UNA MATTINA NELLA II CLINICA CHIRURGICA DEL POLICLINICO UMBERTO I A ROMA

Lo avrebbe mandato dal professor Stefanini quel figlio inquieto, medico come lui, ma voglioso d’altro, di qualcosa di più, di diverso, rispetto a quella condotta in mezzo ai monti dell’Umbria, alla quale il padre avrebbe voluto associarlo, per poi lasciargliela dopo il suo pensionamento. Voleva qualcosa di più. Era bello, volenteroso nello studio, in un’Italia che correva. C’era frenesia e voglia di fare in giro, di migliorare la condizione da cui si veniva, e lui, che partiva già bene, sentiva il paese o la città di provincia come una prigione. Sognava la grande città, le aule universitarie, la gloria, che l’intelletto e l’avvenenza dell’aspetto gli avrebbero procurato.

Il padre medico conosceva il professore da tempo, per via di passati universitari comuni, e così andò a Roma in quel Policlinico che sapeva di Savoia, di Unità d’Italia, di una nazione giovane che voleva farsi largo tra le grandi potenze europee. E infatti era stato costruito alla fine dell’800’, regnante Umberto I e ancora oggi così si chiama. La clinica era la II Clinica Chirurgica, un edificio più modesto rispetto alla I Clinica Chirurgica che era monumentale, per essere tra quelli costruiti all’inizio, mentre altri, meno sontuosi erano stati aggiunti nei decenni successivi, in un cantiere senza fine, che aveva fatto di quell’ospedale un complesso, il più grande d’Europa.

E Paride Stefanini non mancò di onorare l’antica amicizia. Gli disse di mandarglielo per un colloquio.

Umberto Conti, la settimana successiva, si recò a Roma in treno. Scese alla stazione Termini, a piedi percorse la strada che costeggia il Castro Pretorio, un edificio monumentale, residenza dei pretoriani un tempo, ora caserma della Polizia di Stato. In breve arrivò in viale del Policlinico dove si affacciava l’ospedale Umberto I, diviso dalla strada da una lunga e massiccia cancellata, posta al di sopra del muro di recinzione che circonda tutta la città sanitaria.

Durante la guerra, avevano divelto molte recinzioni in ferro, anche monumentali, in giro per l’Italia, per farne armi e cannoni, ma quel ferro non l’avevano toccato. Rispetto del monumento? Aveva il nome di un re, il successore se ne sarebbe potuto avere a male. Chissà? E davanti c’erano le mura Aureliane. Stavano lì da duemila anni e in apparente buona salute, nonostante le cannonate dei piemontesi, che arrivando dalla via Nomentana, dopo il cannoneggiamento lanciarono la carica dei bersaglieri del generale Cadorna. Venivano dall’Umbria, la resistenza pontificia si era liquefatta a Civita Castellana all’incrocio tra la via Flaminia e la via Cassia. La capitolazione seguiva quella della roccaforte di Civitavecchia. Sulle mura di Roma i militi schierati ebbero l’ordine di opporre una parvenza di resistenza e dopo le prime bombarde a porta Pia, la battaglia per Roma fu compiuta con qualche morto che giustificasse l’epopea che sarebbe stata poi scritta e celebrata.

Il Savoia lasciava Firenze per insediarsi nella città eterna, il Papa si ritirava nel palazzo del Vaticano da cui non sarebbe più uscito. Ma il Tevere sembrò non gradire i nuovi padroni e allagò mezza Roma come non si era mai visto. Vittorio Emanuele dovette fermarsi alle porte della città e pose la sua residenza in una villa sulla Salaria che poi si chiamò villa Italia dentro il parco di villa Ada e al di là della residenza ufficiale del Quirinale, anche dopo, i reali continuarono ad abitarla.

Lì fu arrestato Mussolini dopo la notte del 25 luglio 43, a seguito della improvvida decisione di conferire con il sovrano. E da lì fu presa allora la decisione di costruire i lungoteveri per proteggere la città e creare vie di comunicazione più celeri e moderne dentro la stessa. Iniziò così quel nuovo sacco di Roma con cambiamenti definitivi del disegno cittadino. Nuove strade e palazzi di stile umbertino che si inserivano con stridore nel tessuto di monumenti di epoca imperiale e poi papale, con progressiva distruzione della Roma medioevale, che in grande stile sarebbe continuato, sino a compimento nel ventennio fascista.

Questa fase costruttiva si riassume nella costruzione dell’enorme monumento dell’altare della patria di piazza Venezia , tentativo tronfio, inadeguato e patetico di riproporre e superare la grandiosità antica romana, in un’ipotesi di nuova partenza e riproposizione che il fascismo avrebbe fatto proprio in scala altrettanto imponente, ma con soluzioni architettoniche in qualche caso geniali come nella realizzazione della sede centrale delle Poste, o più in grande in quella dell’Expo 42. Un po’ meno felici quando si intervenne in aree interne alle mura, con inevitabile distruzione del preesistente giudicato di nessun valore (leggi Roma medioevale). Da tutto questo si capisce che I Savoia vollero grandiosità anche nella costruzione del nuovo Ospedale e nel preservarlo dalle manomissioni.

