“Verba volant, scripta manent”.
Ce lo ripetevano spesso come un invito alla serietà e alla attenzione soprattutto nelle materie e nelle situazioni importanti e a cui si teneva.
Si prospettava così un mondo in cui le parole parlate erano volatili, potevano facilmente essere dimenticate o smentite o reinterpretate in maniera differente.
Ad esse si contrapponevano i documenti scritti, destinati a restare per sempre come citabili e a non poter essere nascosti o contestati.
Sempre di parole, in realtà, si trattava ma si modificava il supporto.
Da una parte una momentanea ed irripetibile vibrazione dell’aria che restava affidata soltanto al ricordo, non necessariamente oggettivo, di chi l’aveva “registrata” nel momento dell’emissione.
Dall’altra un supporto materiale, generalmente cartaceo, destinato a mantenere la propria forma e la leggibilità tendenzialmente in perpetuo.
Questa divisione conferiva alla “parola parlata” una dimensione tendenzialmente più leggera ed innocua.
Le parole potevano essere anche offensive e sgradevoli ma la loro gravità poteva essere limitata dall’ambito e dal momento in cui erano state formulate.
Una volgarità inaccettabile in altri momenti poteva essere vissuta come normale, quando non inevitabile, durante un incontro goliardico.
D’altra parte questa “assenza di potenza” si applicava facilmente anche alle espressioni amorose o comunque tendenti all’affetto o all’accordo.
Frequentemente, nei momenti di crisi interpersonale, si rimproverava all’ex partner (come all’ex socio) di avere scordato quanto in precedenza affermato con vigore.
Insomma, la caratteristica di “documentabilità” tipica della parola scritta le attribuiva un valore e una potenza nettamente superiori.
Tutto ha iniziato a cambiare con la digitalizzazione e, soprattutto, con la facilità di accesso e riproduzione che hanno fatto seguito all’avvento e alla diffusione della Rete.
Di colpo l’espressione verbale ha perduto la labilità che per millenni la aveva caratterizzata per eternizzarsi perdendo il diritto a scomparire.
Soprattutto è scomparso il concetto di “originale” applicato alla registrazione del momento in cui l’espressione verbale è stata emessa.
Le copie, salvo espliciti interventi di falsificazione, sono autentici quanto la prima.
Nulla, dunque, va perduto e andrà più perduto.
Non sempre questa novità risulta gradita al protagonista.
Dubito che Matteo Salvini sia felice del fatto che YouTube lo ospiti ancora mentre canta “… senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani” definiti poi come “colerosi terremotati” (https://www.youtube.com/watch?v=4ATEHhCbDpo).
Soprattutto non credo che lo consoli il fatto certo che migliaia di persone hanno riprodotto e conservato il documento di quella esibizione sottraendolo per sempre a qualunque censura o rimozione.
Nel passaggio che stiamo vivendo dalla comunicazione di pochi verso molti a quella di “molti verso molti” si potrebbero dunque cogliere diversi aspetti di liberalizzazione e, perché non, anche di nuove opportunità offerte all’esercizio della giustizia.
Tuttavia, a ben vedere, la questione (a parte la simpatica chiarezza del caso citato) si fa assai più complessa.
Nei giorni scorsi un uomo che ha appena vissuto l’uccisione di una figlia da parte di un altro uomo ha visto emergere dal suo passato elettronico espressioni, nate e usate in tutt’altro contesto, che hanno provocato critiche ed accuse molto pesanti.
Un certo numero di “leonesse da tastiera” ha sostanzialmente affermato che anche le sue giovanili volgarità antifemminili che qualcuno era andato a ripescare in Rete avevano contribuito, sia pure in millesima parte, alla costruzione di quella orribile cultura paternalistica che sarebbe stata il retroterra teorico dell’omicidio.
Ora, a parte il cattivo gusto dell’operazione, la vicenda pone alcune questioni importanti con le quali dovremmo forse iniziare a paragonarci.
