Sedici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Giampiero Gramaglia
Giornalista,
co-fondatore di Democrazia futura, già corrispondente a Washington e a Bruxelles
Proseguono le corrispondenze di Giampiero Gramaglia sugli sviluppi dei due principali fronti bellici in Ucraina e in Madio Oriente nella metà di dicembre. Il primo “Medio Oriente senza pace Israele pigliatutto; Ucraina verso negoziato” scritto l’11 dicembre analizza le incursioni israeliane in Golan dopo il cambio di regime in Siria non senza chiedersi chi comanda davvero in questo paese dopo la caduta della dinastia degli Assad, e si sofferma sull’incontro fra Trump e Zelenskyj aParigi in occasione della riapertura della cattedrale di Notre Dame. Il secondo scritto il 18 dicembre Uno scoppio a Mosca, un pugno sul tavolo di Israele si sofferma sull’uccisione rivendicata dall’intelligence di Kiev a Mosca del generale Kirilov e sulle ipotesi sempre più plausibile dopo il rafforzamento di Israele sull’intero scacchiere medio-orientale di accordo per la tregua con Hamas e la liberazione degli ostaggi anche se – ricorda l’ex direttore dell’Ansa . per ora Israele continua la guerra nella Striscia di Gaza.
20 dicembre 2024
1. Medio Oriente senza pace, Israele pigliatutto; Ucraina verso negoziato[1]
Non c’è pace ai confini di Israele; e neppure dentro il Paese. A Sud, Israele continua a fare la guerra nella Striscia di Gaza. A Nord, tiene, pur con ripetute violazioni, soprattutto israeliane, la tregua con Hezbollah, mentre l’esercito israeliano approfitta del caos in Siria, dove il cambio di regime innesca incertezza e confusione, sbandamento e debolezza, per annientare la marina siriana nelle sue basi e per distruggere l’80 per cento di depositi e apparati militari delle forze regolari e delle milizie filo-iraniane. Obiettivo di Israele, creare una zona demilitarizzata al confine israelo-siriano, come c’è già con il Libano, e occupare aree del Golan abbandonate dall’esercito siriano, fino a 20 chilometri da Damasco, senza tenere conto del fatto che l’occupazione israeliana delle alture del Golan è illegittima, a giudizio dell’Onu. Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non c’è pace neppure a casa. Martedì 11 dicembre, il premier è stato lungamente chiamato a deporre nel processo per corruzione in atto contro di lui: l’accusa sostiene che, in tre diverse occasioni, abbia compiuto frodi, violato la fiducia e accettato bustarelle; lui nega tutti gli addebiti. È la prima volta che un premier israeliano è colpito da accuse penali: secondo gli inquirenti, ha sfruttato la sua posizione per ottenere champagne e sigari e denaro.
“Questa è una bugia totale – si difende l’imputato –: lavoro 17, 18 ore al giorno, tutti coloro che mi conoscono lo sanno”.
E rivendica, sul piano geo-politico, il merito di
“avere ridisegnato la mappa del Medio Oriente” a favore di Israele.
Miliziani a Damasco (Fonte: AdnKronos)
I paradossi israeliani non sono gli unici, nel Medio Oriente che aggiunge crisi a crisi. Al telefono con la premier italiana Giorgia Meloni, il presidente turco Racep Tayyip Erdogan, uscito vincitore dalla vicenda siriana, lamenta che Israele agisce nella Regione con “mentalità da occupazione”.
Peccato che le forze turche siano accampate anch’esse nel Nord della Siria, occupando in funzione anti-curdi una porzione del territorio al confine con la Turchia.
Quanto all’Iran, uno degli sconfitti della vicenda siriana,
“cerca di riannodare le fila” dopo “la scossa tellurica” nel Medio Oriente,
scrive il New York Times, nonostante l’indebolimento generalizzato della sua presenza in tutta l’area, a partire dagli Hezbollah in Libano. Tutto intorno, Iraq, Arabia Saudita, Qatar sono sul chi vive, per parare colpi – Baghdad – o cogliere occasioni d’aumentare la propria influenza – Riad e Doha -.
