Le dimissioni del quinto governo Moro e la fine della legislatura
Bruno Somalvico
Direttore editoriale di Democrazia futura
Con un sesto contributo dedicato a “La ricerca di equilibri più avanzati nel sistema politico e in quello della comunicazione” si conclude la ricostruzione dei quattordici mesi che caratterizzano una sorta di intermezzo, ovvero di transizione fra l’approvazione della legge di riforma della Rai che ribadisce sostanzialmente il monopolio del servizio pubblico e l’inizio della fase di cosiddetta a regulation di un sistema radiotelevisivo misto che una terza Sentenza della Corte Costituzionale inviterà a disciplinare dopo aver stabilito la legittimità per l’emittenza privata di trasmettere anche su reti terrestri, purché l’area di copertura del segnale non superi la dimensione locale. In questo testo Somalvico, una volta stabilite “Le dimissioni del quinto governo Moro e la fine della legislatura” e dopo aver evidenziato il carattere del tutto particolare de “La campagna elettorale in un clima di guerra civile ideologica strisciante”, torna sul tema della “questione radiotelevisiva” che rimane “al centro dell’attenzione durante la campagna elettorale”. mentre continuano gli episodi di sequestro degli impianti delle nuove emittenti e la Corte Costituzionale il 3 giugno “inizia il dibattimento sulla legittimità delle emittenti private”. Il contributo si conclude soffermandosi da un lato su “La netta affermazione del Partito Comunista alle elezioni legislative del 20 e 21 giugno 1976 … e, dall’altro su “… le sue conseguenze sul quadro politico verso la formazione dei governi di unità nazionale”, aprendo una nuova stagione alla ricerca per l’appunto di equilibri più avanzati sia nel sistema politico sia nel mondo dell’informazione e della comunicazione radiofonico a televisiva.
Con molti partiti profondamente divisi sulle strategie politiche e anche al loro interno e di fronte a rischi di sviluppi clamorosi dell’inchiesta da parte del Tribunale dei Ministri, il 26 aprile si svolge un delicato confronto politico alla Camera. Socialdemocratici e repubblicani respingono l’ipotesi di tornare ad una maggioranza centrista come all’inizio della legislatura, mentre il PLI auspica una svolta a destra dell’esecutivo. I socialisti dichiarano che si limiteranno a prendere atto della situazione e a decidere di conseguenza. Nel suo intervento, contrariamente alle aspettative, Aldo Moro non prende atto di non disporre più di una maggioranza. Il presidente del consiglio, già al centro di polemiche per aver favorito l’elezione di Fanfani alla presidenza del consiglio nazionale DC, chiede a sorpresa di poter continuare l’esperienza di governo, se necessario allargando la maggioranza fino al PCI, e di accettare la soluzione delle elezioni quando anche questa possibilità sarà esclusa. Il 30 aprile, preso atto dell’impossibilità di un accordo con le altre forze della vecchia maggioranza di centro sinistra dopo quattro giorni di dibattito alla Camera dei deputati, Aldo Moro sale al Quirinale rassegnando le dimissioni del suo quinto governo.
La campagna elettorale in un clima di guerra civile ideologica strisciante
L’indomani in effetti dopo un rapido giro di consultazioni il Presidente della Repubblica Giovanni Leone firma il decreto di scioglimento delle camere. Inizia una fra le più infuocate campagne elettorali per il rinnovo del Parlamento. A quasi due anni dall’avvio della stagione dei Centofiori che segue la vittoria referendaria sul divorzio, in un clima di grandi attese soprattutto da parte delle sinistre, inizia una delle campagne elettorali più delicate, subito funestata sin dal 6 maggio da un terremoto di rara violenza che si scaglia sul Friuli con 6,3 di magnitudo secondo la scala Richter colpendo una vasta zona dell’Italia nord-orientale.
Mentre in Spagna a pochi mesi dalla scomparsa di Francisco Franco, l’inizio il 4 maggio 1976 delle pubblicazioni deEl Pais che nel giro di due anni diventerà il quotidiano più venduto a Madrid, conferma l’avvio di una nuova stagione di rapida transizione verso un regime democratico e pluralista anche sotto il profilo dell’informazione, l’Italia fra terremoti, scandali politico finanziari, accuse di cospirazione nei confronti di Capi di Stato, arresti e comunicazioni giudiziarie per presunti tentativi di golpe, vive una campagna elettorale con toni esacerbati che ricordano per certi versi i toni da crociata e gli anatemi lanciati all’inizio della guerra fredda nelle elezioni del 1948[1].
