Bruno Somalvico
Direttore editoriale di Democrazia futura
Nel suo nono contributo Somalvico affronta il dibattito a cavallo fra l’estate e l’autunno del 1976 sul tema ” Pro o contro un sistema radio-televisivo misto”. Mentre assistiamo a “La nascita delle prime concessionarie per la raccolta di pubblicità locale”, dietro a “La prima denuncia di rischio del Far west in assenza di una normativa di disciplina dell’etere” che troviamo in vari articoli nei principali quotidiani italiani si nasconde il desiderio da parte dei principali gruppi editoriali nazionali di essere protagonisti di un nuovo sistema misto, formato sia da emittenti pubbliche sia da nuove emittenti private. Come denuncerà pochi mesi più tardi nel volume L’antenna dei padroni, Francesco Siliato osserva come “Le ‘antenne libere’ sono il veicolo attraverso cui la borghesia potrà finalmente mettere direttamente le mani sulla radio e sulla televisione. La fase ‘eroica’ delle antenne libere volge al tramonto. Le difficoltà di finanziamento, di gestione pubblicitaria e di produzione dei programmi già operano nel senso della loro concentrazione: anche se gli oligopoli dell’informazione finora non hanno fatto mosse decisive, in attesa che venga fissata una regolamentazione legislativa che definisca e protegga i loro interventi”. Ciò avviene mentre con i nuovi palinsesti autunnali prende sempre più corpo la competizione sugli ascolti televisivi fra il primo e il secondo canale della Rai e nascono nuove tipologie di programmi e contenitori di successo.
La nascita delle prime concessionarie per la raccolta di pubblicità locale
Il momento più importante dello sviluppo dell’iniziativa privata nel settore radiotelevisivo coincide con la scoperta delle possibilità di sfruttamento del potente mezzo di comunicazione da parte della pubblicità locale. La grande pubblicità era stata completamente gestita dai mezzi “classici”: stampa, RAI, cinema, affissioni, a tutto vantaggio dei prodotti a distribuzione nazionale. La pubblicità locale, invece, era rimasta a latere, quasi del tutto sconosciuta. Ed è stata proprio questa a riversarsi sulle radio e sulle televisioni private: cioè la pubblicità dei negozianti, delle piccole e medie industrie, rivelatasi subito un “mezzo-supporto” ideale per le micro attività industriali e commerciali: accedere al mezzo radiotelevisivo diventa conveniente per il piccolo e medio utente che veda il suo prodotto subito reclamizzato (anche la tempestività della messa in onda ha la sua importanza) nel proprio territorio di gestione economica. Ecco, quindi, negli anni 1976-1977, nascere le prime concessionarie per la pubblicità dell’emittenza privata. Già da tempo la maggior parte di esse operava nel mondo della carta stampata e trova ora, nel nuovo mezzo, una naturale espansione della propria attività. Ma fin dai primi mesi è evidente che, sebbene il supporto radiotelevisivo sia valido, lo sforzo che fanno non ha assolutamente un riscontro adeguato: le emittenti, nate così all’improvviso, sono carenti sotto il profilo sia tecnico sia produttivo; mancano, inoltre, organizzazioni capillari locali per il reperimento della pubblicità e c’è il problema della realizzazione del fumato contenente il messaggio pubblicitario. Infine, lo spot ha bisogno del “supporto-programma”: se questo non è valido, se cioè non ha ascolto, anche il messaggio non circola.
Come osserva Enrico Menduni
“Poiché il carattere locale delle tv private appariva sempre come un vincolo, con il limite di poter trasmettere di appena 15 chilometri, i privati misero a punto varie strategie per arginare l’ostacolo. Le tendenze sono tre: 1) coordinare la presenza televisiva in varie città; 2) gli editori della carta stampata costruiscono sinergie coni loro giornali. Rusconi nel giro di un anno apre 5 emittenti (1976), mentre Mondadori si mette a produrre documentari e programmi culturali. 3) Rizzoli tenta di riproporre una tv estera, Tivumalta, ritrasmettendo in Italia i programmi. Per ragioni oscure le trasmissioni non partiranno mai. Rizzoli inizia la sua carriera come editore, comprando nel 1974 il Corriere della Sera e tante altre testate in Italia”.