A quello che succede a Gaza, nessuno bada più, nonostante le cronache restino tragiche: mercoledì 12 dicembre in mattinata, un attacco israeliano ha ucciso almeno 26 palestinesi, fra cui sei bambini e un’intera famiglia di otto persone, quando un ordigno ha distrutto un edificio che ospitava rifugiati a Beit Lahiya, nel Nord della Striscia, vicino al confine con Israele. Lo riferiscono fonti sanitarie palestinesi. Molti esultano, alcuni troppo, altri con qualche riserva. Tra questi ultimi quelli che ancora vogliono capire se ci sarà, oltre alla redistribuzione delle aree di influenza politica tra i numerosi interessati, anche qualche piccolo passo verso un sistema democratico che realizzi, questa volta, anche quella maggiore libertà per le donne che quasi tutti affermano di volere. La caduta di Bashar al Assad in fondo, con qualche piccola variante, è un copione già visto.
Adesso “ha da passà a nuttata”, incubi compresi (Dida e vignetta di Gianfranco Uber)
C’è chi pensa che i recenti sommovimenti possano accelerare un’intesa sugli ostaggi tra Israele e Hamas: un centinaio, degli oltre 250 catturati il 7 ottobre 2023, nei raid terroristici palestinesi costati a vita a circa 12000 israeliani, non sono stati ancora restituiti alle famiglie e una cinquantina sarebbero ancora vivi. Ma pare che solo le famiglie ne facciano una priorità in questo momento.
Gli aspetti umanitari di questo intreccio di sanguinosi conflitti sembrano scivolati in secondo piano. Amnesty International chiede alla Corte Penale Internazionale di
“aggiungere il genocidio all’elenco dei crimini di Israele su cui sta indagando”;
e avverte gli Stati che continuano a dare armi a Israele che
“stanno violando l’obbligo di prevenire il genocidio”.
Chi comanda a Damasco?
L’Occidente segue gli sviluppi in Medio Oriente, interrogandosi sulla piega degli eventi, soprattutto su chi comanda a Damasco, dove Muhammad al Bashir, formalmente incaricato dagli ex – o tuttora – jihadisti di formare un governo di transizione, destinato a durare tre mesi, assicura:
“Scioglieremo i servizi di sicurezza e aboliremo la legge anti-terrorismo”.
Ai soldati dell’esercito regolare, oltre 4 mila dei quali fuggiti in Iraq, è stata concessa l’amnistia.
Al Bashir è persona di fiducia dell‘’uomo forte’ del momento a Damasco, il leader dei ribelli Abu Mohammed al-Jolani. Erdogan lo spalleggia:
“Ogni attacco alla libertà del popolo, alla stabilità della nuova amministrazione e all’integrità del territorio ci vedrà al fianco del popolo siriano”.
Eppure, la Turchia ha finalità sue proprie: vuole fare rientrare i rifugiati, al ritmo di 20 mila persone al giorno, e tenere sotto tiro i curdi siriani, considerati “terroristi”.
Le reazioni internazionali di fronte alla ‘nuova’ Siria
Ignominiosamente, l’Europa non sa fare di meglio che sospendere l’esame delle richieste di diritto di asilo di siriani: come se la Siria fosse diventata un Paese sicuro e non sia, piuttosto, un intreccio di conflitti fra ideologie, integralismi ed etnie. Il cattivo esempio lo dà l’Italia, ma molti altri Paesi sono ben contenti di accodarsi, in attesa che i 27 valutino e definiscano l’atteggiamento da tenere verso la ‘nuova’ Siria.
Per una volta, Donald Trump è il più cauto di tutti. Mentre l’Onu e l’Unione europea, il presidente statunitense in carica Joe Biden e i leader europei giudicano a priori positiva l’uscita di scena del dittatore siriano Bashar al Assad, Trump avverte che
“gli Stati Uniti d’America non dovrebbero farsi coinvolgere”.