Colpisce particolarmente l’attacco del quotidiano della Santa Sede – con l’avallo del Pontefice – nei confronti di quei cattolici del dissenso che decidono di presentarsi come indipendenti nelle liste del PCI[2]. Il 14 maggio l’Osservatore Romano pubblica un breve corsivo nel quale sostiene che alle elezioni gli italiani dovranno scegliere tra democrazia e dittatura. Raniero La Valle, già fatto oggetto di critiche dalla Santa sede, sempre nello stesso giorno sostiene che si può essere cristiani e marxisti senza cadere in contraddizione. Anche le Acli scendono in campo insieme alle comunità di base il 28 maggio a difesa della legittimità del pluralismo sociale e politico dei cattolici contro l’obbedienza cieca alla gerarchia. Eppure siamo davvero lontani dal 14 aprile 1948. Nel 1975 l’Accordo di Helsinki ha segnato una nuova fase della guerra fredda. il Partito Comunista, nei confronti dei cui esponenti il candidato democratico alla Presidenza degli Stati Uniti Jimmy Carter dichiara che non avrebbe alcun problema a trattare, cerca di rassicurare l’Occidente. Riunendo in previsione del voto il proprio Comitato Centrale dall’11 al 14 maggio, Enrico Berlinguer accantona la proposta di un compromesso storico in favore di una coalizione democratica aperta fra tutti i partiti dell’arco costituzionale, trovando l’indomani il sostegno del segretario socialista Francesco De Martino, mentre viene respinta da DC, PSDI e PRI e anche dai liberali[3]. Ma ciò non impedisce un clima da guerra civile ideologica strisciante segnato non solo da violenze verbali ma anche dai primi omicidi politici[4] e attentati terroristici[5] a cui alcuni storici fanno risalire l’inizio dei cosiddetti anni di piombo.
La questione radiotelevisiva al centro dell’attenzione durante la campagna elettorale
Il 30 aprile 1976, lo stesso giorno il cui Aldo Moro rassegna nelle mani di Leone le dimissioni del suo quinto governo, Il ministro Giulio Orlando comunica alla Commissione parlamentare di vigilanza il proposito del Governo di chiudere le stazioni radio sorte di recente in Italia e di disturbare sistematicamente, con appropriati mezzi tecnici, le emittenti televisive straniere captate dagli utenti italiani. Dovranno essere disattivati i ripetitori non adeguati alle norme tecniche, mentre per tutti gli altri impianti il Governo si propone di far rispettare la legge che vieta la diffusione in Italia di messaggi pubblicitari imponendone l’oscuramento. Un appello che naturalmente anche questa volta cadrà nel vuoto. Dieci giorni dopo, il 10 maggio 1976 Il pretore Guglielmo Palmeri attua prontamente le disposizioni del ministro Orlando contro le radio private, disponendo la chiusura di quattro emittenti napoletane: Radio Napoli City, Radio Antenna Capri, Radio Napoli Prima e Radio Elle. Tre giorni è la volta del Veneto, dove i vescovi intendono dar vita a radio diocesane in tutto l Regione. Il 13 maggio 1976[6], appena costituita, Radio Piave, emittente appartenente alla diocesi di Belluno, su denuncia dell’Escopost di Mestre è posta sotto sequestro dal pretore per inadempienze legali. I settimanali cattolici diffondono una nota in cui rivendicano il diritto dei cattolici di avere propri strumenti di comunicazione sociale. La Rai e il Ministero fanno quadrato intorno alle decisioni pese da un governo dimissionario, destinato a rimanere in carica sino alle elezioni unicamente per il disbrigo degli affari correnti. Il 17 maggio Il Presidente della Rai Beniamino Finocchiaro in un’intervista denuncia che
“In Italia operano, in condizioni di illegalità e pirateria, 600 stazioni radiofoniche e qualche decina di emittenti televisive private via etere. Il nostro è l’unico paese in tutta l’Europa democratica occidentale a tollerare questo stato di anarchia”.