Forse pensava anche questo Umberto mentre attraversava il grande cancello. Era una mattinata particolare quella, perché quel giorno, come da molti anni, la scuola stefaniniana si celebrava, vale a dire tutti gli allievi che avevano frequentato il maestro e che si erano fatti onore per loro merito e con l’appoggio più o meno determinante di LUI, si incontravano nell’Istituto. Dopo la riunione, i saluti, le pacche sulle spalle, i sorrisi di cortesia simulata tra coloro che erano ancora in competizione per un posto più prestigioso, tutti insieme avrebbero raggiunto il ristorante, sempre il solito in zona Parioli. Sarebbe arrivato Selli da Pisa, Castrini da Perugia, Negri e Giombolini da Foligno, e poi Fiorani, Cortesini, Ricci, Speranza, Ribotta, Carbone, Arullani, Trecca, Negro, Procacciante, Benedetti-Valentini, la capo-anestesista Pastore, il radiologo Saracca, tutti da Roma, insieme ad altri della città e di fuori.

Ogni anno si celebrava quel rito e faceva specie vedere gli anziani prepararsi con cura e timore. Perché il maestro, felice della loro presenza, avrebbe comunque trovato il modo di redarguirli per qualcosa, perché l’azione educativa non era finita con il loro distaccarsi per assumere responsabilità in prima persona. Il filo con il maestro non si interrompeva, e questi sentiva come suo dovere redarguire se c’era bisogno, per continuare ad ottenere da ognuno di loro il meglio che potevano dare.

In fondo quando aveva offerto i suoi auspici per piazzarli nelle cattedre o nei primariati si era assunto la responsabilità di quella scelta, e dunque occorreva continuare a vigilare sul loro operato. Per altro il maestro o barone come si chiamavano i professori universitari di un certo peso era stato un innovatore, aveva favorito la specializzazione dei suoi allievi, li aveva mandati in giro per il mondo ad acquisire nuove tecniche. Fiorani in America ad imparare la chirurgia vascolare, Cortesini i trapianti, etc. Così l’Istituto si era andato differenziando nelle varie specialità con a capo gli allievi che aveva formato per quella specifica competenza. Non così Valdoni, l’altro grande della chirurgia romana e nazionale, vero barone, che raccontavano operasse personalmente la gran parte degli interventi, facili o impegnativi che fossero. Una gestione monocratica della Clinica con la tendenza a scremare tra gli allievi quelli più adatti alla successione.

Grande carisma Valdoni, oltre che nella professione anche nell’aspetto di un bell’uomo raffinato e dall’eloquio forbito con un’immancabile erre moscia e un’eleganza che ricordava l’origine triestina, e i primi studi sotto l’impero asburgico. Meno appariscente e raffinato nell’aspetto Stefanini, ma con una visione più moderna che gli veniva anche da un passato ospedaliero e non solo accademico come era stato per Valdoni. Fatto sta che l’autoproclamarsi un principe e non solo un barone, e un principe di stampo rinascimentale, come ebbe a dire nel corso di una trasmissione televisiva, nella quale lo avevano contrapposto ad un rappresentante, campione della rivoluzione del 68, aveva un fondamento in questo suo creare una corte di intelligenze preparate a interpretare le novità chirurgiche che si andavano affermando nel mondo.

Umberto, superato il cancello, si trovò subito davanti la II Clinica Chirurgica, vi entrò. Si trovò in uno spazio non molto ampio, chiuso in fondo da una porta a vetri che dava accesso alla divisione di chirurgia toracica, ermeticamente chiusa. Non portieri o altri addetti alle informazioni. Si trattava di aspettare qualcuno che gli indicasse lo studio del professore. Nel frattempo si guardò intorno. Lo spazio aveva le pareti perforate da ampi finestroni, dai quali prendeva luce e consentiva di guardare l’intenso traffico di umanità variegata che si svolgeva fuori: medici, infermieri, malati, visitatori, inservienti, barelle, ambulanze. Era tutto un brulichio di cose e persone che si muovevano, alcune pigramente, altre vaganti agitate, quasi a fuggire l’angoscia delle sentenze ricevute o di quelle attese e paventate. Altri trasportati da un padiglione all’altro su barelle o sedie a rotelle, spinti da barellieri con atteggiamento scanzonato. Una bonomia che è dei romani da sempre, un flusso di ironia ed empatia naturale non costruita o ipocrita. A volte noncuranza che non arriva ad essere sgarbo o cattiveria, magari trascuratezza. Passò un infermiere in camice verde, Umberto gli chiese dove fosse lo studio del professore, quello rispose indicando una porticina a due ante metallica.

Era l’ascensore, non ne aveva l’aspetto. Si trattava di andare al terzo piano, lì c’era lo studio. Mentre saliva si andava preparando, con ansia crescente, alle cose da dire. Doveva essere convincente, comunicare al grande maestro la sua determinazione a dedicarsi interamente alla scienza, alla nobile arte della Chirurgia, sacrificando tutto per quell’obbiettivo. L’ascensore si aprì e si trovò in un androne più piccolo di quello dell’ingresso. C’era una porticina da cui si potevano prendere le scale che portavano ai vari piani, ma notò che le persone usavano solo l’ascensore per spostarsi. Ebbe curiosità di andare a vedere e constatò che le scale erano anguste, un po’ buie, come abbandonate. Gli venne da pensare alla vecchia casa dello studente a Perugia, quella antica, la prima delle altre che sarebbero sorte lì vicino in via Faina. Dalla strada bisognava scendere da una scalinata doppia, stile barocco, e la regola, non scritta, comandava che andava presa quella di destra, l’altra portava sfortuna. Se poi la si fosse percorsa in un giorno di esami, la bocciatura sarebbe stata assicurata. Chi sa se anche lì a Roma era una cosa simile? L’androne dava accesso ad un lungo corridoio su cui si aprivano studi medici e le segreterie delle varie articolazioni specialistiche della Clinica. In fondo, una porta lasciava entrare in una grande stanza che era un’aula attrezzata per conferenze, seminari, lezioni agli specializzandi.