Poche ore prima che Damasco cadesse in mano ai ribelli, scriveva sul suo social Truth:
“Questa non è la nostra battaglia… Lasciate che si svolga”,
evocando il fallito impegno di Barack Obama a fare rispettare nel 2014 la linea rossa sull’uso delle armi chimiche da parte del regime siriano.
Nel testo di Trump, c’è anche un messaggio al presidente russo Vladimir Putin: la rapidità shock degli eventi in Siria è stata possibile perché la Russia,
“impegnata in Ucraina, dove ha perso oltre 600 mila soldati, non è stata capace di proteggerla”.
Poche ore dopo, Biden, invece, si esprimeva così:
“Finalmente Assad è caduto. Per i siriani, è un’opportunità storica”;
e sosteneva che il dittatore in fuga
“deve essere portato in giustizia e punito”.
Su posizioni analoghe, i maggiori leader europei, anche quelli che erano stati soci d’affari del presidente dimessosi (alias deposto).
L’Ucraina alla festa per la riapertura di Notre Dame
Mentre Trump era a Parigi, l’Amministrazione Biden annunciava quasi un miliardo di ulteriori aiuti in armamenti a Kiev: la Casa Bianca sta cercando di spendere tutti i soldi già vistati dal Congresso prima del cambio della guardia. E, sul terreno, russi e ucraini cercano di consolidare le posizioni, in vista di un negoziato che appare ormai non solo inevitabile – lo è sempre stato -, ma anche imminente.
Trump, in un’intervista alla Nbc registrata prima di partire per Parigi, ma diffusa domenica, avverte che gli aiuti all’Ucraina potranno essere ridotti e minaccia di lasciare la Nato se gli alleati non saranno “giusti” con gli Stati Uniti d’America, cioè non pagheranno di più, oltre che ribadire molti aspetti del suo programma, dall’imposizione di dazi alla ‘deportazione’ di milioni di migranti.
A livello nazionale, gli alleati europei degli Stati Uniti stanno già adeguandosi al cambio di tono: ‘Trump 2’ scuote e divide l’Unione europea, con le destre in sollucchero e i progressisti in ambasce. Unione europea e Nato, come organizzazioni, mantengono, per il momento, la linea del sostegno all’Ucraina.
Il presidente eletto Usa Donald Trump all’Eliseo il 7 dicembre con i presidenti francese Emmanuel Macron e ucraino Volodymyr Zelensky (Copyright Aurelien Morissard Copyright 2024 The AP)
Il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea dà via libera a 4,2 miliardi di dollari di aiuti, la seconda tranche del cosiddetto Strumento per l’Ucraina da 50 miliardi finanziato con i beni russi congelati e destinato a sostenere, nei prossimi quattro anni, le finanze e a migliorare il funzionamento della pubblica amministrazione ucraine; e il Parlamento europeo sollecita un maggiore sostegno militare all’Ucraina, tenuto conto del coinvolgimento nel conflitto di Cina e Corea del Nord.
Nel Consiglio atlantico, riunito a Bruxelles, la Nato promette a Kiev ulteriori aiuti, per rinforzarne la posizione in vista d’una trattativa. Annalena Baerbock, ministro degli Esteri tedesco, sprona i partner a spendere di più per la sicurezza comune. Zelens’kyj apre a negoziati sulla restituzione delle regioni occupate, ma la richiesta di adesione alla Nato cade per ora nel vuoto; e lì, probabilmente, resterà.
Prove di dialogo tra l’Ucraina e il ‘Trump 2’ si sono già state a Washington nella prima settimana di dicembre, quando il capo dell’ufficio presidenziale di Kiev Andriy Yermak ha incontrato il team Trump, cioè l’inviato ad hoc Keith Kellogg e il consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz, presente anche il vicepresidente James David Vance.
Kellogg avrebbe espresso sostegno agli sforzi dell’Amministrazione Biden per inviare rapidamente armi in Ucraina, affermando che ciò darà a Trump una leva per negoziare con Mosca un accordo. Ma ha mostrato scarso interesse nell’offrire a Kiev l’adesione alla Nato, ritenuta invece da Zelens’kyj una garanzia di sicurezza fondamentale contro future aggressioni. Yermak ha incontrato in Florida anche la futura capa dello staff della Casa Bianca Susie Wiles.