La prima denuncia di rischio del Far west in assenza di una normativa di disciplina dell’etere
Nell’agosto settembre 1976 un ampio dibattito si produce nell’opinione pubblica.
Il giorno di ferragosto, 15 agosto 1975, Stefano Rodotà interviene su La Repubblica con un articolo intitolato “La spinosa questione della libera antenna” evidenziando i nodi che vanno sciolti in tema di pubblicità, essenzialmente due, ovvero da un lato l’esigenza di fissare tetti sulla raccolta pubblicitaria anche per le nuove emittenti locali, dall’altro di rendere effettivo l’oscuramento da parte dei “ripetitoristi” della pubblicità trasmessa dalle emittenti estere radiodiffuse:
“La liberalizzazione delle radio e TV locali ha dato piena cittadinanza ad un altro agguerrito concorrente della torta pubblicitaria, anche se la corte si è preoccupata di ribadire il principio del 1974, affermando che pure per le emittenti locali dovranno essere fissati tetti per la pubblicità. In attesa che quest’ultimo punto venga regolato dalla legge che disciplinerà l’intera materia delle radio e delle televisioni libere, è indispensabile che il gruppo di lavoro della Commissione parlamentare tenga conto di questo fatto nuovo, fissando i limiti alla pubblicità radiotelevisiva in modo da contemperare gli interessi non più di due (stampa e Rai- Tv) ma di tre concorrenti. In realtà – aggiunge Rodotà – c’è un quarto concorrente di cui sembra quasi dimenticata l’esistenza: le televisioni cosiddette straniere (Capodistria, Montecarlo, Svizzera Italiana, in prospettiva Malta e altre ancora), i cui incassi per la pubblicità di prodotti industriali italiani sono già cospicui e crescenti. Qui non esiste alcun bisogno di leggi nuove. La legge di riforma del 1975, ammettendo la diffusione a mezzo di ripetitori dei programmi di tali stazioni, ha tassativamente vietato la trasmissione della pubblicità. Tecnicamente non esiste alcun problema per ‘oscurare’ i programmi nel momento in cui vengono trasmessi i brani pubblicitari. Parchè allora non si fa rispettare quel chiarissimo divieto? (…). Sulla disciplina delle trasmissioni straniere sarà forse bene che il Parlamento ritorni quando si occuperà delle emittenti locali, per evitare che, attraverso stazioni installate proprio al di là dei confini, venga aggirato il divieto alla creazione di reti radiotelevisive libere a carattere nazionale (…). È indispensabile che una legge venga approvata al più presto – conclude Rodotà – Già oggi siamo in una situazione a metà tra il caos e la giungla, dalla quale possono avvantaggiarsi sono i più forti e i più organizzati, che cercano di sfruttare la libertà d’antenna per far nascere nuove e più pesanti forme di monopolio dell’informazione. Per evitare ciò, bisogna che il futuro regime dell’autorizzazione delle emittenti locali privilegi i gruppi espressivi di esigenze effettivamente locali e di interessi ‘pluralistici’; che gli organismi competenti per l’autorizzazione siano gestiti democraticamente, e non ‘penetrabili’ dagli interessi più forti; che esista un severo regime di controlli e una precisa regolamentazione dei casi di revoca dell’autorizzazione.