La prima porta del corridoio, preceduta da un’anticamera, era lo studio del Professore. Davanti stazionavano camici bianchi e verdi in continuo movimento. Aspetto di gente benestante, lievemente abbronzata, inflessione romanesca della voce, appena accennata, non volgare, alcuni con spocchia fastidiosa. Quanto bastava per indicare il privilegio della loro posizione, almeno così appariva. Umberto chiese a qualcuno del prof. Stefanini, ma quelli lo guardarono dall’alto in basso e non risposero, come a dire: “ma chi è questo che chiede del professore”? Nessuno lo conosce, ha una bella faccia tosta!” Andavano e venivano, non si capiva cosa facessero, e si rinnovano continuamente.

Tutto questo intimidì ancora di più Umberto e gli veniva da pensare che con quell’esordio sarebbe stato ancora più difficile affrontare il professore. Il tempo passava, la gente cominciò a scemare, e nella mente di Umberto si confondevano le parole che aveva preparato. Non sarebbe stato in grado di dire niente, e il pensiero gli procurava un senso di panico. Riandava con la mente alla presentazione che aveva fatto di lui il padre. La lettera di ritorno era stata incoraggiante, con espressioni di affetto per il vecchio compagno di studi, e questo legittimava la speranza di un atteggiamento benevolo nei suoi confronti. Sarebbe stato ascoltato su quanto aveva da dire.!

Passò il tempo, molto tempo, si era fatto pomeriggio. Era calato il silenzio al terzo piano, la gente che aveva visto gravitare lì intorno progressivamente era scomparsa. Finita la sala operatoria, alcuni privilegiati erano andati al pranzo della Scuola, altri al lavoro della corsia, altri nei loro studi privati. Era rimasto lui, quasi piccolo e contratto,in un angolo dell’anticamera. Lì ormai solo lui con Arlette, la segretaria del professore. Arlette aveva un volto gentile ma non tanto da confortarlo con parole o altri sostegni, oltre quel “ah, lei sta aspettando il professore”.

Quelle parole le sole rivolte a lui, un paio di volte in tutta quella lunga giornata, servirono a dargli una identità, ad attenuare la confusione e la stanchezza che sentiva nella mente. Con il pensiero andò a quella sera di alcuni mesi prima: una festa a casa di conoscenti, vi aveva conosciuto quella ragazza bella, come lui era bello, alta come lui era alto, un po’ spocchiosa come anche lui sapeva essere, per mascherare quel disagio dovuto alla timidezza che l’aveva accompagnato tutta la vita. Incredibile quella timidezza! Non ci stava con quel fisico possente, il viso maschio, la prestanza atletica che gli aveva dato il gioco del basket. Le donne lo corteggiavano, e lui rispondeva imbarazzato. Riusciva a sciogliersi solo con quelle“sfacciate”, di più con “le poco di buono”. Trovava in loro come un’innocenza primitiva che lo emozionava, lo rapiva, lo faceva innamorare.

E questo andava di pari passo con il loro essere quanto più lontano possibile dal cliché della ragazza per bene, adatta al matrimonio e a metterci su famiglia. Sarebbe stato sempre così, lo sapeva, anche negli anni a venire. Ma ora quella ragazza bella, aristocratica, di modi raffinati, di nobile lignaggio, era apparsa. Gli faceva intravedere una cosa da fare, buona per tutti, per i familiari, per la carriera, per sé……. Ma cosa avrebbe significato per lui il matrimonio, come si sarebbe comportato? Al di là di tutto, sapeva, sentiva che la cosa importante, vitale era il lavoro, l’affermazione nel lavoro, e lì all’Università alla corte del prof. Stefanini. Quella fortuna del padre che lo conosceva, quella lettera di presentazione e lui qui, oggi, a tentare la fortuna. Se solo fosse riuscito a comunicare al professore tutta la sua voglia di sacrificio, di abnegazione, di sofferenza da sopportare, di angherie da subire da parte degli anziani……….

Il professore arrivò che era buio. Gli passò davanti senza guardarlo, Arlette gli si fece incontro, gli aprì la porta dello studio ed entrò con lui. Umberto rimase al suo posto con il cuore in gola, non l’aveva nemmeno guardato, certamente non l’avrebbe nemmeno ricevuto. Aspettava indeciso se andarsene in punti di piedi, scivolando lungo il muro e scendendo le scale, non l’ascensore che avrebbe fatto rumore nel silenzio della clinica deserta. Intanto rimase seduto sulla sedia che Arlette gli aveva indicato la mattina tante ore prima quando era arrivato. Cosa avrebbe detto al padre? Sicuramente si sarebbe beccato un rimbrotto, lui gli avrebbe ribattuto che quella fantasia dell’università era stato un errore, la grande città, la carriera prestigiosa erano state un sogno folle. Si era convinto finalmente, gli avrebbe detto: avevi ragione papà, il mio lavoro è accanto a te, in condotta.

