Una scenografia molto scarna, una stanza vuota con un materasso appoggiato al muro, luci basse. Questo il contesto in cui si svolge la prima parte della Vegetariana: scene tratte dal romanzo di Han Kang, Premio Nobel per la letteratura 2024.
Lo spettacolo è andato in onda nell’ambito di Roma Europa Festival al Teatro Vascello di Roma dal 29 ottobre al 3 novembre scorso con la regia di Daria Deflorian e gli attori :Paolo Musio, Monica Piseddu e Gabriele Portoghese; scene di Daniele Spanò.
L’impatto è stato spiazzante, ma assolutamente carnale e veritiero anche perché i monologhi degli attori erano corrispondenti alla realtà del testo. Un testo forte quasi un pugno nello stomaco che richiama l’attenzione sul nostro vivere un tempo tragico; un Occidente visto con gli occhi di una coreana che avverte il disagio di una realtà che è giunta al capolinea di una cultura ormai inquinata e satura di guerre, di sangue, di morte.
Un’apocalisse, intesa come la fine di una fase dell’essere umano che senza più punti di riferimento, né mete da raggiungere è in preda alle sue pulsioni più inique alla ricerca della sua stessa identità. Non si riconosce più nell’ambito sociale, tanto che respinge il suo simile come altro da sé preso da una malattia autoimmune per distruggersi e distruggere .
Il cervello non riesce più a stare al passo con il mondo in pieno cambiamento e con le sue trasformazioni, di conseguenza anche gli umori e i sentimenti umani si mixano sconfinando l’uno nel campo dell’altro e creando così spiazzamento e perdita di controllo.
Tornando alla performance, essa continua con una sequenza di scene, immagini che accompagnano la metamorfosi della protagonista. Poche le azioni sceniche per rendere lo stesso ambiente, di volta in volta, sempre più aderente alle sensazioni che si vogliono trasmettere.
È difficile rappresentare il nulla, quel nulla di una persona che non vuole più vivere come oggi si vive cosciente che la sua condizione di essere così come è non è più sostenibile
Un’eutanasia al contrario, non morire, ma continuare a vivere con una natura diversa da quella attuale laddove anche il cibo non ha più ragione di essere.
“Tu puzzi di carne” grida la protagonista al marito, identificandolo con il suo odore con una società in disfacimento.
I vari personaggi quali il padre, la sorella e il cognato della protagonista non bastano per convincerla a desistere dalla sua idea di non mangiare più carne né tutto ciò che non sia vegetale.
Essi non comprendono il suo disagio profondo e la trasformazione che lei sta affrontando; infatti, il marito chiederà il divorzio e lei stessa insieme al cognato finirà, per queste sue stranezze così definite, in manicomio.
Niente potrà scalfire la decisione maturata nel tempo dalla protagonista, forse il suo destino era scritto fin dalla nascita, infatti, lei aveva su di una natica, ben visibile, una macchia di colore bluastro tendente al verde detta “macchia mongolica”. Tale macchia era solita in quasi tutti i bambini coreani ma svaniva durante l’infanzia; al contrario, nel caso della nostra protagonista, non era sparita, quasi una colpa, un segno dal quale partire per divenire altro; un punto erotico che mette in evidenza l’erotismo del vivere svuotato del piacere.
La performance si chiude con un reportage sul rapporto tra Yong Hye e sua sorella, una donna questa piuttosto stanca che non vuole rassegnarsi alla scelta fatta dalla sorella che lei vede come una persona fragile da accudire e comprendere. Ma nonostante i suoi sforzi non riuscirà nel suo intento, alla fine si congederà dalla sorella sconfitta per non aver condiviso il suo desiderio ed aver scambiato una rinascita per una morte insana e apparentemente ingiustificata.
Dalla lettura del romanzo sì deduce che esso non si riduce soltanto ad un rifiuto di un mondo ormai in delirio. Ogni cosa ha un’origine ben precisa, pertanto, anche in questo caso, benché nascosta, possiamo scoprire l’origine personale della protagonista che decide così di liberarsi da ricordi insopportabili per cercare altrove la propria identità. Infatti, quasi alla fine, proprio nel rapporto intimo che si crea tra le due sorelle vi è il senso reale della situazione assolutamente incomprensibile per chi non la vive. Una sequenza di immagini affolla la mente della sorella maggiore della protagonista in un momento di grande verità, immagini che rimandano a sensazioni ambigue le quali caratterizzano i sogni e le speranze fallite. Tornare indietro nel tempo non è possibile senza avvertirne l’intimo dolore quando si fa il punto della propria vita. “Non torniamo più”, questa frase suscita nella sorella maggiore un senso di colpa per non aver compreso allora, quando la frase fu pronunciata dalla protagonista in una giornata trascorsa insieme fuori casa, per non aver ascoltato il grido disperato della sorella celato in quella frase.
La famiglia, alcova di contraddizione, spesso di soprusi da parte dei genitori, che, forse inconsapevolmente, sì appropriano della vita dei figli procurando loro grandi disagi e incomprensioni che poi si riveleranno fattori irreversibili per il loro sviluppo.
Così anche Yong Hye, vittima di soprusi e di restrizione inaccettabili da parte del padre, alla fine deciderà liberamente di conquistarsi la sua libertà di scelta.
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