Per parte sua, il Ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni Giulio Orlando replica a Finocchiaro: in occasione della ottava giornata delle telecomunicazioni, che si celebra lo stesso giorno in Campidoglio, il ministro Orlando, dopo aver annunciato l’avvento in Italia della televisione a colori, definisce il senso della propria politica nei confronti delle emittenti private precisando che
“…non si tratta di fare la guerra alle radio libere indiscriminatamente, ma di intervenire contro la fungaia di emittenti e, soprattutto, su chi disturba i servizi e occupa frequenze destinate ad altri tini (servizi pubblici, come ad esempio l’assistenza al volo), disciplinando il fenomeno”.
Il 3 giugno 1976 al Palazzo della Consulta, a Roma si tiene la prima udienza per discutere il diritto all’esistenza delle emittenti libere in rapporto alle leggi vigenti sul monopolio radiotelevisivo. Per la RAI intervengono Paolo Barile, Alessandro Pace e Emanuele Santoro; per le private Giuseppe Guarino; per l’Avvocatura dello Stato Giorgio Azzariti. Si esaminano le dieci ordinanze di rinvio, inoltrate da altrettanti pretori, che hanno denunciato varie norme del DPR 29 marzo 1973 n. 156 e del la legge 14 aprile 1975 n. 103. Le ordinanze, collegandosi alla motivazione della sentenza n. 226 del 1974, affermano che è ingiustificato e lesivo del diritto di tutti i cittadini alla libera manifestazione del pensiero il divieto opposto ai privati di impiantare ed esercitare stazioni locali a raggio limitato, essendone i costi relativamente modesti e non esistendo, quindi, pericolo di formazione di oligopoli privati. La Corte Costituzionale inizia il dibattimento sulla legittimità delle emittenti private chiarendo in partenza il perimetro dei problemi:
“La questione che dieci pretori di diverse città hanno portato all’esame della corte riguarda alcuni articoli della legge di riforma. La legge afferma che sono riservati allo Stato, che l’ha dati in concessione alla Rai, tutti i servizi di telecomunicazioni eccetto gli impianti di TV via cavo locali (per i quali è però necessaria l’autorizzazione) e i ripetitori privati di programmi nazionali e stranieri. L’articolo 1 dice che è riservato allo Stato il servizio di ‘diffusione circolare di programmi radiofonici via etere e di programmi televisivi via etere’ senza la specificazione ‘su scala nazionale’ citata invece per la diffusione di programmi via cavo. La mancata specificazione che il servizio pubblico è quello su scala nazionale sarà alla base della discussione della Corte Costituzionale, così come la definizione di ‘circolare’ per quanto riguarda la diffusione dei programmi radiofonici. Infatti, per molti pretori che hanno rimesso gli atti alla Corte le radio private non hanno impianti ‘circolari’, poiché irradiano le loro trasmissioni localmente, a raggio limitato, e perciò non contrastano con il monopolio e con la legge”
L’indomani 4 giugno 1976 Il direttore centrale del Ministero delle Poste, Alfredo Valletti Borgnini, firma una lettera di diffida per sette radio private che interferiscono sui canali di trasmissione della RAI. Le radio sotto accusa sono: Radio Milano International, Radio Città futura di Roma, Radio Brasilia e Rama Sound di Cagliari, Radio Prato, Radio Saxon di Novi Ligure e Radio Elle di Chieti.
Il 9 giugno infine si costituisce il Coordinamento romano emittenti democratiche (CRED). Vi aderiscono tra le altre: Radio Radicale, Radio Città Futura, Radio Blu. Viene diffuso un comunicato in cui si afferma la solidarietà con le radio colpite dalla diffida ministeriale. Le emittenti aderenti al CRED cercano nuove forme di cooperazione e auspicano una opportuna regolamentazione della “mappa delle frequenze”.
