UTOPIA VS REALISMO O VICEVERSA?

Utopia vs realismo o viceversa? Insomma, ci dobbiamo arrendere a quel che passa il presente o si può ancora progettare il futuro? Forse non è scandalosa una risposta razionalmente ottimistica, anche per l’Italia.

Mentre mi pare scontato che nessuno definirà la nostra “epoca dell’utopia”, mi chiedo se è davvero più convincente definirla “epoca della distopia”. Come dire che la realtà umana del futuro, per quello che accade oggi, difficilmente ci può apparire orientata verso le leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, essendo piuttosto incamminata verso approdi sgradevoli se non spaventosi. In realtà a ben guardare non è così, ma è comunque da evitare una vana discussione per stabilire se ci sono ragioni per essere più ottimisti o più pessimisti. Piuttosto cerchiamo di guardare alla realtà con razionalità critica per capire se possiamo almeno immaginare una direzione di marcia, un orientamento politico fondato su dati di realtà razionalmente interpretabili.

Solo sei anni fa, nel maggio 2016, alcuni ricercatori del Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna potevano trovare interessante organizzare “una giornata di studi fra studiosi di discipline diverse e di diverse università italiane, chiamandoli a interrogarsi intorno al quesito ‘Utopia vs realismo?’”. E potevano sensatamente porsi la seguente questione: “Alla luce della drammatica realtà sociale e politica che, su scala globale, connota questa prima parte del nuovo millennio, quali declinazioni assumono questi concetti? Dobbiamo forse assistere impotenti al definitivo tramonto dell’utopia e dichiararne la fine all’interno di un infinito presente che non contempla più nessuna progettualità per il futuro?”

Diversi studiosi si misurarono con la risposta a quella domanda e ne vennero fuori spunti di riflessione interessanti anche per l’oggi. Ad esempio, l’evidenza che utopisti e realisti sono due “idealtipi” (Belardinelli): gli uni vorrebbero realizzare in terra la Gerusalemme celeste, gli altri ritengono che il kantiano “legno storto dell’umanità” non è raddrizzabile, per cui bisogna adattarsi, accettare quello che passa il convento, fino alla logica del più forte. Poi, andando più a fondo, si scopre però che l’Utopia di Thomas More (1516), che dovrebbe essere il massimo dell’astrattezza, contiene invece forti elementi di realismo, e per converso che il Principe di Niccolò Machiavelli, che dovrebbe essere la massima espressione del realismo, contiene al contrario chiari elementi di disegno utopico, almeno per l’epoca in cui è stato scritto (1513). Le cose sono sempre più complicate di come appaiono.

Oggi, a distanza di soli sei anni – questa è la questione – sarebbe sensato riproporre la stessa domanda “Utopia vs realismo?” magari rovesciandola come “Realismo vs utopia?”? Intendendosi per utopia non più la realizzazione in terra della Gerusalemme celeste, ma il cambiamento possibile verso il meglio delle sorti umane, e intendendosi per realismo non certo il sofistico “utile del più forte”, ma più semplicemente e umanamente la rinuncia a sperare in un mondo migliore. Io penso non solo che avrebbe senso, ma che è proprio questa la domanda da porsi per evitare lo scivolamento verso non solo la depressione soggettiva ma anche l’avvitamento politico verso il peggio. Il punto è vedere che cosa vuol dire, quali sono le condizioni e quali i soggetti che possono porsi il problema e lavorarci in positivo. Il punto è recuperare il senso e il gusto della progettualità politica per il futuro. La condizione concettuale è non solo che tale progettualità è possibile ma che è anche necessaria.

Sappiamo bene, siamo vaccinati, che il nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma, rovesciando in positivo l’ironia di Voltaire, possiamo dire che un po’ di Dottor Pangloss non ci può far male. D’altronde i messaggi che ci manda il mondo non sono poi così deprimenti. Putin non vince e per piegare la resistenza di un popolo eroico disposto a morire per la propria libertà e dignità è “costretto” a tentare il genocidio, di cui prima o poi dovrà pagare il prezzo. Gli Ayatollah non riescono a reprimere nemmeno con la barbarie la rivolta delle donne e dei giovani iraniani, che non sono più disposti ad accettare la santità per legge in nome anche loro della libertà e della dignità umana. La scienza e la tecnologia dell’occidente democratico dimostrano, come si è visto in questi giorni con il successo delle lunghe ricerche sulla fusione nucleare, che qui ci sono le risorse intellettuali e morali per affrontare le sfide energetiche e climatiche.

E la democrazia, sia negli USA che nella vecchia Europa, dimostra che non è affatto rassegnata alla sconfitta e tanto meno al declino. Nelle elezioni di midterme Trump e il trumpismo escono con le ossa rotte. L’Europa dimostra, nonostante tutti i limiti e tutte le contraddizioni, di avere risorse materiali, intellettuali e politiche, adeguate a non dover subire i processi e anzi a reagire con sufficiente forza e tempestività: di fronte alla pandemia, poi alla guerra di Putin, poi alla crisi energetica. E ora di fronte alla corruzione di una parte del ceto politico senza senso dell’onore e della responsabilità, incurante se non coscientemente complice dell’attacco dell’internazionale antidemocratica e teologica ai gangli vitali, istituzionali ed economici, dell’occidente.

