MS è una bambina di otto anni, che si diverte a fare foto con una strana macchina fotografica similpolaroid che le hanno regalato i genitori. Attiva una funzione e scatta sovrapponendo le immagini a sua scelta, così la mia faccia ha anche il muso di un gatto. Lei ride divertita, io pure.
Ho trovato la foto in bianco e nero dentro il libro di Carlo Rovelli Buchi bianchi, sottotitolato Dentro l’orizzonte. Lo avevo letto appena uscito, poco più di un anno fa. Perché l’ho ripreso in mano non saprei, tanto meno saprei perché avevo riposto quelle foto tra le sue pagine; fatto sta che la breve presentazione in terza di copertina riassume perfettamente la natura di questo racconto: la descrizione di una trasformazione che avviene nelle viscere dell’universo quando se ne posseggano gli strumenti, un buco nero che diventa un buco bianco, in fondo la stessa trasformazione che racconta anche MS con la sua macchina fotografica, un volto umano che assume le sembianze di un gatto.
Scrive Rovelli: “Arriviamo fino al bordo dell’orizzonte di un buco nero, entriamo, scendiamo giù nel fondo, dove spazio e tempo si sciolgono, lo attraversiamo, spuntiamo nel buco bianco, dove il tempo è ribaltato, e da questo usciamo nel futuro”. Un attimo di attenzione: si tratta del viaggio puramente teorico che consente di “vedere”, mediante le equazioni della gravità quantistica, come un enorme buco nero (realmente esistente) nato da una stella che collassa diventa un buco bianco (non ancora sperimentalmente dimostrato esistente) grande come un capello per un rimbalzo quantistico.
Lo stesso processo di transizione, dice Rovelli, che ha portato al Big Bang. Ciò che ci fa capire come nell’universo non ci sia nulla che resti eternamente sé stesso, non la verità, nemmeno la bellezza, e che tutto in fondo è semmai solo sforzo di conoscenza, ricerca di verità e di bellezza, come nel quadro Melancolia I di Albrecht Dürer, in cui la prospettiva diventa rappresentazione dell’ambiguità delle prospettive e con ciò appunto anche malinconia dell’impossibilità di attingere all’universale e all’assoluto. Cambiamento di paradigmi, non assenza di paradigmi.
Un viaggio dunque, una trasformazione che è un ribaltamento di prospettive. Un passaggio fulmineo dal passato al futuro raccontato con gli strumenti della fisica, che con gli sviluppi del Novecento, dalla relatività ai quanti, si è spinta oltre il limite del limite alla ricerca del punto in cui inizio e fine appaiono congiungersi, tuttavia senza nessuna sicurezza che il congiungimento possa esserci mai stato o che possa esserci in un tempo senza tempo e in uno spazio che si dilata all’infinito e divora sé stesso. Da qui un effetto di insicurezza, ma un effetto salutare, giacché andare oltre le regole del saputo è l’eterno insopprimibile riproporsi del folle volo dell’Ulisse dantesco. Volo necessariamente tragico perché rompe l’ordine costituito, ordine divino.
Dunque la fisica ci dice che siamo qui, dentro un’ipotesi scientifica sconvolgente e per questo affascinante, un’estrema avventura intellettuale e anche una ricerca fortemente evocativa di come poter pensare anche il mondo della storia in cui si sviluppa la concreta vicenda umana. Ma qui accade che il segno del cambiamento ha carattere diverso se non opposto. Infatti, se consideriamo i processi reali e storici ad ampio raggio, che vanno dalla grande cultura ai modelli veicolati dal sistema mediatico, dal potere digitale al potere economico e alla politica, qui la foto della faccia con il muso da gatto può diventare la metafora di una trasformazione che, più che un esperimento “in corpore vili”, come amavano arrischiarsi a sostenere i medici del ‘500, o un cambiamento di paradigmi vigenti e superati, sembra piuttosto la rinuncia a ogni paradigma, come se avanzasse prepotente un bisogno di caos.
Non c’è dubbio, credo, che continui ad operare il bisogno dell’oltre, l’antica aspirazione umana di “vedere” al di là di ciò che appare, di scoprire il mistero del mondo e della nostra stessa esistenza, di diventare altro per cogliere l’abisso insondabile di sé stessi. Alice che attraversa lo specchio e cerca di decifrare lo scritto incomprensibile che trova in una specie di diario. O il ricordo e il fascino dei grandi viaggi che indagano lo spirito umano e cercano la strada per “uscire a riveder le stelle” dopo aver attraversato la dannazione e conquistato la luce della speranza.