Cinque giorni dopo, il 20 agosto 1976 il quotidiano di Eugenio Scalfari riferisce:
“Il dardo lanciato da Angelo Rizzoli al cuore del monopolio televisivo statale ha fatto centro. Telemalta ha cominciato a trasmettere i suoi programmi, limitati, per ora, solo a qualche scarno notiziario in italiano sul secondo canale maltese (…) Ancora per qualche settimana Tele-Malta si potrà vedere solamente in Sicilia e, con molta difficoltà, in qualche zona dell’Italia meridionale. Ma già da tempo i tecnici stanno studiando un progetto di ripetitori che permetterà di ricevere Tele-Malta in tutte le case d’Italia”
Per parte sua il 23 agosto 1976 In un articolo su La Stampa Carlo Sartori sostiene che
Il monopolio radiotelevisivo, di fatto, non esiste più. se alle televisioni straniere ricevibili in parecchie zone della penisola si aggiungono le circa 50 TV indipendenti e le oltre 600 radio libere sparse in ogni città, si ha una precisa idea di come l’originaria ‘riserva allo Stato delle trasmissioni circolari via etere’ sia già perfettamente vanificata. Secondo studi condotti dallo stesso Sartori all’università di Stanford, California, “in un settore industriale ad alta tecnologia quale è quello dei mezzi di comunicazione, la liberalizzazione conduce inevitabilmente al suo opposto, ossia ad una concentrazione”. Trasferendo “queste linee di sviluppo – prosegue Sartori – nella realtà sociologica italiana ci si trova di fronte ad una ‘anomalia’ così importante che ci costringe ad inserirla come variante in un processo. È la presenza, nel nostro paese, di un monopolio radiotelevisivo diverso da quello esistente in molti stati europei, un monopolio che, per oltre vent’anni è stato feudo incontrastato dell’affossatore regime democristiano e che oggi, al di là della retorica della riforma, si è semplicemente spaccato lungo le linee precostituite di una bieca lottizzazione interpartitica; un monopolio che neppure l’ingresso del PCI nell’area di governo potrà strutturalmente cambiare (…)
Di fronte a questo stato di cose, la liberalizzazione radiotelevisiva, pur con tutti i suoi pericoli, può giocare un ruolo importante e delicato: può metter con le spalle al muro il monopolio, costringere i partiti ad abbandonare il frusto schema del ‘do ut des’ per tentare una vera ‘rivoluzione’ del nostro sistema comunicativo; può sortire un effetto ‘triggering’, detonatore, su una spirale inarrestabile di positive innovazioni.
I servizi pubblici sono messi sotto accusa perché considerati portatori di una cultura sorpassata e conservatrice, manipolata da un “pedagogismo di regime” e da operazioni di sostegno politico al gruppo dirigente, mentre si saluta il privato come un nuovo regno di libertà, democrazia, pluralismo, accesso.
Da questa posizione muovono sia i partiti dell’estrema sinistra, che sperano in questo modo di costruire spazi di espressione alternativi al monopolista pubblico (in Italia a metà degli anni Settanta assistiamo ai primi esperimenti di radio e televisioni “libere”, cioè portatrici di valori culturali e sociali nuovi, spesso fondate sul volontariato e rappresentative di minoranze politiche), sia quei politici e quegli imprenditori che, avendo colto i segnali di mutamento sociale, tecnologico, economico negli altri paesi europei, intravedono in uno scenario “aperto” nuovi mercati da presidiare.
Due giorni dopo Il 25 agosto 1976 Guido Credazzi sul Corriere della Sera analizza
“La lunga guerra per le antenne. Si decide in tribunale e può arrivare o il caos”
Il 31 agosto un altro articolo del quotidiano milanese descrive
“Roma piena d’antenne dappertutto. Roma sembra presa d’assedio da una vera cortina di stazioni televisive private. Ce ne sono cinque, ma già ufficialmente presenti, e saranno sei a giorni con Tele Malta” che coprirà anche buona parte del territorio nazionale”.
Grazie alla terza Sentenza emessa dalla Corte la televisione “via etere”, ovvero radiodiffusa utilizzando frequenze terrestri, diventa la soluzione preferita dall’iniziativa privata. Un po’ in tutta Italia nascono televisioni che trasmettono su reti terrestri, concepite dai “ripetitoristi”, piccoli imprenditori che si erano specializzati nella gestione di impianti per ritrasmettere le televisioni straniere. La televisione via cavo, di fronte alla semplicità dell’etere, viene abbandonata[1].
In questo clima il 3 settembre si svolge a Venezia il convegno Riforma della Rai e sentenza della Corte costituzionale, in cui vengono espressi punti di contatto tra la posizione del PCI, del PSI e della DC, generalmente per ribadire la legittimità del monopolio su scala nazionale. Ma è ormai del tutto evidente che la posta in gioco è un’altra, ovvero quella di creare un regime di concorrenza sul mercato pubblicitario raccolto non solo in ambito locale, ma anche e soprattutto su scala nazionale.