Arlette si affacciò, lo guardò e disse:“il dott. Conti?” Umberto si alzò di scatto, rosso in viso, con il cuore che batteva rapido. “Sono qui” rispose. “Venga, il professore la riceve”. Umberto percorse i metri che lo separavano dalla porta dello studio inciampando nella moquette, dandolo a non vedere, con un sorriso ebete, di cui si vergognò immediatamente. Si affacciò sulla porta e chiese permesso, poi aggiunse “buonasera professore”. Stefanini era seduto alla scrivania, gli fece con la mano il gesto di avvicinarsi, Arlette lo presentò dicendo: professore il dott. Conti aveva un appuntamento con lei, le voleva parlare. Stefanini accennò un rapido sguardo su di lui, poi riprese a guardare le carte.

Intanto Umberto dritto davanti la scrivania aspettava, non si risolveva a pronunciare parole. Doveva o era preferibile aspettare che il professore dicesse qualcosa? Si risolse per la prima opzione, preparò le parole, che gli si accavallavano, confondendosi, nella mente, quando Stefanini, senza alzare gli occhi, disse a bruciapelo: quanto ha preso all’esame di patologia chirurgica e di clinica chirurgica’? Umberto si sentì sollevato quando declamò: trenta e lode su entrambi. Lo disse con insolita sicurezza per lui, quasi senza timore. Stefanini aggiunse: un mio allievo, il prof. Castrini è andato da alcune settimane a rivestire la cattedra di Patologia Chirurgica a Perugia, si presenti a lui e non mi faccia pentire di averla segnalata. Arrivederci e buona fortuna.

Immobile davanti la scrivania, le parole si sciolsero nel sangue di Umberto, impegnarono gli organi interni com’è dell’alcool ingerito di botto, che passa dallo stomaco al fegato, e questo incapace a bloccarlo, lo spara al cervello smanioso di abbandonarsi al disimpegno accidioso, e lascia inebetito, spossato, ma felice il malcapitato. Così furono per Umberto quelle parole. Ubriaco di felicità, ringraziò, indietreggiò, come si fa davanti ad un sovrano, senza voltare le spalle, mentre farfugliava parole di impegno, di ringraziamento. Infine salutò Arlette e se ne andò. Tornava a Perugia, cominciava una nuova vita, quella che aveva sognato.

Il giorno dopo si svegliò nella sua camera dello studente che era riuscito a conservare dopo la fine degli studi, per via di una aumentata disponibilità di posti e della conoscenza con Bacoccoli, il custode ed amministratore degli alloggi degli studenti. Era un privilegio concesso a pochi, la norma era la riconsegna della camera dopo la fine degli studi. Per lui si era fatta una eccezione che però doveva avere un tempo limitato prima che iniziasse di nuovo l’anno accademico e tornassero gli studenti. Si era a settembre i corsi iniziavano i primi di novembre poteva stare ancora qualche settimana. Si alzò dal letto, aprì la persiana, la luce si diffuse nella stanza illuminando i vestiti messi in ordine sulla sedia, il tavolo di lavoro, i libri sulla scansia della parete. Aprì il rubinetto dell’acqua sul lavandino posto in una intercapedine tra l’armadio e la finestra, si lavò il viso e il collo, fece la barba con il sapone, il pennello, e la lametta gillette, si vestì con cura, ed uscì.

La giornata era bella, Umberto aveva in animo di non pensare per il momento a quanto accaduto a Roma il giorno prima, rimaneva nel subconscio una sensazione di leggerezza che si alternava a nuvole sparse di preoccupazione. Però, a tratti, la mente pervicacemente tornava lì: allora si rallegrava di come era andata, non aveva sperato così bene, ma ora doveva dimostrarsi all’altezza. Di nuovo scacciò quei pensieri. Si avviò verso il centro, da via Fabretti prese per l’acquedotto e arrivò in piazza Morlacchi. Camminare serviva per sciogliere i grumi rimasti dentro dopo la cosa di ieri.

Il movimento dei muscoli, il sangue che correva lungo le arterie, il cuore che pulsava più velocemente, consentivano al corpo di non rimanere schiavo di quelle sensazioni che avrebbero preteso riflessione, forse l’immobilità. Avrebbe ricordato le parole pronunciate ed ascoltate, la felicità delle battute finali, e subito dopo il succedersi dei pensieri, con la preoccupazione dell’agone, del misurarsi, la paura di fallire, di perdere la faccia, il tornare indietro quando si è intravisto ad un passo il meglio, il desiderato. Da piazza Morlacchi prese la salita ripida che curva all’altezza dell’imponente Maestà delle Volte. Da lì si cominciava a vedere la grande piazza dove si affacciavano la cattedrale di S. Lorenzo e il palazzo della Signoria, i simboli monumentali del potere. Davano da sempre conforto, sicurezza ed identità al popolo minuto, incapace di trovare un senso alla vita, oltre quel lavorare duro, come schiavi i meno fortunati, per sopravvivere loro, e per consentire benessere e ricchezza ai pochi che vivevano sopra di loro in quei palazzi del potere.