La netta affermazione del Partito Comunista alle elezioni legislative del 20 e 21 giugno 1976…
Le elezioni per la settima legislatura per la prima volta vedono la partecipazione al voto dei diciottenni. La DC rimane il partito di maggioranza relativa con il 38,71 per cento dei voti alla Camera pur in lievissima crescita (+ 0,05 per cento), conquista 262 seggi perdendone 4, seguita dai comunisti che ottengono il loro massimo storico con il 34,37 per cento (+ 7,22 per cento) e 228 seggi, conquistandone 49. Delude il risultato dei socialisti, stabili al 9,64 per cento (+0,03 per cento) che ottengono 57 seggi perdendone 4. Il MSI si conferma quarta forza politica nazionale, ma scende al 6,1 per cento (-2,57 per cento) e 35 seggi, perdendone 21. In calo anche i socialdemocratici al 3,38 per cento (- 1,76 per cento) praticamente dimezzati essendo scesi a 15 seggi e perdendone 14, ormai tallonati dai repubblicani al 3,09 per cento (+ 0,23 per cento) e 14 seggi perendone uno. All’estrema sinistra Democrazia Proletaria conquista l’1,52 per cento e 6 seggi, precedendo i liberali che perdono quasi tutti i loro consensi conquistando solo l’1,31 per cento (-2,57 per cento) e solo 4 seggi perdendone ben 15. Nel parlamento entrano anche 4 esponenti del Partito Radicale che ottiene l’1,07 per cento.
Dal risultato elettorale il grande vincitore risulta il partito comunista, i grandi sconfitti i socialisti, e gli altri partiti laici, fatta eccezione per i repubblicani, unitamente ai missini. Il partito socialista di De Martino, dopo una campagna per l’alternativa di sinistra alla DC ottiene il risultato elettorale più basso di sempre mai raggiunto dal PSI, ovvero, con le stesse percentuali conseguite alle elezioni politiche precedenti nel 1972, il punto più basso di sempre mai raggiunto dal partito, accusando un’imprevista flessione negativa rispetto al precedente turno di elezioni amministrative. Lo squilibrio elettorale fra PSI e PCI sfiora il 25 per cento.
…e le sue conseguenze sul quadro politico verso la formazione dei governi di unità nazionale
Con questo rapporto di forza fra i due principali partiti della sinistra, pur essendo numericamente possibile una maggioranza di alternativa di sinistra comprendente i socialdemocratici e i repubblicani, i risultati del voto, spianano la strada ai governi di unità nazionale che verranno percepiti nell’opinione pubblica come l’incontro di compromesso storico fra DC e PCI. Alcuni politologi intravedono, dietro al voto, nonostante, l’ulteriore frammentazione del quadro parlamentare, la conferma della tendenza che andrebbe verso la formazione anche in Italia di quello che Giorgio Galli sin dal 1996 definiva il cosiddetto “bipartitismo imperfetto”.
Le elezioni dl 20 giugno 1976 sull’onda del successo delle amministrative dell’anno precedente sembravano per la prima volta dal dopoguerra preludere ad una svolta politica, se non ad un’alternativa di sinistra comunque ad uno scongelamento dei voti comunisti essendo da tutti giudicata ormai logora la formula dei governi di centro-sinistra. Anziché ad un’alternativa politica costruita sui una maggioranza del fronte laico divorzista, invece il Partito comunista di Enrico Berlinguer fa di tutto per rafforzare il dialogo con il partito cattolico uscito sconfitto dai quesiti referendari e dalle amministrative. Così facendo il Partito Comunista si pronuncia a favore dei governi di unità nazionale, partecipando a tutti gli effetti ad un rafforzamento del consociativismo, ovvero ad un sistema ben diverso dalla cosiddetta democrazia dell’alternanza sperimentata in gran parte dei Paesi occidentali a cominciare dagli Stati Uniti e dal Regno Unito.
In quindici anni di governo con la DC, i socialisti hanno a poco a poco perduto un terzo del loro elettorato: nel 1963 erano quasi al 14 per cento, tredici anni dopo nel 1976 si ritrovano a poco più del 9 per cento. L’ennesima delusione per i risultati elettorali apre una dura resa dei conti ai vertici del PSI che si conclude nell’estate del 1976 con l’ascesa al potere di una nuova leva di dirigenti, i “colonnelli” stretti intorno al nuovo segretario Bettino Craxi.