Il 10 settembre 1976 Angelo Rizzoli annuncia ufficialmente che sta allestendo nell’isola di Malta una nuova emittente, che raggiungerà in un primo tempo l’Italia meridionale, poi le grandi città industriali del Nord. Come chiarisce al quotidiano La Repubblica:
La società Tivumalta è al 50 per cento di Rizzoli, tramite la Siee, e al 50 per cento del governo maltese. Inizialmente utilizzerà, a pagamento, le attrezzature di Tivumalta, la stazione televisiva dell’isola (con un raggio di diffusione limitato”, e successivamente ne creerà di proprie. I programmi e la gestione saranno forniti a Tivumalta dalla Siee, gratuitamente. La Siee si è impegnata, inoltre, a impiantare da sola altre attrezzature e altri ripetitori necessari in Italia. Ma anche il capitale di Tivumalta, in realtà, è interamente di Rizzoli. Come ha tenuto a far capire Dom Mintoff, il governo maltese non tirerà fuori neanche un quattrino per la sua partecipazione del 50 per cento. Questi sono infatti i termini economici e operativi dell’accordo: entro 2 anni la Siae verserà 1 milione di sterline maltesi (due miliardi di lire) per la realizzazione delle attrezzature nell’isola; Malta metterà a disposizione il terreno per gli impianti e la licenza, valutati esattamente la stessa cifra.
Quattro giorni dopo l’insediamento di Bettino Craxi a segretario del PSI, il 22 settembre 1976: Eugenio Scalfari dedica al tema televisivo un commento intitolato “Sventola il tricolore su Malta e Montecarlo”.
“Per chi, come il sottoscritto, da anni è convinto che il monopolio radiotelevisivo sia giuridicamente insostenibile, moralmente e politicamente indifendibile e tecnicamente superato, la notizia non è di quelle che inducono alle gramaglie. Questo monopolio ci ha dato assai più inconvenienti che vantaggi; doveva tirar le cuoia da almeno cinque anni; è sopravvissuto a sé stesso; prima se ne sgombrerà il campo, meglio sarà.
Ma ciò detto, restano almeno tre problemi: 1) che fare della Rai; 2) come organizzare gli spazi radiotelevisivi disponibili per la concorrenza; 3) come impedire che essi siano ‘accaparrati’ da oligopoli politici ed economici che frustrerebbero il dettato costituzionale.
Sul primo punto con c’è molto da strologare: la Rai può svolgere un utilissimo ruolo di ‘paragone’ né più né meno di quanto accade in Gran Bretagna con la Bbc, cercando possibilmente d’essere competitiva sul mercato in termini di costi e di qualità di servizi. Il secondo e il terzo punto – aggiunge il direttore de La Repubblica -richiedono un discorso assai più complesso, che ci ripromettiamo di approfondire nei prossimi giorni. Per ora si può dir questo: essendosi accorta che all’interno della Rai non poteva fare più il bello e il cattivo tempo, la DC ha pensato bene di incoraggiare due esperimenti ‘extra moenia’.
Uno è Telemontecarlo, gestito da Indro Montanelli, che serve ad ancorare alla Dc la ‘maggioranza silenziosa’; l’altro è appunto la rizzoliana Telemalta, che dovrebbe servire a mantener agganciata la clientela democristiana dislocata tra Piccoli e Zaccagnini. Entrambe le reti fanno perno su pubblicità illegale, consentita da colpevoli tolleranze del governo. D’altra parte Rai, Montecarlo e Telemalta, sommate insieme, scateneranno una tale ‘bagarre’ sul mercato pubblicitario da mettere per terra quel poco che ancora resta dell’editoria giornalistica, ad eccezione ovviamente dei giornali di Rizzoli agganciati a Telemalta e del Giornale di Montanelli agganciato a Montecarlo. Il progetto, non c’è che dire, è ben pensato. Mi piacerebbe proprio di conoscere in proposito l’opinione di Craxi, di Berlinguer e di La Malfa. Gli va bene quanto si sta preparando? E se non gli va bene, che cosa pensano di fare? Organizzeranno dibattiti ai festival dell’Unità e dell‘Avanti!? O si dichiareranno paghi del fatto che su Telemalta e Telemontecarlo sventola il tricolore?”
