Bruno Somalvico
Direttore editoriale di Democrazia futura
Bruno Somalvico, nel suo settimo contributo della storia del sistema radiotelevisivo misto, analizza gli effetti della terza sentenza della Corte Costituzionale n. 202 depositata il 28 luglio 1976 e in primis “L’invito della Corte Costituzione al legislatore a regolamentare l’emittenza radiotelevisiva”. Consentendo agli operatori privati l’installazione e l’esercizio di impianti di radiodiffusione sonora e televisiva “di portata non eccedente l’ambito locale” , “equiparando il sistema di trasmissione via cavo a quello via etere e creando una fascia liberalizzata in potenziale contrapposizione con il sistema pubblico, la sentenza crea le premesse per l’apertura del mercato”, facendo dell’Italia “Il laboratorio per la deregulation in Europa”. Il contributo analizza la reazione negativa della Rai “che rimane come Giano bifronte, metà servizio, metà impresa”: “Questo carattere bicefalo appare evidente analizzando la programmazione che risponde certamente ai vecchi criteri di gradimento del pubblico oltre che di assolvimento della propria missione di servizio pubblico ma contemporaneamente acquisisce una mentalità competitiva facendo emergere una volontà tenace da parte delle singole reti e testate di voler raggiungere fette crescenti di telespettatori e quindi di voler sempre più competere anche sugli ascolti”.
I primi sforzi di rottura del monopolio pubblico operati da alcuni operatori che avevano dato vita ai primi tentativi di televisione locale via cavo, rimarranno vani nonostante le prime due sentenze della Corte Costituzionale a causa della miopia ribadita dal legislatore.
Il regolamento di attuazione della legge 103 del 1975 conferma infatti l’imposizione del cosiddetto “cavo monocanale”, attribuendo al gestore del circuito la possibilità di trasmettere esclusivamente il proprio canale.
Infine la legge prevede una normativa per la ripetizione dei segnali esteri, ma a condizione di depurarli degli spot1. Fatto costoso e che non potrà mai essere applicato.
Un primo chiarimento alla situazione venutasi a creare giungerà con una terza sentenza, la n. 202, depositata dalla Corte Costituzionale il 28 luglio 19762. Essa limiterà il monopolio pubblico del servizio alle trasmissioni in ambito nazionale, consentendo agli operatori privati l’istallazione e l’esercizio di impianti di radiodiffusione sonora e televisiva
“di portata non eccedente l’ambito locale”.
Tale decisione pronunciata dalla Corte Costituzionale nella sua riunione del 25 giugno e depositata un mese dopo, per l’appunto il 28 luglio 1976, verrà ribadita da una quarta sentenza della Corte, la n.148 del 14 luglio 1981. I giornali prima ancora che sia depositata ne individuano subito le novità i punti salienti. A favore della liberalizzazione – rivelerà Eugenio Scalfari ne la Repubblica il 3 luglio – votano undici giudici costituzionali, contro soltanto due:
“La Corte ha voluto punire i politici che hanno approvato e soprattutto gestito la riforma della Rai-Tv ignorando le precise condizioni poste dalla Corte stessa alla legittimità del monopolio pubblico radiotelevisivo: apertura delle trasmissioni alla collettività e garanzia di pluralismo e imparzialità dell’informazione”.
Con la sentenza del 1976, la Corte Costituzionale, appena un anno dopo l’approvazione della legge di riforma della Rai introduce la formula del cosiddetto “pluralismo interno”.
Il pluralismo interno riguarda principalmente la RAI e consiste
“nell’obbligo di dar voce al maggior numero di opinioni politiche, sociali e culturali presenti nel paese”,
secondo l’interpretazione della Corte Costituzionale.
Questa forma di pluralismo si applica ai soggetti privati nel caso del principio della “par condicio” nella propaganda elettorale.
Il secondo tipo di pluralismo, cosiddetto esterno, si rivolge a tutti gli operatori del settore radiotelevisivo. Esso, secondo la Corte, riguarda
“la possibilità di ingresso nell’ambito dell’emittenza di quante più voci consentano i mezzi tecnici con la possibilità che nell’emittenza privata i soggetti portatori di opinioni diverse possano esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa di processi di concentrazione”.
Il pluralismo esterno, in termini pratici, consiste nella possibilità per i cittadini di poter disporre di fonti di informazione eterogenee.