12 dicembre 2024
2. Uno scoppio a Mosca, un pugno sul tavolo di Israele[2]
Uno scoppio a Mosca. Un pugno sul tavolo battuto da Israele; ma col bastone la carota, l’accordo per la tregua con Hamas e la liberazione degli ostaggi non sarebbe mai stato così vicino come oggi. Le cronache di guerra di metà dicembre sono, come sempre, convulse e tragiche e, al contempo, confuse e contraddittorie: il fronte ucraino, che pareva il più vicino a uno sviluppo negoziale. s’infiamma; da quello mediorientale, che pareva lontanissimo da un simulacro di pace, giungono segnali di ottimismo – ma non sarebbe la prima volta che le speranze vengono deluse -. Né in Ucraina né in Medio Oriente, le preghiere di pace di Natale saranno esaudite. Alla meglio, avranno un’eco nel balsamo di una tregua. Ma il mese di qui al 20 gennaio, cioè all’insediamento alla presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump, potrebbe essere foriero di novità anche repentine, tra chi vuole compiacerlo e chi vuole sottrarsi alla sua imprevedibilità.
Lo scoppio a Mosca dell’ordigno che colpisce a morte il generale Igor Kirillov
Lo scoppio a Mosca è quello dell’ordigno che, installato su un monopattino elettrico ed azionato a distanza, uccide il generale russo Igor Kirillov, lo specialista della guerra chimico-batteriologica e radioattiva, il comandante delle forze di difesa nucleare. Accade all’alba di martedì 17 dicembre: poche ore dopo, i servizi segreti ucraini rivendicano l’azione contro – dicono –
“un obiettivo legittimo”;
invece, il Cremlino denuncia
“un atto di terrorismo internazionale”
e minaccia ritorsioni inevitabili. L’esplosione è un vero e proprio “attacco al centro del regime” del presidente russo Vladimir Putin:
“Un nuovo omicidio politico – scrive Stefano Feltri – per destabilizzare Putin ed esorcizzare i timori sull’arrivo di Trump”,
che considera ineluttabile che Kiev accetti di sedersi al tavolo della trattativa con Mosca in condizioni di inferiorità sul terreno, così com’è ora.
L’occupazione israeliano della zona cuscinetto con la Siria nelle alture del Golan e il possibile accordo con Hamas per una tregua a Gaza in cambio della liberazione di ostaggi
Nelle stesse ore, il premier israeliano Benjamin Netanyahu teneva comportamenti apparentemente contrastanti: diceva che l’esercito israeliano occuperà a tempo indeterminato una zona cuscinetto lungo il confine con la Siria, in territorio siriano, e in particolare sulla sommità del Monte Hermon,
“finché non saranno stati definiti nuovi accordi che garantiscano la sicurezza d’Israele”.
Appare un atto ostile nei confronti del nuovo regime siriano, di cui le intenzioni e le caratteristiche restano, del resto, fumose e incerte. Ma, contemporaneamente, Netanyahu lascia lievitare le voci sulla possibilità di raggiungere un accordo tra Israele e Hamas per una tregua nella Striscia di Gaza, in cambio della liberazione di ostaggi. I palestinesi avrebbero fornito, per la prima volta, una lista degli ostaggi ancora vivi nelle loro mani, dicendosi disponibili a liberarli ad alcune condizioni. Si diffonde persino la notizia, poi smentita, di una missione di Netanyahu al Cairo per perfezionare l’intesa.
In Ucraina l’uccisione di Kirllov non modifica gli squilibri
Le immagini delle telecamere di sorveglianza che riprendono il momento dell’esplosione e, quindi, dell’uccisione di Kirillov e del suo assistente, appena fuori dal complesso residenziale dove abitava, fanno il giro del Mondo e mostrano che il regime di Putin è vulnerabile – ma tutti sono consapevoli che gli attacchi terroristici, nella loro imprevedibilità, sono spesso impossibili da sventare -.