C’era bisogno dell’imbonimento per tenerli calmi ché ogni tanto qualche testa calda metteva strane idee nel cervello di questa gente e ciclicamente questa si ribellava e tagliava le teste dei padroni, ma era sempre un breve lampo, un fuoco fatuo, ché da subito quelli di prima tornavano, e se no, di nuovi. Prima della Maestà delle volte Umberto era passato avanti ad un negozio di articoli sportivi. C’era entrato una sola volta, suggeritogli da Simonetta, un’impiegata dell’Università. Simonetta era di Bettona o meglio di Passaggio di Bettona, che era poi la patria dei Morganti una famiglia di proprietari terrieri che si erano dedicati alla medicina. Uno, il patriarca, era chirurgo in un piccolo ospedale della zona, Montefalco.

Ce n’erano allora di ospedali, ogni cittadina aveva il suo, e la comunità ne era orgogliosa e ci teneva a custodirli, li avevano costruiti con le loro maestranze e con il denaro dei possidenti della città, famiglie nobili e clero. Ma si intravedevano già tempi nuovi, perigliosi, con una politica diventata invadente, che voleva avocare a sé il potere di decidere le cose della sanità. Qualcuno temeva una spoliazione. Chi sa?

Oltre il chirurgo di Montefalco, i Morganti avevano anche un pediatra, lavorava all’ospedale di Foligno, più giovane dello zio, anche lui primario. Ma in più scapolo e donnaiolo rispetto all’altro molto istituzionale e preciso. Simonetta lavorava in ufficio ed era ragazza dalle forme prepotenti, e costumi corretti. Aveva guardato ad Umberto con interesse ma questi non si era fatto avanti, conservò per sé l’eccitazione di quelle forme invitanti. Era lei che gli aveva detto di quel negozio in occasione di una vacanza sulla neve che lui era in procinto di fare e la necessità di un paio di sci nuovi. Così si voltò a guardare la vetrina del negozio più che gli sci acquistati lì, gli ricordava le cosce tornite, il seno prorompente di Simonetta.

Si era laureato solo poche settimane prima, la sorte gli concedeva alcuni giorni di libertà prima di affacciarsi alla porta dell’Istituto di Patologia Chirurgica a Monteluce, dove si era insediato il prof. Castrini, designato titolare della cattedra. Forse aveva del tempo per Simonetta. Arrivato in piazza, si guardò intorno ma non vide nessuno che conoscesse, colleghi d’università o altri, non gliene importava un gran che era in compagnia di sé stesso e gli bastava.

C’era una cosa nuova nella sua vita, desiderata e sulla via di realizzazione, ma non voleva pensarci ancora. Prese giù per corso Vannucci, l’aria era fredda ma un sole amico brillava in cielo e dava calore alle pietre dei palazzi e al corpo degli umani, attutendo le ambasce che il tempo caricava su cose e persone. Si fermò davanti al palazzo dei Priori, la grande facciata scendendo dell’alto posava sul selciato con una sorta di zoccolo che dava stabilità alla costruzione e riaffermava il suo potere sul circostante. Lì i perugini nelle belle giornate solevano sostare, Umberto si sedette mescolandosi con loro a godere il calore che le pietre intorno gli regalavano, e il sole che dall’alto faceva risplendere il bel viso.

Pensò a tutti quelli che nei secoli si erano seduti su quelle pietre, al conforto che quella sosta aveva loro procurato, alle infinite storie di dolore e sofferenza o alle più fugaci gioie che si erano trascinati fin lì. Tutte avevano continuato a vivere, rapprese sulle pietre, che ne custodivano la memoria. Ad interrogarle le avrebbero raccontate, ma gli uomini non trovavano più il tempo, non conoscevano più la lingua. Dall’altra parte della strada davanti la pasticceria Sandri, vide passare un suo conoscente, amico di qualche sera alla mensa della casa dello studente, e poi in giro per la città, prima del sonno. Era di Roma, aveva un padre ingegnere con un lavoro prestigioso, che, colto sulla via di Damasco, si era convertito alla religione, dopo una visita a S. Giovanni Rotondo, da Padre Pio. Non ne era più tornato, eccetto qualche breve visita a casa. Poi la famiglia lo raggiunse laggiù e si misero tutti al servizio del Santo che stava costruendo un grande ospedale. Solo quel figlio non lo aveva seguito e se ne era venuto a Perugia a studiare lettere classiche. Questi, forse in antitesi con la deriva religiosa del padre, pur venendo da una famiglia borghese, e manifestandosi tale per i tanti atteggiamenti che assumeva nel vestire, nei rapporti con gli altri e…, pendeva dalla parte della sinistra estrema. Era una moda allora e qualche sera con Umberto frequentarono il circolo di Avanguardia Operaia. Erano seminari di approfondimento ideologico, giravano libri di Marx ed Engels, scritti di Mao, di Gramsci, di filosofi rivoluzionari e/o anarchici, letti da qualcuno che poi apriva il dibattito per attualizzare quegli scritti nella azione pratica dell’oggi.

