Dopo il successo elettorale di Fratelli d’Italia e l’ascesa a Palazzo Ghigi di Giorgia Meloni, segretario politico di quel partito nato sulle ceneri di Alleanza Nazionale (segretario Gianfranco Fini), ci si chiede spesso se ed in che misura la politica interna ed estera italiana sia caratterizzata da una inaspettata onda lunga di quel Partito Nazionale Fascista che governò male l’Italia dal 1929 al 1945 ed al quale si richiamava quel Movimento Sociale Italiano di Arturo Michelini e Giorgio Almirante da cui nacque poi il partito di Fini.
Forse non è inopportuno qualche considerazione al riguardo.
Il Partito Nazionale Fascista nacque più di un secolo fa in una Italia completamente diversa da quella attuale con un programma rivoluzionario (un settimanale diretto da Nino Sammartano con il titolo “la rivoluzione fascista” esprimeva completamente le finalità quantomeno dei “pensatori” la pattuglia di guida dei “picchiatori”) del nuovo soggetto politico, difesa della patria, lotta alla demoplutocrazia e composizione dei conflitti sociali in nome del superiore interesse nazionale interpretato dal partito (unico), industrializzazione del Paese nel quadro di un suo deciso avvio di un processo di modernizzazione che avrebbe travolto l’antica classe dirigente liberale. A salvarsi da questo profondo processo di trasformazione avrebbe dovuto essere, per forza di cose, la monarchia: troppo stretto ancora al suo legame con il Paese, specie dopo la prima guerra mondiale, che aveva visto una ascesa nell’opinione pubblica del “Re soldato” (qualche volta al fronte abilmente propagandato).
Fascismo e monarchia a braccetto, una diarchia efficientemente espressa dal conferimento ad entrambi, dopo la guerra di Etiopia, del titolo di “Maresciallo dell’Impero”: avanti insieme per la strada della soppressione di ogni spazio di libertà individuale intesa come pericolo per il monolitismo dello Stato fascista, via alle polizie speciali ed ai Tribunali speciali per la difesa del regime, difesa della razza, alleanza con la Germania nazista, partecipazione ad una guerra rovinosa che segnerà la fine del regime.
Accanto a tutto questo ci fu però anche un tentativo di modernizzazione del paese: fine del vecchio concetto della proprietà come diritto assoluto di tradizione romanistica, tentativo (non riuscito) di stroncare mafie e latifondo che costituiva il suo brodo di cultura, riforma della scuola spingendo per una alfabetizzazione di massa che riuscì solo parzialmente, costruzione di un sistema elementare di sicurezza sociale con la creazione di grandi enti mutualistici, tentativo di far decollare il processo di industrializzazione con capitali di Stato per supplire alla carenza di quelli privati.
Fu nella sostanza, come scrisse Paolo Monelli, il regime politico di un piccolo borghese (Mussolini) che operava negli spazi consentitigli da un re sempre timoroso di perdere la partita per imporre un nuovo modello sociale e politico del Paese a prezzo delle libertà individuali sia pure timidamente garantite dallo statuto del regno e con un occhio di riguardo per i signori dell’economia, dagli Agnelli ai Pirelli, dei Falk ai Marinotti e via di seguito.
Nel 1943 la crisi: l’Italia resta spaccata in due, con il regno del Sud nelle regioni meridionali e la Repubblica Sociale Italiana al nord, sotto la tutela dei nazisti occupanti. A quel punto Mussolini, capo indiscusso della Repubblichina ritorna a ventidue anni prima, si ricorda di essere stato socialista in lotta un tempo con i repubblicani di Pietro Nenni, ritenuti troppo poco sensibili ai bisogni dei lavoratori della terra (a proposito dell’uso delle trebbiatrici in Romagna) non ha più i condizionamenti di una monarchia preoccupata solo della “lista civile”, dei soldi cioè versati dallo Stato per il mantenimento della Corte e dei suoi annessi. A Verona il primo congresso del Partito fascista repubblicano approvò un Manifesto in 18 punti ai quali avrebbe dovuto conformarsi quella Costituzione dello Stato fascista repubblicano che peraltro non vide mai la luce.
Tra quei punti c’era la costituzione di una repubblica presidenziale con un presidente eletto direttamente dal popolo ogni cinque anni. La religione cattolica era proclamata religione dello Stato, ogni altro rito non contrastante con le leggi in vigore sarebbe stato rispettato ma gli appartenenti alla razza ebrea definiti “stranieri”. Il fine dello Stato era indicato nella unità, indipendenza e integrità territoriale della Patria. Per quanto riguardava il sistema economico degno di nota è la dichiarata lotta alle demoplutocrazie secondo gli schemi consueti e la “valorizzazione a beneficio dei popoli europei e di quelli autoctoni delle risorse naturali dell’Africa”.
La pace sociale avrebbe dovuto essere garantita da una “equa” erogazione dei salari e da una altrettanto “equa” ripartizione degli utili in ogni azienda da realizzarsi con accordi aziendali tra i rappresentanti dei lavoratori e della proprietà dell’azienda.
Restò aperta ed oggetto di vivace dibattito all’interno del P.F.R. la questione dell’ammissibilità di meccanismi elettorali per la Camera e le cariche del partito.
Aperta resta anche la vivamente dibattuta questione della possibilità di esistenza di partiti diversi da quello fascista repubblicano: almeno un paio furono di fatto costituiti ma ebbero breve esistenza, come il partito repubblicano socialista italiano di Edmondo Cione, un futuro democristiano.