Il suo ruolo era più importante del grado perché Kirillov, spiega Gianluca De Feo su La Repubblica,
“comandava una delle strutture più sensibili del sistema di potere putiniano: l’RKhBZ, acronimo che indica la difesa contro gli attacchi nucleari, batteriologici e chimici. È un settore che, nel resto del Mondo, è stato quasi dimenticato alla fine della Guerra Fredda mentre ha ricevuto dal Cremlino un impulso straordinario”.
Il generale Kirillov, 54 anni, ricopriva il suo incarico dall’aprile 2017. Martedì 17 dicembre in mattinata, nessuno aveva fatto caso al monopattino parcheggiato nei pressi del portone da cui lui sarebbe come sempre uscito per recarsi al lavoro. Le indagini dovranno stabilire quando era stato messo lì e chi ce l’aveva portato: 24 ore dopo, c’era già un sospetto in carcere, un cittadino uzbeko che sarebbe stato reclutato dall’intelligence ucraina.
“Kirillov – dicono a Kiev – era un criminale di guerra: aveva dato l’ordine di usare armi chimiche proibite contro l’esercito ucraino”.
Il giorno prima dell’agguato mortale, lunedì 16 dicembre, il generale era stato incriminato in contumacia da un tribunale ucraino proprio per il ricorso ad armi chimiche: secondo i dati di Kiev, dall’inizio della guerra ci sono stati oltre 4.800 casi di uso di armi chimiche da parte russa.
A conferma delle tesi dell’Ucraina, il premier britannico Keir Starmer dichiara:
“Non piangeremo l’uccisione di Kirillov, che ha imposto sofferenza e morte al popolo ucraino”.
Il generale era sotto sanzioni da parte di numerosi Paesi occidentali, per il suo ruolo nell’invasione russa dell’Ucraina.
Che la guerra iniziata ormai quasi tre anni fa, 34 mesi or sono, non si combatta solo nel Donbass o nell’area di Kursk era già evidente: attacchi notturni con missili e droni sulle città ucraine, lanci di droni verso obiettivi in territorio russo, sabotaggi in Crimea e sporadiche azioni terroristiche riferibili all’Ucraina, anche se non sempre rivendicate: l’uccisione di Daria Dugina, saltata in aria nell’agosto del 2022 al posto del padre, un ideologo nazionalista, che era l’obiettivo dell’azione; oppure, la strage alla Crocus City Hall del marzo 2024; e varie altre meno eclatanti. Forse, un episodio di guerra ibrida è anche l’odissea nel Mar Nero di due petroliere russe, raggiunte da una tempesta nello stretto di Kerch. Una, la Volgoneft-212, s’è incagliata, con vittime a bordo e rischi d’inquinamento nell’area; l’altra s’è mantenuta a galla. Sembra un incidente, ma si indaga. Sul terreno, l’inerzia del conflitto resta, però, favorevole alla Russia. Fonti ucraine e occidentali riferiscono che, nei combattimenti nell’area di Kursk, da cui i russi cercano di cacciare gli ucraini, ci sarebbero stati nei giorni centrali di dicembre i primi caduti nord-coreani. Prima dell’avvicendamento con Trump alla Casa Bianca il 20 gennaio, il presidente statunitense Joe Biden s’affretta ad inviare a Kiev tutti gli aiuti militari autorizzati dal Congresso, mentre il suo successore già ne preconizza una riduzione e dà un colpo di freno alle prospettive di adesione alla Nato dell’Ucraina. L’ultimo annuncio di aiuti statunitensi riguarda un pacchetto da 500 milioni di dollari: sono equipaggiamenti che presuppongono che il conflitto vada avanti nel 2025. Analogo segnale dà Kiev, che, come suggerito da Washington, abbassa l’età della leva dai 25 ai 18 anni: una conferma della penuria di uomini dell’esercito ucraino.
A tutto ciò, Putin replica:
“Anche se l’abbassassero a 14 anni, non cambierà la situazione sul campo di battaglia … Nella loro volontà di indebolire il nostro Paese, di infliggerci una sconfitta strategica, gli Stati Uniti continuano a pompare con armi e soldi il regime di Kiev che è illegittimo, inviano mercenari e consulenti, incoraggiano l’escalation…”.