L’invito della Corte Costituzione al legislatore a regolamentare l’emittenza radiotelevisiva
Contestualmente, dichiarando incostituzionale il monopolio per quanto concerne la trasmissione terrestre in ambito locale, la Corte Costituzionale invita il legislatore a reintervenire per regolamentare l’esercizio dell’attività privata a livello locale. La Corte, infatti,
“postula la necessità dell’intervento del legislatore nazionale” (ossia invita il Parlamento)
a stabilire quale organo dell’amministrazione dello Stato sia competente a
“provvedere all’assegnazione delle frequenze e all’effettuazione dei conseguenti controlli, e fissi le condizioni che consentano l’autorizzazione all’esercizio di tale diritto in modo che questo si armonizzi e non contrasti con il preminente interesse generale di cui sopra e si svolga sempre nel rigoroso rispetto dei doveri ed obblighi, anche internazionali, conformi a Costituzione”.
In particolare, prosegue la sentenza, si dovranno stabilire:
“a) i requisiti personali del titolare dell’autorizzazione e dei suoi collaboratori, che diano affidamento di corretta e responsabile gestione delle trasmissioni;
b) le caratteristiche tecniche degli impianti e la relativa zona di servizio, nonché la specificazione delle frequenze e dei canali utilizzabili;
c) l’esatta indicazione dell’ambito di esercizio, il cui carattere ‘locale’ deve essere ancorato a ragionevoli parametri d’ordine geografico, civico, socio-economico, che consentano di circoscrivere una limitata ed omogenea zona di utenza, senza, peraltro, eccessive restrizioni, tali da vanificare l’esercizio medesimo;
d) eventuale fissazione di turni ed adozione di ogni altro accorgimento tecnico, al fine di non turbare il normale svolgimento del servizio come sopra riservato allo Stato ai sensi degli art. 1 e 2 della citata legge n.103 del 1975 (la riforma della Rai, NDR) e di ogni altro servizio parimenti riservato allo Stato; ed al fine di rendere possibile il concorrente esercizio di attività da parte degli altri soggetti autorizzati;
e) limiti temporali per le trasmissioni pubblicitarie, in connessione con gli analoghi limiti imposti al servizio pubblico affidato al monopolio statale;
f) ogni altra condizione necessaria perché l’esercizio del diritto, previa autorizzazione, si svolga effettivamente nell’ambito locale e non dia luogo a forme di concentrazione o situazioni di monopolio o oligopolio”.
In realtà l’invito della Corte Costituzionale non verrà de facto recepito per un lungo periodo di tempo. Con un parlamento diviso fra fautori del mantenimento del monopolio alla Rai e sostenitori della liberalizzazione totale dell’etere, in assenza di accordi politici occorrerà aspettare 15 anni sino all’approvazione nel 1990 della Legge Mammì che disciplinerà la situazione venutasi a creare nel decennio successivo con la crescita di un polo televisivo commerciale destinato ad assumere rapidamente una posizione preponderante nel mercato pubblicitario.
Il laboratorio italiano per la deregulation in Europa
Queste tre sentenze approvate in Italia avranno grande ripercussione anche fuori d’Italia ed apriranno definitivamente la via della deregulation in Europa. La Legge di Riforma ribadisce la scelta operata nel secondo dopoguerra: monopolio, gestione in regime di concessione in favore di una società formalmente privata, finanziamento misto del canone e della pubblicità.
Seguendo i dettami delle due Sentenze del 1974, la Legge prevede un sistema misto via etere e via cavo, con una logica di compromesso fra il sistema pubblico ribadito in quegli anni da tutti gli Stati europei, e un sistema privato definitivamente adottato negli Stati Uniti.
L’Italia appare dunque un laboratorio.
La nuova Sentenza della Corte nel 1976 equiparando il sistema di trasmissione via cavo a quello via etere e creando una fascia liberalizzata in potenziale contrapposizione con il sistema pubblico, crea le premesse per l’apertura del mercato. L’emittenza privata si concentrerà così negli anni successivi verso aree ristrette e densamente popolate dove si possono ottenere maggiori ascolti ed elevati contratti pubblicitari, oltre ad accordi in materia di produzione e controllo delle singole emittenti locali sino a facilitare il loro collegamento su scala nazionale.
Anche per questo il telespettatore negli anni successivi acquisirà ben presto l’impressione che, uscendo dal monopolio, potrà finalmente operare una scelta fra più soggetti televisivi, azionando il suo telecomando. In realtà l’offerta, espandendosi sia sotto il profilo del numero dei canali che delle ore di trasmissione che rapidamente scoprono nuove fasce orarie mattutine e notturne sino ad arrivare a coprire l’intero arco della giornata, non conoscerà una vera e propria innovazione qualitativa.