Ecco, in questo quadro, un po’ di panglossismo positivo non farebbe male anche dalle nostre parti. Nel verso del realismo, me ne rendo conto, si rischia non il pessimismo ma la disperazione, ed è inutile elencare sia i mali del Paese che le condizioni del dibattito pubblico e, ancora, delle dinamiche politiche. Ma nel verso dell’utopia intesa come sopra non mancano elementi sufficientemente incoraggianti. Non c’è solo il fatto che, come dice Claudio Cerasa, Giorgia Meloni, alla prova delle rudezza della realtà dei compiti di governo, è costretta a rinnegare se stessa, ad esempio sulle questioni essenziali della politica internazionale; o che la politica di bilancio del ministro Giorgetti non può ignorare la logica e perfino la lettera della cosiddetta Agenda Draghi; o che la politica della giustizia del ministro Nordio, se vuole rispettare non solo gli impegni europei ma anche la pura logica della civiltà giuridica, deve rompere con il giustizialismo e adottare un riformismo garantista che spiazza oggettivamente non solo la destra più chiusa ma anche la sinistra populista e settaria. Beninteso, le origini illiberali del governo Meloni si vedono e si notano. E restano anche ostilità ideologiche nei confronti dell’Europa, si pensi a quelle verso la BCE e verso il MES.

Il punto è che a questi elementi comunque incoraggianti, anche se fossero strumentali, di un’evoluzione della destra di governo verso un certo grado di abbandono della mitologia reazionaria a favore di un realismo della complessità, non corrisponde un’analoga evoluzione complessiva delle forze di opposizione che faccia anche solo intravedere l’agognata conquista di una democrazia matura con l’abbandono dello scontro fazioso a favore di strategie alternative realmente praticabili per il futuro da costruire ora, nel fuoco del presente.

Eppure, nemmeno in linea di pura teoria e appunto con un pizzico di panglossismo, una strategia alternativa capace di contrastare quello che altrimenti potrebbe essere un possibile reale dominio di una destra ambigua sempre pronta a dare spazio a pulsioni illiberali, non è affatto da invocare con una formula magica ma solo come appello all’intelligenza e al senso politico di chi ha comunque responsabilità di rappresentanza non solo di tradizioni ma di settori rilevanti della società, di bisogni e di orientamenti ideali.

Può accadere, sensatamente, ad alcune semplici (e per questo complicatissime) condizioni. La prima: che il dibattito politico e la sanzione congressuale chiariscano che il PD, abbandonando ogni equivoco populista e giustizialista, e avendo deciso di fare i conti con la propria storia, abbandoni ogni vuota velleità di campo largo e assuma una connotazione e un ruolo di partito del socialismo europeo, un autentico partito del lavoro, disposto per questo ad allearsi con altre forze autenticamente democratiche e progressiste. La seconda: che il terzo polo, con un processo chiaro e il più possibile accelerato, si disponga ad essere il cantiere del riformismo italiano, aperto alla convergenza della vasta e variegata area di esperienze riformatrici che oggi non hanno coerente ed esplicita rappresentanza. La terza: che il civismo riesca a organizzarsi in Federazione Civica Nazionale, cosicché abbia la forza e la credibilità per porsi come soggetto politico autonomo che in dialogo programmatico e politico con il terzo polo costruisce le condizioni per la formazione di un partito riformista e contribuisce poi a realizzare il patto federativo delle forze di progresso del Paese.

A ben vedere ce n’è anche una quarta: toglierci tutti di torno quel motto di comodo, banale e insensato, che in molti hanno fatto proprio e che si sente dire troppo spesso: “Primum vivere, deinde philosophari”. Questa infatti non è l’epoca della rinuncia al pensiero, ma semmai al contrario l’epoca della priorità del pensiero, del sapere critico che ridefinisce le priorità e le strategie umane della sopravvivenza e di quello che un tempo si chiamava progresso. È il tempo della reazione ai pericoli di decadenza, in cui non è consentita la stanchezza mentale, accontentarsi di un Paese in bilico e di una politica come rincorsa al consenso, dimentica del rapporto tra il dire e il fare e alla fine specializzata nell’arte della provvisorietà e dell’inganno.

È da questa consapevolezza che forse si può far partire il percorso per l’alleanza delle forze riformatrici sulla base di un Progetto-Paese da costruire insieme, come detto, con un patto federativo e da realizzare con un’azione politica coerente. Rinnovando in profondità anche metodi e composizione della classe dirigente. Potrebbe essere questa la via di un’alternativa credibile e dunque finalmente anche della fondazione di una democrazia matura, che sappia ritrovare la propria vitalità in una spinta alle riforme drammaticamente necessarie e oggi impantanate in piccoli giochi spesso irresponsabili.

In fondo si tratterebbe di prendere in prestito da Voltaire in positivo solo un pizzico dell’ironica fiducia del Dottor Pangloss nelle forze progressive del mondo.

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