Il segretario generale dell’Alleanza atlantica Mark Rutte, dal canto suo, si porta avanti con i compiti e avverte che l’obiettivo del 2 per cento di spese per la difesa non è più sufficiente: la musica di Trump già suona a Bruxelles. In missione a Varsavia, il presidente francese Emmanuel Macron riesuma l’idea di inviare truppe in Ucraina, ma in funzione di un congelamento del conflitto, mentre il premier ungherese Viktor Orban si propone a Putin come mediatore.
Focus sulla Siria, Israele continua la guerra nella Striscia di Gaza
In Medio Oriente, il focus dell’attenzione internazionale – diplomatica e mediatica – s’è spostato sulla Siria, dove Stati Uniti e Russia, ma soprattutto le potenze regionali, Turchia e Iran, ‘sgomitano’, cercando di acquisire un’influenza sul nuovo regime o di difendere le proprie posizioni. Israele, intanto, continua a mettere in mostra, nella Striscia di Gaza, “una capacità di distruzione unica”, scrive il Washington Post, mentre la tregua con gli Hezbollah, fortemente indeboliti, sostanzialmente tiene.
Fonti sanitarie palestinesi stimano a oltre 45 mila i palestinesi uccisi nella Striscia da inizio ostilità, cioè subito dopo gli attacchi terroristici condotti da Hamas e da altre sigle palestinesi il 7 ottobre 2023 in territorio israeliano – fecero circa 1200 vittime e portarono alla cattura di oltre 250 ostaggi-. I feriti a Gaza sono stati 107 mila: vuol dire che un palestinese su 12 che viveva nella Striscia, civili, anziani, donne, bambini – è stato ucciso o ferito. E il bilancio, avvertono le fonti palestinesi, potrebbe essere più grave, perché cadaveri giacciono ancora sotto le macerie di edifici bombardati, che non sono state rimosse.
Fuori dai giochi diplomatici per un’intesa Israele–Hamas, e colta come tutti di sorpresa dal collasso del regime siriano dopo 14 anni di guerra civile, l’Unione europea si riduce al piccolo cabotaggio sulla questione migranti: la presidente della Commissione di Bruxelles Ursula von der Leyen porta al presidente turco Racep Tayyip Erdogan la promessa di un aiuto per un miliardo di euro. Così, dopo avere pagato la Turchia perché tenesse sul proprio territorio due milioni di rifugiati siriani, impedendone l’esodo verso l’Europa, adesso l’Unione Europea è pronta ad aiutarla finanziariamente a fare rientrare i rifugiati nel loro Paese, senza troppo curarsi della loro sicurezza.
Di certo, la situazione in Siria appare tutt’altro che chiara: il cambio di regime a Damasco è una sconfitta per la Russia, che mostra i limiti del suo potere globale e deve smantellare le sue basi e trasferire uomini e mezzi in Libia, il Dipartimento di Stato suggerisce agli americani di andarsene perché il Paese non è sicuro. L’ambasciatore Giuseppe Cassini nota:
“Il Medio Oriente disegnato dalle potenze coloniali nel Novecento ha creato le divisioni alla base dei conflitti odierna. La Siria rischia di essere smembrata dalle forze che ne contendono i territori senza speranza di pacifica convivenza”.
L’intreccio di interessi e pericoli, in tutta l’area è inestricabile: il Dipartimento della Giustizia statunitense incrimina due uomini legati all’Iran per un attacco con droni che, all’inizio del 2024, aveva ucciso tre militari americani e ne aveva ferito decine, in una base in Giordania al confine con la Siria, nota come Tower 22. I due avrebbero fornito informazioni che avrebbero reso l’attacco possibile.
[1] Scritto l’11 dicembre 2024 per la Voce e il Tempo. Cfr. https://www.giampierogramaglia.eu/2024/12/12/guerre-punto-mo-ucraina-3/.
[2] Scritto per The Watcher Post, 18 dicembre 2024. Cfr.
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