Podcast n. 133
Per l’Italia, che rischia il “vaso di coccio”, una sola via: senza ambiguità in Europa
Stefano Rolando
Versione podcast
Versione scritta
L’agguato a Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca – episodio che Enrico Mentana ha efficacemente descritto come il trattamento riservato al malcapitato “da due strozzini” – si iscrive nella lunga storia di violenza che è parte strutturale dell’evoluzione della specie umana che si estende, quando è tale, anche negli interstizi dei conflitti chiamati “diplomazia”. La diplomazia è regolata da cerimoniali rigidi, che limitano i linguaggi, circoscrivono il confronto, puntano a fissare un fattore più avanzato degli equilibri senza spargimento di sangue.
Nell’agguato alla Casa Bianca a Zelensky, anche l’abituale codice diplomatico con annesso cerimoniale è saltato. Un dettaglio rivelatore è stato che, tra i giornalisti ammessi, uno (giornalista per modo di dire, un podcaster con il titolo di fidanzato di una deputata trumpiana) a un certo punto lo abbiamo sentito intervenire con una domanda davvero acuta. Ha chiesto beffardamente al presidente ucraino se lui ha “un abito normale” da mettere in un’occasione come questa. Zelensky – che anche in questo caso, come in tutto l’incontro, non ha perso il suo codice d’onore – gli ha risposto che lui ce l’ha e lo metterà, deponendo la divisa militare, quando la guerra sarà finita.
Anche se le cronache del “giorno dopo” introducono dettagli sull’intera vicenda alla Sala Ovale, durata una quarantina di minuti, che contengono anche una fase più sciolta del colloquio e persino aspetti di insistenza da parte di Zelensky sull’inaffidabilità e la perniciosità di Putin che hanno innervosito Trump artefice di una pace che probabilmente per lui passa per una disinvolta riscrittura della storia, i media occidentali per lo più se non usano la parola “agguato” usano la parola “trappola”. Dunque, i caratteri della vicenda sono ormai inquadrati nel paradigma che Ezio Mauro ha spiegato in tv secondo cui l’avversione alle regole e alle forme della democrazia liberale
– che appartiene tanto a Putin quanto a Trump – diventa il motore di comportamenti autoritari, di cancellazione della storia e di consacrazione del potere esercitato azzerando ogni dialettica.
A cosa stiamo assistendo?
La stessa storia americana si ribalta senza precedenti.
Ricordandoci che il presidente degli Stati Uniti che mise in movimento la rabbiosa reazione degli stati schiavisti del sud era Abramo Lincoln, che apparteneva al partito repubblicano e che era fermamente intenzionato all’abolizionismo. Questo perché era capace di interpretare lo sviluppo industriale americano e di mandare in archivio l’economia disumana e violenta dei cotonieri e degli agricoltori schiavisti del sud.
Già, la guerra civile. Durata cinque anni, quelli in cui in Italia si compiva l’unità nazionale, da Garibaldi che risaliva la penisola liberata al consolidamento delle esperienze di democrazia unitaria della metà degli anni ’60 dell’Ottocento.
Guerra civile con 365 mila morti per i nordisti (un’enormità di civili uccisi, dati i soli 140 mila morti in battaglia; e con 260 mila morti per i sudisti anche qui con i civili quattro volte vittime, dati i 72 mila morti in battaglia; dunque, in tutto 625 mila morti ufficiali che gli storici di recente hanno rivalutato in oltre 700 mila).
Guerra che ha segnato profondamente l’identità americana che solo la versione diciamo concessiva verso i confederati del più famoso e più premiato film del cinema americano, Via col vento, ci restituisce con caratteri per così dire romantici, ma che fu una carneficina rivelatrice di un dualismo mai sopito.
Qualcuno ricorderà la battuta centrale del faccendiere simpatico e seduttivo, certo non un aristocratico, interpretato da Clark Gable, che, nella famosa scena del ballo, dice: “Chi ha coraggio fa anche a meno della reputazione”.