I più convinti e fanatici erano i ragazzi di estrazione proletaria, quasi una rivincita sui privilegiati, l’essere loro a condurre la rivoluzione e tutti gli altri al seguito. Gli altri, per altro, mostravano in modo evidente che si erano accostati per curiosità, perché il vento girava allora da quella parte. Pochi erano quelli che dichiaravano la loro fedeltà ai valori della tradizione e di un passato discusso. Erano a parte, asserragliati nella sede del Fuan, e nella mensa di Agraria. Tosti e battaglieri come quei giapponesi che resistevano nelle isole sperdute del Pacifico, nonostante la guerra fosse finita e il valore inutile. I proletari no, per via del presalario che garantiva ai meritevoli l’accesso all’Università, avevano preso coscienza della possibilità e necessità di una riforma sociale che realizzasse la giustizia e l’uguaglianza, mito sempre vivo e sempre evaso della storia dell’uomo, per tutto questo aderivano con il cuore alla nuova religione. Per Umberto e gli altri come lui, quella vicinanza alle idee di sinistra era solo un vezzo, non avrebbero avuto voglia e forse il coraggio di scelte radicali come quella di “carbonello”, così loro lo chiamavano per via della statura e dei capelli e barba scuri che coprivano il volto. In verità il cognome era Carbone da cui quel diminutivo. Studente di scienze politiche proveniente dalla Basilicata, aveva più volte ricevuto ospitalità nella camera di Umberto, quando aveva avuto bisogno.

E carbonello si era proprio arrabbiato un giorno che il nostro gli disse che avrebbe votato socialista alle prossime elezioni politiche, credendo di farlo contento. E quello dopo la contrarietà rabbiosa, aveva risposto con una faccia di schifo ma anche atteggiata a preghiera che se proprio doveva andare a votare, quel voto lo desse per lo meno al Psiup che era un piccolo partito ma più moderno e di sinistra dello stesso PCI. E poi carbonello dopo un ultimo soggiorno, ospite nella sua camera lo aveva salutato con un viso triste e pensieroso. Sparì, non si vide più né alla casa dello studente né a Perugia. Umberto dubitò che si fosse dato alla clandestinità, e….. Comunque quelle particolari frequentazioni di Umberto, fecero sì che una volta medico, qualcuno di quelli lo venisse a cercare, proponendogli di entrare a far parte di Soccorso Rosso, un’organizzazione non combattente ma fiancheggiatrice dei latitanti.

Attraversando la strada si ritrovò davanti a Sandri dove aveva visto passare il suo amico, lo cercò intorno guardando tra la gente, non lo vide, era scomparso. La vetrina della pasticceria era invitante, entrò. Scelse la pasta più ruffiana, voleva festeggiare anche a quel modo la giornata. Si era seduto su di un tavolo e dai vetri dell’ingresso seguiva il movimento della gente lungo la via: studenti, perdigiorno, borghesi ben vestiti che oziavano con il giornale sotto il braccio intrattenendosi a parlare con compagni di vita. Se passava qualche ragazza avvenente non mancavano di fare apprezzamenti sussurrati tra di loro, come manifestazione di virilità educata, non sguaiata. Più veloci e indaffarati passavano gli avvocati del vicino tribunale con grandi borse piene di fogli e se quelle non bastavano, fascicoli tenuti con l’altra mano che non entravano nella borsa. C’era da ultimo anche una nuova specie di umanità che allignava in Corso Vannucci, da qualche anno, da quando era stata istituita la Regione i cui uffici erano lì in centro a Piazza Italia, di fronte alla Prefettura e al grande albergo Brufani da cui era partita la marcia su Roma nel 22’. Erano i funzionari e i politici che nel tempo libero non esiguo, occupavano il corso con andamento del camminare lento, che negli anni a seguire sarebbe diventato quasi maestoso, occupante il centro della strada, con tratti di arroganza, confliggente, soppiantante la storica supremazia dei borghesi massonici, che oltre che nelle logge avevano lì il loro punto d’incontro. Quella lotta silenziosa tra i due gruppi si rappresentava plasticamente lungo via del Corso, dando mostra di ignorarsi vicendevolmente o a seconda dei casi con scambio di saluti formali. Fu un reciproco studio e un prendere le misure, prima di dar vita ad una convivenza che era riconoscimento e legittimazione reciproca.

La commessa che gli aveva portato la pasta al tavolo ammiccò un sorriso a cui lui rispose un po’ impacciato. Era bella, il grembiule fasciava le forme del corpo con discrezione, ma quelle apparivano nonostante, e si appressavano invitanti agli occhi degli uomini. Non erano ancora i tempi del femminismo o delle rivendicazioni di genere. La natura e l’educazione portavano le femmine a lanciare quel messaggio nell’aere intorno. Poteva essere eccessivo quasi fuori misura per quelle di mestiere, o discreto e trattenuto per le altre, comunque un messaggio dei sensi per i sensi: destinazione rinencefalo che poi in qualche caso la corteccia del maschio osservatore avrebbe elaborato stimolando risposte diverse. Poi nei decenni successivi sarebbe cambiato il mondo e le femmine si sarebbero chiamate donne a rivendicare una dimensione culturale-razionale che nel passato era stata appannaggio di poche, appartenenti alle classi superiori, poche, da sembrare voler confermare la regola del predominio dei maschi. Zenobia, Cleopatra, Giovanna d’Arco, Caterina di Russia, Maria Teresa d’Austria, le Elisabette d’Inghilterra, Marie Curie……………………….. Solo alcune di tante altre, ma niente in confronto al potere dei maschi. Ma il mondo stava cambiando in quello scorcio dei primi anni settanta, e anche in Italia. Si sarebbero prodotti mutamenti nei costumi; con le donne che avrebbe tentato, spesso con successo, a competere con i maschi nel lavoro; a rivendicare un nuovo ruolo nella società e nella famiglia; a ridefinire la loro sessualità nel tentativo di liberarla dalla ipoteca esaustiva del maschio cacciatore; a castrare l’istintivo appetito sessuale di lui, che doveva inventarsi nuove forme per avere successo, e spesso non riusciva; al rifiuto delle donne di riconoscersi nella sola dimensione di procreatrici. Tutto questo avrebbe portato al decremento delle nascite, all’invecchiamento della popolazione, in un bailamme di nuovi stilemi e comportamenti ingeneranti confusione e reazioni violente, in una parola ad una diversa concezione della femminilità.