La possibilità di elezioni libere venne però negata nel progetto di costituzione redatto da Carlo Alberto Biggini redatto in base all’incarico conferitogli dal Consiglio dei Ministri il 24 novembre 1943. Il progetto di Biggini è importante sia in quanto ammette l’esistenza di più partiti sia per la sua chiusura a qualsiasi autonomia territoriale: sole autonomie ammesse erano per Biggini quelle sociali delle categorie dei lavoratori e degli imprenditori.
Questo in estrema sintesi il programma politico costituzionale del Fascismo repubblicano: è una reminiscenza storica oppure ha qualche attualità? La domanda è importante sotto diversi aspetti, da quello storico del distacco o meno dal fascismo repubblicano da quello ante 1943 (e la risposta è parzialmente positiva) a quanto di quel programma fu fatto proprio dal Movimento Sociale Italiano (molto poco data la presenza in quel partito di larga parte dei vecchi fascisti) e da Alleanza Nazionale dove prevalse la tendenza nazionalista di Fini rispetto a quella decisamente antiliberale di Rauti: fu il prezzo pagato all’alleanza con il liberaldemocratici di Berlusconi.
Terminata l’esperienza del partito guidato da Fini, nasce Fratelli d’Italia: è chiaro che non può schiacciarsi sul nazionalismo, così come è evidente che non possa riproporre, in un contesto storico politico e sociale completamente mutato, il vecchio programma del P.N.F. Giorgia Meloni, che da giovanissima militante le metamorfosi post belliche del suo partito le ha vissuto tutte, ha compreso tutto questo: il fascismo del ventennio, la sua ideologia rivoluzionaria poi annacquata per necessità di convivenza con il re era (ed è) un triste ricordo storico, mentre poteva essere salvata qualcosa del fascismo repubblicano, il fascismo di un mussolini che forse dei ricordi del suo passato socialista aveva rispolverato qualcosa come i consigli di gestione proposti già all’inizio del ‘9’’ dalla socialdemocrazia tedesca, una sorta di cogestione aziendale di padroni e lavoratori (vedi in proposito il saggio di viktor adler, un leader socialdemocratico austriaco che scrisse nel 1919 il volume “i consigli di gestione” ed il saggio pubblicato ancora nel 1949 in Italia dalla rivista Critica Sociale, di tendenza socialdemocratica). È forse opportuno aggiungere che l’esperimento in questo senso tentato in Italia ne primo dopoguerra, ad esempio alla FIAT, ebbe risultati scoraggianti tanto che svanì nel nulla.
Accanto a questo punto programmatico altri ve ne erano però nel costituzionalismo della repubblica sociale italiana che potevano essere recuperati: ecco dunque il presidenzialismo, ecco l’aumento dei poteri del presidente del Consiglio che, una volta scelto dal Presidente della Repubblica, nomina i ministri, ecco lo spazio lasciato alla contrattazione sindacale a proposito dei salari, rinunciando ad un intervento dello Stato in modo da non essere costretti a sbilanciamenti dall’uno o dall’altra parte, ecco perfino con il “piano Mattei” riproporre di fatto una presenza in Africa non dissimile da quella ipotizzata nel Manifesto di Verona, sotterrate (almeno per ora) l’ostilità verso le autonomie territoriali, tanto care a Matteo Salvini, un tempo comunista padano, ed ora alleato di governo e l’avversione all’idea di una economia di modello liberale per non scontentare troppo l’alleato Silvio Berlusconi che già naviga in acque non troppo tranquille. In questa scelta la Meloni è favorita anche da due fatti: l’assenza di interesse nel suo partito per una seria piattaforma programmatica (non facile da elaborare per chi è stato finora protagonista di manifestazione di lotta più che di pensiero) e la possibilità di trovare nelle pretese dei suoi alleati di governo il suo apparente cedimento su punti qualificanti come le autonomie regionali, una questione aperta ma che nessuno sembra abbia fretta di chiudere per evitare contrasti.
La politica sociale del Presidente del Consiglio, vista l’assenza delle premesse necessarie di riproporre i consigli di gestione, è attualmente, come nel programma del Fascismo repubblicano, la sottolineatura di una equità salariale che discenda dalla contrattazione collettiva e non da un intervento dello Stato: è la rivisitazione in chiave moderna dell’ordinamento corporativo e dei punti in proposito del Manifesto di Verona. La visita al congresso della CGIL rientra nel modello classico di un governo che lascia campo alle organizzazioni sindacali e non ne invade il territorio, con grande gioia delle organizzazioni stesse che vedono ciò come un potente antidoto alla minaccia della polverizzazione sindacale. Non una parola il Presidente del Consiglio ha pronunciato contro l’esistenza di una pluralità di partiti politici, garantita dalla costituzione: si è limitata ad affermare che il suo partito ha avuto la cattiva sorte di arrivare a governare il paese nel momento più difficile dal dopoguerra ad oggi, fingendo di ignorare che proprio le difficoltà del momento hanno spinto gli italiani a scegliere con il suo partito una cura alternativa ai loro malanni. Si fa di solito quando le cure mediche non danno i risultati sperati e si ricorre allora ai maghi della medicina alternativa, ciò che segna spesso Il rapido decesso del malato, come l’uso del bicarbonato quale rimedio contro il cancro…
Giorgia Meloni erede dunque del messaggio politico di Mussolini atto secondo? Tutto lascia pensare che la risposta sia positiva (purtroppo!).
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