale esplicita.

Il suo avvento ha decisamente il sapore di una transizione chiara ed importante. I tatticismi e i rivoltamenti di gabbana degli ultimi anni appaiono dileguarsi.

Ciò dovrebbe facilitare la chiarezza del passaggio in corso, ma non è così sino in fondo.

Le parti assegnate in precedenza, nel confuso contesto preesistente, risultano difficilmente applicabili al nuovo quadro.

Intanto si dissolve la dinamica fascismo – antifascismo e questo scombussola i piani dei professionisti dello schieramento strumentale.

Non serve a nulla “scoprire” ora di avere un nonno tra i Marciatori del ’22 e nemmeno essere iscritti alla locale Associazione Partigiani.

Vi è naturalmente chi rintraccia le prove di un golpismo strisciante e chi sogna di tornare alla lotta contro le basi Nato. Ma si tratta di folclore, spesso auto alimentato.

D’altra parte inevitabilmente crollano anche le aspettative di chi riteneva (o si illudeva) di avere a lungo combattuto per la conquista del potere e si aspettava effetti mirabolanti, anche in termini personali.

Governare è cosa complessa, tanto più in tempi complessi e drammatici come questi.

I fattori che chi è chiamato a governare deve tenere presenti sfuggono in gran parte alle logiche del consenso immediato e facilone.

È cosa che ben comprese la Chiesa di Roma, quando spiegò che allo “stato di grazia”, che conduce alla vittoria, deve sostituirsi la “Grazia dello stato” che permette di vedere quel che prima non si percepiva e di agire in conseguenza.

Insomma, stiamo vivendo una grande transizione da cui potrebbe uscire una Italia migliore di quella confusa e ipocrita in cui abbiamo vissuto, ma non prosperato, negli ultimi decenni.

La vera domanda è, tuttavia, la seguente: saremo capaci di comprendere che la possibile “nuova Italia” non è un obiettivo né di destra né di sinistra?

Saremo capaci, come singoli e come gruppi, di non assumere posizioni strumentali legate a precedenti appartenenze per riconoscersi tutti, finalmente, in un contesto istituzionale di alternanza democratica?

Possiamo sognare un mondo senza “ex”, senza ex fascisti, senza ex comunisti, senza “conti in sospeso” su cui attestarsi per ricavarne un qualche utile?

Potrebbe essere il momento giusto per superare la “transizione all’italiana” e considerarsi, finalmente, come un Popolo e una Nazione che affronta, vive e supera passaggi storici complessi ma non permette agli errori del passato di continuare a inquinare il presente.

Nel Dicembre del 1970 Willy Brandt cadde letteralmente in ginocchio di fronte al monumento che ricorda i fatti del Ghetto di Varsavia.

Nessuno poteva accusarlo di connivenze con il nazismo, nessuno poteva ritenere che dovesse chiedere perdono per quell’orrore.

Con quel gesto profondamente umano Brandt, a nome del popolo tedesco, assunse e insieme superò senza strumentalismi e analisi di parte la vergogna del Ghetto, aprendo una nuova era.

È ben vero che poi venne criticato in patria, ma di quelle critiche (spesso di sinistra) nulla è rimasto mentre il suo gesto parla ancora a tutti.


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