Sarebbe impossibile dare l’idea in questo contributo della complessa storia del fronte orientale durante la Seconda Guerra Mondiale. Le strategie militari messe in campo dai rispettivi comandanti supremi, Hitler e Stalin, sono la vivida testimonianza di una complicata mescolanza di vendetta e odio portati all’estremo più da moventi psicopatologici che ideologici. Difatti, la disumanità che si raggiunse sul fronte orientale, e nei combattimenti di prima linea e nelle soluzioni di sterminio delle retrovie, non ha precedenti nella storia dell’umanità. È per noi difficile riuscire ad inquadrare adeguatamente cosa significò combattere a Stalingrado, morire di fame a Leningrado e difendere Mosca ad ogni costo. Eppure ciò è accaduto, e noi dobbiamo ritenere nella memoria, con empatia e fermezza di spirito, quanto accade in quei terribili anni di guerra.
Sarebbe ingiusto affrontare la storia del secondo conflitto mondiale cercando di definire chiaramente quale dei due grandi schieramenti (quello sovietico e quello nazista) fu il liberatore e quale invece l’oppressore. Si tratta, infatti, di due sistemi di morte, estremi e disumani, che nei rispettivi comandi supremi, ben oltre le differenze, vissero una comunanza d’intenti, macabra e inaccettabile: la distruzione totale del nemico, la soppressione del dissenso, il rifiuto dell’umanità. La liberazione realizzata dall’Armata Rossa fu certo tale (e anzi i prigionieri di Treblinka l’auspicarono con veemenza e speranza fin dalle prime deportazioni: un ragazzino che entrò nella camera a gas gridò: «non piangere, mamma, i russi ci vendicheranno»), ma soltanto nella misura in cui un sistema totalitario disumano subentrò, dopo duri scontri di riconquista, ad un altro sistema totalitario. Disquisire sulle differenze tra un Gulag e Treblinka può essere certamente un esercizio di erudizione storica, ma dal punto di vista morale tale disquisizione non potrebbe che portare alla stessa, drammatica, tesi conclusiva: essi sono perfettamente identici nel disumano oltraggio alla dignità dell’uomo.
La storia di Treblinka è comunque profondamente simbolica. La studio della fine del campo di sterminio si impone alla nostre coscienze, storiche e civiche, come momento ineludibile della conoscenza di quei terribili mesi. In effetti la dialettica tra memoria e dimenticanza assume, per quanto concerne Treblinka, una teatralità drammatica e però anche assai significativa. Questo è vero perché furono proprio i nazisti, preoccupati dall’andamento catastrofico della guerra sul fronte orientale, in particolare per la sconfitta agghiacciante subita sul Volga, a Stalingrado, e a seguito della rivolta del campo del 2 agosto 1943 (che si realizzò sulla scia della rivolta del ghetto di Varsavia), a voler cancellare il campo dall’orizzonte della memoria. I nazisti lottarono, cioè, per favorirne la dimenticanza. «I tedeschi», racconta Grossman, «incenerirono i cadaveri rimasti, smantellarono gli edifici in muratura, tolsero il filo spinato e finirono di bruciare quello che restava delle baracche. I macchinari della casa della morte vennero smontati, caricati e portati via, i forni distrutti, le scavatrici trasferite altri, le tante, gigantesche fosse furono riempite di terra, la stazione demolita fino all’ultimo mattone e, per finire, anche i binari furono rimossi e portati via» (V. Grossman, L’inferno di Treblinka, p. 73).
Fu a Stalingrado, secondo Grossman, che cominciò il lungo cammino che portò l’Armata Rossa a Treblinka. Nella memoria collettiva del popolo russo, della quale Grossman fu in qualche modo testimone, c’era l’idea che nella strada del reflusso dal Volga alla Vistola, i soldati russi, decorati con il nastro verde della medaglia di Stalingrado, fossero riusciti a vendicare i crimini commessi dalle orde naziste nella loro insensibile guerra di aggressione: «E non è forse un simbolo meraviglioso che a Treblinka, vicino a Varsavia, siano giunti proprio alcuni degli uomini che trionfarono a Stalingrado?» (p. 75).
A Stalingrado, infatti, non soltanto la 6ª Armata tedesca, guidata dal feldmaresciallo Paulus, ma l’intera coscienza collettiva nazista ne uscì sconfitta. Nessuno (per colpa anche delle folli scelte militari di Hitler, indisposto ad acconsentire ad una forma di difesa elastica e strategica) riuscì più ad impedire all’Armata Rossa e ai suoi generali di giungere, due anni dopo, alle porte di Berlino. Non prendo parte alle prospettive, inevitabilmente parziali, delle memorie collettive. Mi limito però a rilevare e ribadire che, lontano da ogni giudizio di valore e da ogni considerazione etica e morale, quello di Treblinka fu davvero un caso assai simbolico.
Se Himmler, il Reichsführer delle SS, ordinò la cancellazione di ogni traccia di Treblinka dalla memoria, i prigionieri evasi a seguito della rivolta del 2 agosto 43’ e i contadini e i cittadini delle periferie e di Wólka, e quindi tutti coloro che per otto mesi avevano visto il cielo essere invaso dalle colonne di fumo dei forni crematori, non si arresero a questa bieca damnatio memoriae. Non sappiamo, è vero, i nomi di ogni singolo prigioniero che si è battuto, nella disperazione indotta dalla disumanità del trattato ricevuto, contro un nemico freddo, implacabile e omicida. Però tale ignoranza non è un limite per il ricordo. È vero, nessuno conoscerà il nome del bambino giunto da Varsavia che, già denudato, riuscì a scagliare una granata contro i suoi aguzzini. Nessuno conoscerà il nome della ragazza, anch’essa nuda e pronta ad essere giustiziata, che riuscì a rubare la carabina ad un Wachmann e tenne testa, disperata, ad un manipolo di SS.
Nessuno conosce questi nomi eppure, scrive Grossman, essi sono uomini e «nei loro epitaffi la storia scriverà: “Qui riposa un essere umano”» (p. 45). La tutela del ricordo, conquistata nella rivolta del 2 agosto, si oppose al tentativo della dimenticanza, imposto dal vertice supremo delle SS e il nostro dovere è quello di ricordare ogni giorno «quanto sia stato facile uno sterminio di massa» (p. 79).
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