Tutti noi abbiamo, nel corso del tempo, pensato, detto e sostenuto delle cose che oggi non ci renderebbero orgogliosi di esserne stati gli autori.
Parlo, ovviamente, di comportamenti che non hanno danneggiato direttamente alcuno e che non hanno avuto alcun possibile riscontro di tipo giudiziario.
Essi stanno, abitualmente, chiusi in un dimensione interiore da cui possono essere estratti solo dal protagonista e per i fini che egli si propone.
Io personalmente non ripeterei mai degli slogan che ho usato nelle giovanili manifestazioni di dissenso politico, ma sono disponibile a riesumarli velocemente per dimostrare quanto siano stati stupidi e talvolta anche dannosi.
Lo farei, se servisse, anche a costo della cattiva figura che seguirebbe.
Ma cosa succede se e quando quei comportamenti, resi indistruttibili e replicabili all’infinito, diventano accessibili a chiunque e comunicabili per finalità che non corrispondono alla volontà degli autori?
Dove si colloca il diritto a cambiare e a superare anche gli eventuali errori commessi, invocando il sacrosanto diritto all’oblio?
Ma soprattutto: da cosa deriverebbe il presunto diritto di chi ripropone all’attenzione del mondo esterno dei comportamenti che oggi il protagonista non condivide più e ha superato?
È stato scritto autorevolmente che la colpa non espiata ti insegue sino alla tomba.
Si tratterebbe sempre, però, di un processo tutto interiore che non può essere affidato a carnefici autonominatisi tali per proprie autonome finalità.
Si prospetta davanti a noi una sorta di folle Far West.
La Giustizia formale si basa sul fatto che in assenza di giudizio un “reato” non esiste e comunque che, una volta scontata la pena irrogata, il conto è pareggiato e l’eventuale reato è da considerarsi estinto.
La giustizia “fai da te” (che per fortuna agisce ancora su comportamenti non perseguibili) è portata a pensare che nulla si estingue e che l’eventuale giudizio su un individuo può sempre essere riportato a un determinato momento negando di fatto il diritto ad essere dimenticati, salvo autonoma decisione contraria..
Si dirà che questa dinamica tra “formale” e “fai da te” è stata in fondo sempre presente e attiva soprattutto nelle piccole comunità in cui ci si conosce tutti.
Qui persino l’errore di un avo poteva essere conservato e ribaltato sui suoi incolpevoli successori.
Ma la novità attuale è il carattere di universalità di questa tendenza e, soprattutto, il fatto che oggi essa veda impegnate persone che non si conoscono affatto tra loro, non hanno rapporti di natura operativa e non stanno proteggendo una comunità piccola o grande che essa sia.
Del resto la facilità di conoscenza che oggi sembra sostituire il vero rapporto tra le persone giustifica in apparenza questa situazione.
Al posto del complesso processo di riconoscimento tra due persone si adopera un cammino biunivoco nelle auto – rappresentazioni di ciascuno.
Si tralascia ed abbatte quel fattore di interattività reciproca, di modificazione immediata e vicendevole che caratterizzava sinora qualunque incontro.
Al suo posto sembra prevalere una pretesa oggettività fondata proprio sulla nono conoscenza effettiva.
Ci dimentichiamo, insomma, che è proprio l’atto di vera conoscenza, destinata a crescere o meno caso per caso, a definire effettivamente l’essere umano impegnato.
Beh, a ragionare in gennerale ci siamo scordati del povero Salvini.
Diciamo che la vera variabile nel suo caso consiste nel suo essere un personaggio pubblico e, soprattutto, nell’avere sempre usato spregiudicatamente la comunicazione via WEB con lo scopo di attirare attenzione e consensi.
Insomma, da lui potremmo aspettarci che chieda scusa per le volgari stupidaggini che ha detto e che di conseguenza ci chieda di impegnarci tutti a dimenticarcene per sempre.
Non so, ovviamente, se deciderà di farlo.
Quello che però è chiaro è che quel motto “Verba volant, scripta manent” mantiene tutto il suo valore, almeno in alcuni casi.
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