UNA SPIETATA COMMEDIA UMANA

Torna a trionfare nell’universo del noir Tom Ripley, il protagonista di una pentalogia di Patricia Higsmith pubblicata fra il 1955 e il 1961. E lo si deve alla recente serie Netflix sceneggiata e diretta dal premio Oscar Steven Zaillian. L’algido bianco e nero delle 8 puntate conferisce alla versione televisiva un andamento più tortuoso e fedele al romanzo del film diretto da Anthony Minghella nel 1999. Lì i colori e la solarità mediterranei facevano da contraltare visivo al cuore di tenebra di Ripley. Qui invece la sua figura emerge senza filtri sin dalle prime inquadrature, e incede temibile verso tutti quelli che hanno la sfortuna di incrociarne la strada. “Ripley”, come recita secco il titolo della serie, enuclea in immagine il personaggio più inquietante della letteratura di tutti i tempi. Più di Jacques Collin alias Trompe-la-mort, alias Vautrin, il cattivo di “Papà Goriot”, per il quale Balzac si ispirò a Vidocq. Più del signor Hyde di Stevenson. Più di Uriah Heep, il genio del male in “David Copperfield”, di Charles Dickens. E via dicendo.

Questo perché Ripley non è il folletto dell’imprevisto e mascalzone tuttofare, sempre disposto a ricattare, minacciare e perfino ad ammazzare. Bensì perché le sue sono sfaccettature crudeli di una inesorabile solitudine da cui non c’è riscatto. Corrispondente letterario di quella che Patricia Highsmith scelse per se stessa. Con la quale affrontare una commedia umana in cui il delitto è il migliore strumento dell’affermazione individuale. Ripley cambia scenari e situazioni, ma resta sempre incatenato all’enigma di se stesso.

Che comincia dalla sua prima apparizione in quel bar di New York dove lo fa pescare da un investigatore privato l’industriale Herbert Greenleaf, disperato per l’esilio italiano del figlio Dickie. Dickie Greenleaf, già amico di Tom, vorrebbe pascere al sole amalfitano dell’immaginaria Atrani (Mongibello, nel romanzo). Invece il padre lo desidera al timone dell’azienda familiare. Ripley ne approfitta per cavarne soldi e perfino una nuova identità, uscendone con la fedina penale intatta. Ma senza un briciolo di vicinanza in più con gli altri, incapaci di coinvolgerlo nell’ordinario consesso dell’umanità.

La sua epopea originale prosegue in “Il sepolto vivo”. Qui Ripley sale di qualità sui gradini del crimine. Perché nel romanzo, oltre al morto, ci scappa la truffa. Che è ancora poco rispetto allo sconcertante cinismo di “L’amico americano”, vera discesa agli inferi per il protagonista, Jonathan Trevanny, dove Ripley entra in una partita con la morte come posta massima. Non è la prima volta né l’ultima per Tom. Ma Trevanny ha una malattia terminale e gli offrono tanti, tantissimi soldi per assassinare due uomini. Troppo accattivante per non tentarlo, poiché l’impresa gli darebbe la possibilità di lasciare ricche la moglie e la figlia. Il che sembra proprio contenere la geometria perfetta in cui Ripley si può inserire. Ancora di più in “Il ragazzo di Ripley”, con Tom che funge da mentore per l’itinerario, anche stradale, di Frank, convinto di aver causato la morte del padre. La solitudine di Ripley diviene nel romanzo un referente di formazione all’incontrario per il giovane protagonista. Sarà anche l’arma di difesa con la quale Tom deve fronteggiare il ricatto di Pritchard in “Ripley sott’acqua”, cronaca conclusiva di un successo fondato sull’assenza di scrupoli.

Tom è l’incarnazione della suspense di Patricia Highsmith. Storie senza scampo, in cui fin dall’inizio si intuisce che i personaggi arriveranno alle estreme conseguenze E per trovarne tracce biografiche, inutile cer­care fra le interviste, di cui la Highsmith fu avara, o fra i pettegolezzi degli addetti ai lavori, che si guardò sempre bene dal frequentare. Meglio distillare pre­ziose informazioni da un singolare manualetto pubblicato anni fa, intitolato non a caso “Suspense – pensare e scrivere un giallo”. In quella sede la scrittrice, tra un con­siglio e l’altro a narratori in erba, si lasciava andare di tanto in tanto a illuminanti divagazioni personali. Soprattutto sul nomadismo. Secondo lei chi scrive non deve vivere sempre nello stesso posto. Una pos­sibile causa di scarsa ispirazione per uno scrittore è, per lei, la frequentazione di gente sbagliata “o talvolta il semplice fatto di avere gente attorno”. Solitaria, nelle me­tropoli o in campa­gna, lo fu sempre. Dall’infanzia a Fort Worth, nel Texas, dove nac­que nel 1921, alla sua scomparsa, a Locarno, nel 1995.

E adesso? Sì, c’è Ripley in TV, ma chi narrerà di sconosciuti in treno che promettono cia­scuno di eliminare un personaggio scomodo per l’altro? Chi sarà ar­tefice di un esemplare “delitto di scambio”? Non certo Patricia Highsmith, spentasi da quasi un trentennio senza i clamori riser­vati agli eroi digitali seguiti a quelli catodici. Lei no. Lei che pure con le sue trame fornì spunti irripetibili al media visu­ale per ec­cellenza: il cinema. Non solo Hitchcock con “Delitto per de­litto”, tratto appunto da “Sconosciuti in treno”, ma anche Clement con “In pieno sole”,e Wenders con “L’amico americano” attinsero alla Highsmith.

La scrittrice soggiornò in Gran Bretagna fino ad essere con­side­rata da alcuni assimilabile ad Agatha Christie. Ma nelle storie della Highsmith non v’era nulla dell’iconografia provinciale in cui si muove l’acuta ma impro­babile Miss Marple o delle residenze di campagna e dei luoghi esotici dove accorre Hercule Poirot a sbrogliare enigmi. Lei metteva in scena gente vera, facendole com­piere delle azioni brutali quanto realistiche. Ogni lite coniugale può sfociare nel desiderio di un de­litto. Ogni questione di danaro può in­nescare l’odio più atroce.

L’eredità letteraria di Patricia Highsmith è una spietata commedia umana della società occidentale contemporanea, dove il delitto è un altro metodo di affermazione individuale, e Ripley il suo strumento più adeguato.


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