Un bisogno di esperienze radicali, sì di esplorare il “mondo sanza gente” ma nel contempo anche di superare ciò che è andato fuori controllo. Ciò che indica la collocazione mentale in un tempo lungo, addirittura fino all’eternità, una dimensione che conferisce valore sia alle intenzioni che alle conseguenze delle azioni umane. Di qui anche l’importanza della normatività e del suo rispetto, sia per la vita individuale che per l’ordine sociale.
Non è forse questa anche la nostra aspirazione di oggi? Non è forse vero che vorremmo che la trasformazione del buco nero del racconto di Rovelli, fosse anche la trasformazione del buco nero di un mondo che, invece di continuare ad arrotolarsi su sé stesso e a massacrare pezzi di umanità con guerre e violenze ed esperimenti al limite, riuscisse a srotolarsi per un rimbalzo di energia umana (ah, la saggezza! ah, la lungimiranza! ah, il passato che riesce a saltare nel futuro!) e facesse volare verso l’alto (come accade nel buco bianco) ciò che è stato imprigionato e spinto verso il basso (come accade nel buco nero)?
Il punto però è che nel mondo attuale tutto dice che siamo ormai entrati da un pezzo nella dimensione del tempo corto e con ciò anche del pensiero corto, con la conseguenza che le tendenze in atto non sembrano volte, coma abbiamo detto, tanto o solo a sostituire paradigmi obsoleti con paradigmi più adeguati quanto piuttosto a fare a meno di paradigmi. È come se si ritenesse ormai normale l’assenza di regole condivise, il trionfo della filosofia nietzschiana di Ivan Karamazov: se Dio è morto tutto è possibile.
La realtà ce ne offre ogni giorno esempi probanti. In questi mesi estivi poi c’è stata addirittura un’accelerazione, a tutti i livelli. È del tutto inutile farne un elenco. Basti la rapida sintesi che accompagna l’articolo di Sabino Cassese su “Il Foglio” di sabato scorso intitolato appunto “Il mondo rotto”: Sati-nazione in crisi, Big Tech difficili da controllare, democrazie fragili di fronte ai nuovi autocrati, ecc. E la netta sensazione che quell’area vasta e variegata del mondo che siamo soliti chiamare Occidente sia ormai dimentica delle sue conquiste culturali e civili e della sua permanente missione civilizzatrice, e stia per lasciare consapevolmente all’Oriente il suo storico ruolo guida. Una trasformazione che vediamo alla superficie, ma che prima avviene nelle viscere.
Il fatto è che da tempo ci stiamo preparando ad accettare la trasformazione dell’umano in qualcosa d’altro, nel corpo come nello spirito. Perciò, per la china che abbiamo preso, non basterebbe nemmeno ritrovarci, alla fine del nostro andare oltre, con un muso da gatto. Avremmo bisogno di andare ancora più in là, di più, sempre di più. Irrefrenabile? Forse. Ineliminabile? Forse. Tragico? Immagino senz’altro probabile. Che fare dunque, in una battaglia culturale necessaria, certamente prima che politica?
Probabilmente dovremmo riprendere la riflessione, come suggerisce lo stesso Cassese, sul tema con cui si misurò Oswald Spengler nel 1918, “Il tramonto dell’Occidente” e soprattutto rileggere i saggi rispettivamente di Ernst Jünger e Carl Schmitt “Il nodo di Gordio” (1953) e “Struttura storica dell’attuale contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente” (1955), il secondo scritto in risposta appunto a Ernst Jünger, sull’incontro-scontro tra Oriente e Occidente, l’Occidente liberaldemocratico e l’Oriente dello Stato totale, che si evidenzia a partire dal differente significato che assume nei due sistemi l’atto di arbitrio del principe e che oggi diventa confronto-scontro tra democrazia e autoritarismo.
In ogni caso dobbiamo ritrovare senza indugio il senso di un limite liberamente fondato, regole liberamente scelte, un principio di libertà che è necessariamente responsabilità. La democrazia è ordine appunto democratico, non mancanza di regole e caos. Nel caos vincono i potenti. Con regole democratiche si può ragionare sia sul diritto di tutti di giocare la partita che sulla possibilità del sistema di autocorrezione dell’errore.
Che lo si voglia o no, torna con forza l’esigenza del principio kantiano di razionalità critica, la centralità di quella ragione umana a cui Immanuel Kant ha affidato il compito di legittimare le nostre conoscenze, le nostre aspirazioni, i nostri giudizi e la rettitudine delle nostre azioni. Non si può più tacere, riscoprire il senso e la forza della ragione è un compito tanto immane quanto urgente. Se lo potessimo interpellare nel trecentesimo della sua nascita, Kant ci direbbe ancora: Sápere aude!
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