Si alzò dal tavolo con in bocca ancora il sapore del caffè amaro che aveva mitigato il dolce della panna e fragole che adornava il pasticcino, andò alla cassa, pagò, ricevette un buongiorno che ricambiò e si immerse di nuovo nella solarità accecante della strada. Provò fastidio negli occhi e nella testa, gli accadeva spesso. La sua natura fisica e psichica non amava la luce violenta, gli procurava disagio, come se le sinapsi cerebrali avessero bisogno del crepuscolo, degli ambienti piccoli per poter funzionare al meglio, quasi che la sua fisiologia funzionasse così, o all’inverso fosse la sua psiche con tutto quello che si portava dietro di vissuto a determinare quell’espressione dei circuiti cerebrali. Misteri della medicina e della psicologia, che ad indagarli si scoprono di cose!, ma non definitive, rimandano sempre a qualcosa di oltre, senza arrivare mai ad una fine. Che poi è il destino della condizione umana, quel perché delle cose e della vita che impegna i nostri talenti e ci porta avanti nella comprensione. Ma questa apre nuovi perché, in un processo che è il nostro compito, il nostro destino, e la nostra dannazione, con l’orgoglio continuamente frustrato, e il rifiuto di abbandonare la ragione per una conoscenza alternativa, misterica: in una parola, il rifiuto di Dio.

Quella maledetta mela che non dovevamo mangiare.! Chi sa come sarebbe andata? Avanti sulla sinistra la strada si allargava un po’ e ospitava i tavolinetti del Medioevo, un bar dal sapore antico come il nome che portava. Ci si andava talvolta dalla casa dello studente come pure in qualche ristorantino lì intorno per fare una cosa diversa dalla vita di studio e frugalità che si svolgeva negli alloggi universitari. Davanti il Medioevo, dall’altra parte del corso, il cinema-teatro Pavone. Anche quello era luogo di saltuarie presenze, soprattutto quando venivano le grandi compagnie.

Una sera i goliardi insieme a quelli della casa dello studente avevano sequestrato per burla Edoardo de Filippo e lui simpaticamente si era prestato al gioco. Andando avanti poco oltre il medioevo la strada si stringeva a causa di una costruzione che somigliava ad una vecchia chiesa, che poi era stata, come insegnava una scritta affissa sul muro, l’istituto di Anatomia della facoltà di Medicina, quando questa era ancora dentro le mura della città, prima del trasferimento all’esterno in via del Giochetto. Come poteva Umberto non pensare al prof.Lucheroni, il docente dei primi anni che insegnava Anatomia in un’epoca pre-tecnologica. Parlava davanti alla cattedra aggrappato ad una lunga canna di bambù con cui girandosi di volta in volta indicava i particolari delle diapositive proiettate sul telo bianco posto alle sue spalle. E li illustrava quei particolari con voce che aumentava di volume secondo la loro importanza e si esaltava a scoprirne connessioni con altri apparati o pertinenze filogenetiche, oppure a magnificare l’estrema complessità nell’apparente uniformità “ epitelio pluristratificato piattoooo……” quasi un orgasmo.

A seguire palazzo Donini, antico palazzo gentilizio che era diventato da poco sede dell’Istituzione-Regione dell’Umbria, davanti il ristorante “la rosetta” tra i più famosi ristoranti umbri, ricordato nelle guide gastronomiche accanto ad altri due, situati in piccoli centri della regione: Cochetto a Trevi, Gigiotto a Gualdo Tadino.

Umberto proseguì oltre Corso Vannucci nella grande piazza dove si affaccia la prefettura e l’ingresso nobile di palazzo Donini. Da lì nei giardini davanti l’albergo Brufani adorni di panchine e piante gentili per far dimenticare le macerie sottostanti della rocca spianata dal Papa di allora per punire gli orgogliosi perugini.

Lì la vide. Jeans, camicetta, giacchino aperto, capelli raccolti da un nastro, sorridente, bella oltre che nelle forme, nell’atteggiamento, nel muoversi della figura, nell’atteggiarsi del viso, come risposta incantata al circostante, per poi compenetrarlo, ma trasformato, quasi trasfigurato dalla sua giovinezza, che lo inventava, lo sottraeva alla banalità del suo esistere. Parlava con una ragazza, appoggiata al muro che delimita la spianata sopra la rocca distrutta, da dove lo sguardo spazia sull’Umbria sottostante, ancella inutilmente ribelle. Dopo un po’ si salutarono e lei rimase sola a rimirare i colori dei campi che si stendevano oltre le mura della città. Umberto ebbe un moto dell’animo inconsueto per lui, si diresse verso di lei e sparò un ciao come fanno i ragazzi intraprendenti cosa che lui non era, e questo lo allarmò. Lei rispose……. Cominciarono a dirsi parole……. Henriette veniva dagli USA, stato del Minnesota, da un paesino affacciato su uno dei grandi laghi di quello stato. Virginia era il nome della città. Aveva studiato archeologia all’università di St. Louis.

