Iran al ballottaggio per il dopo Raisi
Quattordici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Riccardo Cristiano
Giornalista, collaboratore di Reset
Riccardo Cristiano analizza l’esito del primo turno delle elezioni presidenziali chiedendosi se un “Iran al ballottaggio per il dopo Raisi” costituisce come recita il titolo “Un bivio oppure una grande sceneggiatura? “Anche questa volta è andata così: seggi vuoti, ma 40 per cento alle urne. È il primo dato che rende l’idea dell’esercizio democratico o quello della sceneggiatura messa in opera dagli uomini di Khamenei? – si chiede l’ex corrispondente della Rai esperto di questioni mediorientali, aggiungendo – Ipotesi, entrambe plausibili. Si votava, venerdì 28 giugno al primo turno per il nuovo Presidente, dopo la misteriosa scomparsa mai indagata del Presidente Ibrahim Rasi. E l’esito è geniale – aggiunge Cristiano – soprattutto se si volesse pensare a una sceneggiatura scritta per rafforzare la curiosa idea democratica dentro il regime khomeinista.
Infatti si andrà al ballottaggio. E tra chi? Ma come, è scontato: tra il falco e la colomba. È in testa la colomba, ma se si sommano i voti del falco arrivato terzo a quelli del falco arrivato secondo, come appare logico in vista del ballottaggio imminente, la colomba diviene soccombente. Ci sono tutti gli ingredienti per parlare di bipolarismo khomeinista, di esercizio democratico, di sfida all’ultimo voto. “Venite alle urne, scegliere chi vince tra opzioni contrapposte”. È il trionfo della democrazia khomeinista che offre all’elettorato la scelta tra le sue opzioni in contrasto. Una grande regia, se la lettura della sceneggiatura fosse fondata”.
30 giugno 2024
Le elezioni iraniane sono un rito curioso e prima di commentarle ognuno deve cercare di farsi un’idea di quale tipo di spettacolo stia osservando. Regime teocratico affidato monocraticamente alla Guida suprema della rivoluzione, prima Ruhollah Khomeyni ora Ali Khamenei, questo regime si articola ad un secondo livello con istituzioni repubblicane elette: Parlamento e Presidente della Repubblica. Tutti i candidati però sono passati al setaccio da un corpo del sistema teocratico, che decide chi può correre e chi no tra coloro che si candidano.
Dunque è un voto popolare che legittima un sistema totalitario ma con diverse sfumature che i voti ogni volta evidenziano, scegliendo quello più “popolare”? O si tratta di una messa in scena in cui anche l’esito è prefabbricato?
Ognuno può vederla come vuole, certo è che anche nell’ipotesi della sceneggiatura non si riesce più a fingere che votino in molti. Con la protesta che divampa da anni chi potrebbe credere che poi gli iraniani corrano festanti al voto? E così ogni lettura è legittima, anche quella “democratica”, visto che i possibili autori della sceneggiatura mai eccedono ormai nel loro spartito più di un 40 per cento di votanti. Una soglia accettabile, più del 30 per cento che credo plausibile, se si considera chi “deve” andare a votare, pena rischi evidenti.
Una messa in scena dall’esito prefabbricato
Anche questa volta è andata così: seggi vuoti, ma 40 per cento alle urne. È il primo dato che rende l’idea dell’esercizio democratico o quello della sceneggiatura messa in opera dagli uomini di Khamenei? Ipotesi, entrambe plausibili. Si votava, venerdì 28 giugno al primo turno per il nuovo Presidente, dopo la misteriosa scomparsa mai indagata del Presidente Ibrahim Rasi. E l’esito è geniale, soprattutto se si volesse pensare a una sceneggiatura scritta per rafforzare la curiosa idea democratica dentro il regime khomeinista.
Infatti si andrà al ballottaggio. E tra chi? Ma come, è scontato: tra il falco e la colomba. È in testa la colomba, ma se si sommano i voti del falco arrivato terzo a quelli del falco arrivato secondo, come appare logico in vista del ballottaggio imminente, la colomba diviene soccombente.