Anche se Trump avesse in questa occasione un briciolo di argomentazione strategica riguardo allo schema che intende adottare per portare Putin realmente al tavolo di una trattativa equilibrata (c’è chi lo sta sostenendo, anche da noi), la conduzione del rapporto, suo e del suo vice Vance, con Zelensky, rappresentante di un paese e di un popolo riconosciutamente invaso – a metà di disprezzo e di rimprovero per non essersi inginocchiato e a metà di rapina rispetto ai suoi propositi – è la cifra della trasformazione antropologica della politica americana. Come ha scritto sul Post Francesco Costa: “Zelenski bullizzato da Trump e Vance a favore di telecamere”.
Questa trasformazione pone ora interrogativi al mondo che vanno al di là del posizionamento di destra e sinistra. Esattamente come fu lo scontro in cui si misurò la guerra civile americana a metà Ottocento.
Intanto – lo schema plateale di Trump di convincere lo zar di fargli fiducia per chiudere la guerra in Ucraina (che per Trump significa anche un patto con una Russia più sganciata dalla Cina e antieuropea) – fa intitolare ora (per esempio Rampini sul Corriere) che per adesso il vincitore dello scontro nella Stanza ovale è appunto Putin.
Ma non c’è solo l’Europa in campo. C’è un oggettivo positivo riavvicinamento inglese all’Unione europea (non sono un caso le immagini di accostamento di Churchill a Zelensky che si sono diffuse in rete in questi giorni). Starmer ha convocato immediatamente una sorta di vertice occidentale, NATO compresa e Zelenski presente. C’è l’India, cioè la più grande forza demografica del mondo, con la sua storia di indipendenza. C’è la Cina, con la sua insofferenza malcelata per lo sdoganamento del putinismo che profila problemi per l’idea perseguita da Pechino di una ulteriore espansione economica non disturbata da eccessi di conflitti militari. Ci sono i paesi “tenaglia geografica” con gli USA, come il Canada e il Messico, che hanno mostrato una forte reattività all’imperialismo verbale di Trump. Insomma, con l’Europa occidentale per intero, c’è quasi tutto il mercato estero delle imprese americane.
E poi c’è la forza intrinseca degli Stati Uniti d’America che va al di là degli ultimi esiti elettorali che, se si cede all’etica del saloon e di chi spara per primo, porterà forse a casa a compenso degli aiuti le terre rare ucraine piene di litio ma si gioca proprio la reputazione civile conquistata nel Novecento, varie volte messa a rischio, ma ora in condizione di cambiare i ranking internazionali sui primati nella conoscenza, nella scienza, nel sistema universitario, nella cultura, nel diritto.
È una partita immensa rispetto alla quale non dobbiamo farci troppe illusioni, ma senza gettare la spugna dello smarrimento.
Perché la soglia dell’involuzione formale corrisponde a un rischio calcolato da parte del presidente americano e della sua squadra che ora schiera anche i capitalisti digitali che hanno un punto di vantaggio nell’economia globale di traino del mondo. E anche perché muovendosi ora i tre maggiori protagonisti della politica mondiale (Russia, Cina e purtroppo USA) in logiche autoritarie e di
disprezzo della “fatica della democrazia” , la posizione dell’Europa, già militarmente insufficiente e istituzionalmente fragile, diventa anche politicamente meno efficace.
Siamo obbligati a immaginare che sia possibile una rielaborazione degli eventi, senza troppa retorica, con una progettazione scientifica delle opportunità, diciamo con il metodo che Mario Draghi ha profilato attorno al tema cruciale della competitività, in una forma unitaria da parte degli europei.
Ed è questo anche il banco di prova per la premier italiana che potrebbe capire che la storia offre una possibilità di messa a fuoco del suo tentennante cambiamento, ora però senza ambiguità. Pena una maggiore evidenza di diventare il famoso “vaso di coccio”, proprio quello raccontato da Esòpo come esempio di non saper decidere a fronte dei prepotenti che ti circondano. Le prime reazioni di Giorgia Meloni sono caute, orientate a ricucire, ma il posizionamento dell’Italia non risponde solo a fattori umorali. La reattività che serve non è solo quella delle armi. Ma anche quella delle strategie complesse, che vedono lungo e che lavorano sugli adattamenti mantenendo però chiarezza sulle appartenenze.
Così che a scopo un po’ consolatorio e comunque per continuare i paragoni, viene in mente per concludere un’altra battuta del personaggio interpretato da Clark Gable nell’ormai discutibilissimo Via col Vento che a un certo punto dice: “Ho sempre avuto un debole per le cause perse, quando sono proprio perse”.