La reazione della Rai che rimane come Giano bifronte, metà servizio, metà impresa
All’indomani dell’approvazione della Sentenza, il 26 giugno 1976, il presidente della Rai Beniamino Finocchiaro contesta la decisione della Corte intuendo i rischi di formazione di “un sistema oligopolistico alternativo”:
A prima vista -dichiara il nuovo presidente socialista della Rai – si possono fare le seguenti considerazioni:
1) In Italia, la Corte continua ad assolvere ad un ruolo che avrebbe dovuto essere proprio del Parlamento, e ciò in quanto, di fatto, l’intera legislazione radiotelevisiva viene modificata;
2) il nostro è il primo paese in Europa in cui avremo la legalizzazione del caos nel sistema radiotelevisivo;
3) avendo degradato a livello amministrativo un problema eminentemente politico nessun rigore legislativo potrà più tutelare il monopolio pubblico e quindi il diritto di accesso a tutti i cittadini, a tutte le comunità e di tutte le istituzioni al mezzo televisivo;
4) è capzioso sostenere il concetto che la dimensione locale può impedire la creazione di un sistema alternativo: la territorialità delle iniziative, infatti, non potrà impedire collegamenti mimetizzati o articolati che in concreto consentono un sistema oligopolistico alternativo.
La reazione della Rai di Finocchiaro a questa terza sentenza della Corte Costituzionale, a pochi mesi dalla costituzione nel mese di gennaio delle nuove “strutture centrali” e dall’avvio a metà marzo dell’attività di trasmissione delle nuove reti e delle nuove testate giornalistiche, è tipica di un’azienda che malgrado la volontà autentica di rinnovare mantiene riflessi e comportamenti tipici di chi detiene comode rendite di posizione derivanti dalla sua condizione di monopolio e non sembra certo disponibile a rinunciarvi facilmente. In effetti la nuova Rai rimane come Giano bifronte, metà servizio, metà impresa.
La legge di Riforma dell’anno precedente aveva riaffermato il carattere storicamente bicefalo dell’azienda. La Rai continua a subire una doppia marcatura sulle entrate: da un lato l’esecutivo mantiene il potere di determinare ogni anno l’ammontare del canone; dall’altro la nuova Commissione bicamerale di Vigilanza fissa un tetto annuo alla raccolta pubblicitaria sino allora limitata al 5 per cento della durata complessiva dei programmi a tutela della carta stampata.
Ma non solo. L’ampliamento dei poteri della Commissione di Vigilanza favorisce quella che è stata definita una “Polarizzazione politico-istituzionale”.
Come aveva chiarito la Commissione di Vigilanza il 30 aprile 1976
“il criterio della completezza dell’informazione va inteso nel senso che, entro un arco ragionevole di tempo, tutte le forse parlamentari abbiano occasione di essere intervistate; e quello dell’imparzialità va inteso nel senso di un’alternanza fra le forze stesse, tenendo conto della rappresentatività politica di essere”.
Le richieste di chiarimenti da parte della Commissione saranno sistematiche e continue e porteranno alla creazione presso la segreteria del Consiglio di Amministrazione di un settore ad hoc, la Verifica sui programmi trasmessi, con il compito di verificare la congruenza dell’informazione ai principi di obiettività, di imparzialità e di rappresentanza di tutte le forze politiche e sociali.
Questo carattere bicefalo appare evidente analizzando la programmazione che risponde certamente ai vecchi criteri di gradimento del pubblico oltre che di assolvimento della propria missione di servizio pubblico ma contemporaneamente acquisisce una mentalità competitiva facendo emergere una volontà tenace da parte delle singole reti e testate di voler raggiungere fette crescenti di telespettatori e quindi di voler sempre più competere anche sugli ascolti. Nonostante l’introduzione di nuovi programmi contenitore lungo tutto l’arco pomeridiano della domenica, la programmazione rimane infatti in questi anni di transizione, a forte vocazione culturale, ma sono ormai del tutto evidenti i caratteri del cosiddetto specifico televisivo.
I programmi televisivi sono sempre più distinti da quelli della radio e ormai del tutto affrancati da qualsiasi forma di tutela da parte del cinema, del teatro, della letteratura o, per quanto riguarda la critica e l’informazione, da parte di tutto il giornalismo proveniente dalla carta stampata. Come tali i programmi televisivi offerti dalla Rai pertanto non costituiscono una mera alternativa agli spettacoli dal vivo offerti al di fuori delle mura domestiche, ma vengono mandati in onda negli orari più appropriati al fine di contendersi gli spettatori sempre più numerosi che possiedono ormai un televisore in casa.
- La legge 103 autorizza, previa approvazione ministeriale, la ripetizione sul territorio nazionale dei segnali di televisioni estere, che non risultino però costituite allo scopo di diffondere i programmi in Italia e a condizione di depurarli degli spot. ↩︎
- Vedine un estratto in Le Tv invisibili- Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia a cura di Flavia Barca, op. cit [l’estratto si trova nella terza appendice “Normativa dell’emittenza radiotelevisiva locale in Italia” alle pp. 263-266]. ↩︎
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