Assorbiti dalle loro vicende interne, all’indomani delle elezioni i socialisti scelgono dunque la via del disimpegno privando la DC di una maggioranza parlamentare che PLI, PRI e PSDI tutti insieme non sono in grado di assicurare. Da sola la DC non può governare, anche se malgrado gli scandali ha avuto un buon risultato. Lo spettro dell’anticomunismo, agitato per tutta la campagna elettorale con enfasi che ricordava la campagna elettorale del 1948 e l’accorato invito di Indro Montanelli a votare DC anche turandosi il naso, sono serviti a persuadere tanti elettori infedeli a ritornare sui loro passi. Si evita così il tanto temuto sorpasso da parte del PCI che però continua a salire e ormai sfiora il 35 per cento contro il 38,2 per cento della DC.
“All’indomani dal voto – osserva Simona Colarizi –il partito cattolico è costretto a far appello proprio al suo avversario storico per assicurare la governabilità in un momento per di più delicatissimo. E lo trova disponibile. Berlinguer promette l’astensione del gruppo parlamentare comunista e l’esempio del PCI, seguito da tutti gli altri partiti, assicura la sopravvivenza a un governo monocolore democristiano”.
Nascerà come vedremo il governo della non-sfiducia sotto la guida di Giulio Andreotti. Per i comunisti dovrebbe essere un primo passo per entrare nella stanza dei bottoni; ma la porta dell’esecutivo rimarrà chiusa. Otterranno solo di far parte della maggioranza governativa due anni dopo nel marzo 1978, al momento del rapimento di Aldo Moro, quando la sfida lanciata dai terroristi allo Stato democratico spinge Berlinguer a scegliere la strada della solidarietà nazionale.
[1]Perseverando ostinatamente la linea di fermezza in occasione del referendum sul divorzio, Amintore Fanfani il 27 maggio afferma che l’ingresso dei comunisti al governo porterebbe alla negazione della libertà del popolo italiano, perché tutte le vie nazionali al socialismo portano alla piazza Rossa.
[2]Anche i vescovi italiani intervengono: aprendo i lavori dell’assemblea plenaria della Conferenza Episcospale Italiana (CEI) il 17 maggio il cardinale Antonio Poma minaccia sanzioni canoniche contro i cattolici che si candidano, seppure da indipendenti, nelle liste del PCI. Il gesto, secondo il prelato, crea turbamento tra i fedeli e va contro le indicazioni dei legittimi pastori della Chiesa. Una settimana dopo il 22-23 maggio, chiudendo i lavori dell’assemblea della CEI, Paolo VI fa proprie le affermazioni del cardinale Poma. Il pontefice ignora le contestazioni e i distinguo emersi nel mondo cattolico, e pur senza minacciare sanzioni, parla di scriteriato pluralismo. Nel documento finale della CEI reso noto il 25 maggio I vescovi ribadiscono l’incompatibilità tra cattolicesimo e marxismo, minacciano sanzioni ecclesiastiche e invitano a votare unicamente per la DC. Il documento viene però approvato solo dalla metà dei suoi componenti
[3] Il 31 maggio in un’intervista il segretario del PLI, Valerio Zanone, pronuncia una forte autocritica per le passate alleanze con la DC. Il PLI si propone di avviare un dialogo con repubblicani e socialdemocratici, ma non esclude possibilità di azioni comuni col PSI nonostante le profonde differenze ideologiche.
[4] Il 28 maggio 1976 al termine di un comizio del MSI a Sezze Romano, scoppiano gravi disordini a causa della contestazione di militanti della FGCI e di Lotta Continua. Vengono sparati due colpi di pistola che uccidono un giovane comunista. Dell’omicidio è accusato l’on. Sandro Saccucci.
[5]L’8 giugno 1976 alle ore 13:30, a Genova le Brigate Rosse uccidono Francesco Coco Procuratore generale presso la corte d’appello di Genova insieme ai due agenti della sua scorta. Si tratta del primo omicidio legato al terrorismo rosso in Italia. Il giorno dopo, alcuni militanti delle Brigate Rosse, fra i quali Prospero Gallinari e Renato Curcio, durante lo svolgimento di un processo a Torino in cui erano imputati, rivendicano in aula l’omicidio del Procuratore Generale.
[6] Lo stesso 13 maggio 1976 a Milano, Radio A, nata per iniziativa dell’arcivescovado, comincia a trasmettere con una certa regolarità. L’emittente è diretta da don Gregorio Valerio. Il capitale è costituito dalle quote versate da cittadini di area cattolica. L’emittente serve solo l’area di Milano.
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