Ci sono tutti gli ingredienti per parlare di bipolarismo khomeinista, di esercizio democratico, di sfida all’ultimo voto.
“Venite alle urne, scegliere chi vince tra opzioni contrapposte”.
È il trionfo della democrazia khomeinista che offre all’elettorato la scelta tra le sue opzioni in contrasto. Una grande regia, se la lettura della sceneggiatura fosse fondata.
Il riformista in testa al primo turno che può essere sconfitto dagli altri due al secondo turno
Masoud Pezeshkian, un semplice deputato dai modi rispettosi, khomeinista che chiede il rispetto delle persone, anche se dissidenti, ha vinto con 10,415,991 voti. Saeed Jalili, collaboratore fidato dell’ayatollah Khamenei, è arrivato secondo con 9,473,928 voti. In terza posizione però c’è il pasdaran presidente del parlamento Mohamad Ghalibaf (mal visto da Khamenei) con 3,383,340 voti. Dunque al ballottaggio Jalili ha una riserva di voti (quelli di Ghalibaf) sufficienti a sovvertire l’esito e vincere. Ma l’appello urne per ridurre l’astensionismo (che piacerà al regime) sarà forte. E nel caso della lettura-sceneggiatura potrebbe (nel segreto del dietro le urne) essere favorito, o sfavorito: dipende. L’Iran si è trovato a dover scegliere prima degli americani e non sa se da novembre farà i conti con il disponibile Biden o l’indisponibile Trump. L’attesa – dopo l’esito a tutti chiaro del faccia a faccia sulla CNN di giovedi 27 giugno – favorirà la scelta di Jalili? Jalili si dipinge per il suo più importante trascorso, segretario del Supremo Consiglio Nazionale per la Sicurezza.
Il curioso appello da Beirut del capo di Hezbollah Hassan Nasrallah
Probabilmente è anche per questo trascorso – oggi decisivo – che nel suo curioso appello agli elettori da Beirut, il capo di Hezbollah e quindi del fronte della resistenza – il variegato universo di milizie armate che fa capo a Khamenei e che va dal Libano allo Yemen all’Iraq, passando per la Siria – ha detto che il futuro del fronte della resistenza è in mano agli elettori iraniani. Per sapere se hanno scelto come auspica lui dovrà attendere venerdì prossimo, 5 luglio. La partita di Hassan Nasrallah infatti non è libanese, ma iraniana. La guerra di attrito con Israele che gestisce da ottobre, dopo il pogrom di Hamas, e che potrebbe sfuggire di mano all’uno o all’altro, o essere condotta a peggiori scenari, è decisiva per il disegno degli ayatollah: che non ha nulla a che fare con le aspirazioni palestinesi o con quelle del Libano, ma con l’esigenza tutta iraniana di imporsi come interlocutore indispensabile per tutti gli altri soggetti. Con il negoziato sul nucleare ma anche sulla guerra, che Tehran non vuole che esploda (almeno secondo me) ma che rafforzi come minaccia la sua posizione negoziale. Ma con chi? Con quale America? Già sorpresi dall’esito della qualificazione per il secondo turno di Pezeshkian (ricordiamo che alle recenti elezioni parlamentari i candidati riformisti non erano stati ammessi in blocco), i riformisti pensano di poter tornare a contare, a rafforzare il partito negoziale su entrambi i fronti. Che da questo dipenda il destino del Libano a Tehran interessa poco. I soldi per ricostruire lo sventurato Libano li ha sempre messi il fronte arabo, che Teheran vuole indebolire. Ma ora in Libano c’è stata una novità: il campo pro-pace è stato rivitalizzato dalla visita del segretario di stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin. È da lui che è partito l’altro messaggio: il Libano esiste come Paese plurale, non è una succursale. Operazione complessa, ma che se i leader maroniti hanno capito, potrebbero anche proporre: una sorta di via istituzionale da definire insieme a tutto il Paese, evitando il suicidio che tanto piace agli identitaristi, innamorati dell’idea di un ghetto cristiano, magari protetto dalle armi di Hezbollah.
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