E con queste parole, infatti, si arruola con i confederati. E, per l’appunto, perde.
Commenti
Una risposta a “Via col vento”
Nella versione scritta, il giorno dopo questa preliminare registrazione, ho aggiunto un post-scriptum che mi sembra giusto trascrivere qui, nel quadro di una discussione pubblica che si va allargando.
Post scriptum
Lunedi 3.3.2025
Un diluvio di commenti tra ieri e oggi. Il podcast è in uscita domani, martedì 4 marzo.
Per la versione scritta, con accesso al blog da lunedì 3 marzo, aggiungo qualche spunto.
L’accenno fatto alle tesi contrapposte che in rete stanno formando due vere e proprie “tifoserie” obbliga a riflessioni sul rapporto ormai tra politica e scatenamenti digitali.
Inutile qui entrare troppo nei dettagli. C’è di tutto, dai meme, alla perlustrazione della videoregistrazione più lunga, da intuizioni a manipolazioni.
Appare evidente che il punto fortemente sostenuto da Zelensky sulle garanzie per la sicurezza “dopo” gli eventuali accordi ha scombussolato il piano della Casa Bianca di fare qualche formalismo, portare a casa l’accordo sulle “terre rare” e intascare la sottomissione del presidente ucraino un po’ a “favore di telecamere” – come del resto lo stesso Donald Trump alla fine dell’incontro mica tanto ingenuamente dice (“Bello spettacolo televisivo!”) – un po’ per guadagnare fiducia in Trump sulla rapida celebrazione della pax americana.
Ma le critiche anche occidentali a Zelensky per “mancanza di realismo”, “egocentrismo attoriale”, eccetera non fanno i conti sull’orgoglio di un resistente che si è anche umiliato per tre anni per mettere insieme gli aiuti necessari per tenere in bilico la guerra di invasione che puntava dritto su Kiev, altro che sul Donbass. E quindi sull’estremo diritto di firmare solo una volta chiarite le garanzie per il dopo. Cosa che gli europei – tutti – nella formidabile convocazione a Londra fatta da Keir Starmer hanno capito benissimo e approvato.
Lo ha capito anche re Carlo III che mette in campo la reputazione mondiale della sua istituzione per facilitare una ricomposizione che vale molto anche per l’Europa e che può avere più successo di posizioni per così dire irate dall’Unione europea.
Dunque, il passaggio inglese vale molto, anche per il dopo e anche per il futuro della UE.
Quanto al ruolo di J.D. Vance che appare nel copione della Casa Bianca come quello che svolge tra i russi la parte di Dmitrij Anatol’evič Medvedev, vicepresidente del consiglio di sicurezza russo e già presidente della Federazione russa, nelle riunioni al Cremlino (quello che sull’onda dello “scandalo” della Casa Bianca ha detto “quel maiale di Zelensky”) che abitualmente fa il super-duro aggressivo, per consentire allo zar una posizione di “mediazione” ovvero più “morbida”, ebbene qui – qualche commento c’è stato al riguardo – è anche in funzione di un contenimento di immagine del più estremista comunicatore della Casa Bianca che è attualmente Elon Musk che in queste ore sta urlando il “necessario ritiro degli USA dall’ONU e dalla NATO”. Insomma, nell’andante sempre più impetuoso del copione c’è da mettere anche questo fattore interno che il vicepresidente USA, per ora un po’ in ombra, ha messo in atto per regolare i suoi conti.
Infine c’è una rémarque che non ho fatto nel podcast, pur avendola pensata dal primo istante, naturalmente con il pensiero al film americano “Il padrino”, famoso film del 1972 di Coppola con Marlon Brando nella parte di Vito Corleone, ma per noi italiani soprattutto con il pensiero alle lezioni sugli aspetti simbolici dei comportanti mafiosi che ci dato “scientificamente” Giovanni Falcone, che ora aggiungo qui. E ciò il tema messo in campo dal terzetto americano alla Casa Bianca (oltre a Trump e Vance anche Rubio) che riguarda l’inadeguato inginocchiamento del convitato, cioè il preteso mancato “rispetto” di fronte all’autorità di una “Capo” per definizione. È un passaggio che rivela molte cose e rispetto al quale la tenuta emotiva di Zelensky va considerata eroica.