Era un anno che girava per l’Europa tra università e siti di scavo, ultimamente anche in Italia. A Perugia dall’inizio dell’estate per il corso di lingua italiana presso l’università per stranieri di palazzo Gallenga. L’indomani sarebbe ripartita per Israele con una borsa di studio della sua università per una campagna di scavi nella zona di Ebron. Sarebbe durata un anno quella borsa, poi contava di andare in India, non sapeva per quanto tempo, l’attirava la spiritualità orientale, cercava qualcuno per condividere quell’esperienza. I nonni erano italiani, delle Marche nella zona di Matelica, in casa non si parlava ormai più italiano, solo qualche parola. Aveva sentito il desiderio di fare quel corso estivo per riappropriarsi della lingua dei padri. Ventitre anni, alta, stava bene vicino a lui, occhi chiari, capelli sul biondo naturale, ma non acceso com’è delle anglosassoni, meno intenso, forse influenza dei geni italiani. Parlava un italiano essenziale, non articolava ancora bene le frasi, ma si faceva capire.“forse dovresti fermarti un po’ più a Perugia” Umberto le disse, nascondendo malamente un secondo fine. Lei rispose che le sarebbe piaciuto molto, ma non poteva, l’aspettavano laggiù il suo professore e gli altri.

L’indomani avrebbe preso il treno di prima mattina e sarebbe partita. Lui raccontava di sé, ma parco, essenziale, come se a raccontare delle sue ambizioni professionali, di quello che il giorno dopo sarebbe iniziato per lui, non c’entrava niente con lei, con il suo mondo…. non avrebbe capito. O forse l’incontro con questo fantasma materializzato che si chiamava Henriette lo toccava così nel profondo da confonderlo, quasi da fargli pensare alla non inevitabilità delle sue scelte, magari alla banalità della sua vita, dinanzi a quella diversa che lei raccontava.

Pensieri, sensazioni che avrebbero preteso di essere esplorate con lei, insieme. Ma lei sarebbe partita, lui doveva andare al Policlinico per dar seguito alla giornata romana. O forse quello che gli stava accadendo era solo un’emozione di fine estate, di quel giorno di vacanza che si era concesso prima di applicarsi alla vita che lo avrebbe preso dall’indomani? Però se solo si fosse fermata un po’ più, ma quella partenza in treno la mattina……. La sentiva già come una mancanza, un’occasione perduta………………….. Presero insieme per Corso Vannucci a ritroso, lei doveva tornare a palazzo Gallenga, in segreteria, per gli adempimenti burocratici del fine corso. Lui l’accompagnò. Arrivarono, si fermarono davanti al portone d’ingresso, la inevitabilità di un saluto. Poi improvvisa “verrai con me in India?”. Lui non rispose, lei gli dette un indirizzo di Ebron dove avrebbe potuto rintracciarla, se mai…………………. Se ne andò dentro il buio del palazzo. Umberto rimase fermo un istante, circondato dalla luce accecante del giorno fatto. Poi prese giù per via Fabretti, diretto verso la mensa, aveva ancora dei buoni per il pranzo, camminava stralunato pensando ad Henriette.

Gli sembrò che l’incontrarla non era stato un accidente del caso, era come un rivedere un allora scomparso e di nuovo materializzato. Non c’era mai stato un allora, lui lo sapeva, ma era quello che sentiva. Lei aveva raccontato un mondo diverso, sconosciuto ad Umberto, quasi da rendere insignificante il suo e che tra breve lo avrebbe preso interamente. Esisteva altro da sé, non gliene era mai importato niente, non ci aveva mai pensato, chiuso come tutti nel nostro, su cui abbiamo eretto mura per proteggerci da intrusioni, che abbiamo timore sconvolgano le nostre sicurezze e certezze. E ora quella ragazza glielo veniva a raccontare uno di questo mondi sconosciuti, e a lui sembrava bello e affascinante come lei era, e lei lo raccontava a lui come se volesse renderlo partecipe, quasi una violenza in quell’improvviso rapporto che era un amore senza bisogno di dichiararlo. Si mise in fila con gli altri studenti per entrare alla mensa e continuava a sentirsi turbato, agitato, senza pace. Forse doveva tornare davanti il portone di Palazzo Gallenga, aspettarla all’uscita, e vista, dirle: si portami con te!! Tornò in sé, pensò che forse c’era di mezzo lo stress del giorno precedente a Roma, forse lo aveva reso fragile. Ma quell’incontro sconvolgeva il suo equilibrio, gli metteva davanti gli occhi della mente un altro sé stesso, coartato, inespresso che urgeva dentro e Henriette lo aveva risvegliato, e prometteva di aiutarlo a venire fuori, a prenderlo per mano e condurlo nel mondo nuovo. Intravedeva nebbie all’ingresso di quel mondo, ma un sole brillava dall’altra parte. Bisognava attraversare una porta, lei lo trascinava lì, lui barcollante nei passi.

Tornò in sé, si ritrasse da quei pensieri, riprese a guardare la fila che si snodava davanti a lui, ci sarebbe voluto ancor un quarto d’ora prima di arrivare al bancone del cibo. Mangiò un pasto frugale, non aveva appetito. Prese per via Faina, varcò il cancello del palazzone dov’era la sua camera. Prima di entrare nel portone prese il biglietto di Henriette, lo stracciò in mille pezzettini e lo lanciò in aria. Il vento di fine estate lo disperse lontano.


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