Due giorni dopo, 24 settembre 1976, è la volta de il Corriere della Sera che, in un articolo non firmato dal titolo “Non è tempo da Far West”, si occupa del futuro assetto del sistema televisivo.
“L’Italia potrà scegliere la soluzione della proprietà pubblica, o quella della proprietà privata: in un caso e nell’altro, l’essenziale è la corretta applicazione. Un sistema misto, come quello vigente in Inghilterra, dove accanto alla BBC opera una televisione commerciale, regolata da norme precise e limitative, è forse il migliore, perché garantisce il regime di concorrenza fra i vari canali. Ogni soluzione sarà comunque preferibile all’attuale situazione da Far West, in cui si va alla conquista di frequenze come si andava, nelle praterie americane, alla conquista di nuovi territori. Si abbia il coraggio di scegliere: nella speranza che la graduale maturazione della società italiana corregga gli eventuali errori e renda più limpidi, nel senso morale, i teleschermi”
I maggiori quotidiani nazionali prendono posizione sulla questione televisiva. Il Corriere della Sera il cui azionista è promotore di Tele Malta, si schiera dunque a favore di un sistema misto come nel Regno Unito, con emittenti sia pubbliche sia private. Per parte sua, Eugenio Scalfari ne La Repubblica il 25 settembre 1976 propone
“di suddividere il territorio nazionale in una serie di aree o gruppi di Regioni, appaltando le relative reti a società concessionarie formate dai giornali e dagli Enti locali”
in modo che le redazioni giornalistiche abbiano diritto di prelazione sulle emittenti locali[2].
A questo proposto Francesco Siliato osserverà pochi mesi dopo nell’introduzione “Critica della ‘libertà d’antenna’” al suo saggio L’antenna dei padroni:
“Le ‘antenne libere’ sono il veicolo attraverso cui la borghesia potrà finalmente mettere direttamente le mani sulla radio e sulla televisione. La fase ‘eroica’ delle antenne libere volge al tramonto. Le difficoltà di finanziamento, di gestione pubblicitaria e di produzione dei programmi già operano nel senso della loro concentrazione: anche se gli oligopoli dell’informazione finora non hanno fatto mosse decisive, in attesa che venga fissata una regolamentazione legislativa che definisca e protegga i loro interventi. Il progetto è stato comunque esposto con grande chiarezza: abbinare le emittenti radiotelevisive ai giornali […] è il progetto che L’Espresso–La Repubblica di Scalfari–Caracciolo–Mondadori sta promuovendo con il significativo appoggio di Giovannini, presidente della Federazione degli editori, e. non a caso proveniente dalla finanziaria editoriale degli Agnelli, come lo stesso Caracciolo. È evidente – conclude Siliato – che, in una situazione di avanzata concentrazione delle testate, l’abbinamento giornali-emittenti locali non può che condurre alla formazione di catene integrate multimedia, cioè di oligopoli ‘verticali’ che controllano le diverse fasi di produzione e distribuzione dell’informazione”[3]
Nel frattempo comincia a precisarsi la competizione sugli ascolti fra le due reti televisive della Rai. Per rispondere al successo de l’Altra domenica su Rete2, su Rete1 il 3 ottobre 1976 Parte Domenica in …, programma contenitore che intrattiene i telespettatori dalle 14.00 alle 19.50 con spettacoli vari e sport. Presenta Corrado con la regia di Lino Procacci. Fra due anni festeggerà mezzo secolo di vita. Fra le altre novità autunnali del suo palinsesto, dal 18 ottobre 1976 Rete1 trasmette in diretta in seconda serata dallo Studio 11 di Roma il primo talk show trasmesso sulla televisione italiana. Maurizio Costanzo riceve i suoi ospiti nel salotto di Bontà loro. Andrà in onda per settanta puntate ogni lunedì alle 22.40.
A partire dal 25 ottobre 1976, dopo il graduale avviamento, i nuovi palinsesti televisivi avviati a metà marzo vengono definiti negli schemi orari unificati 12.30-14.00 e 17.00-23.30. Nasce in questi spazi sulla seconda rete l’edizione meridiana del telegiornale “TG2 ore tredici”. In questa data fa il suo esordio anche su Rete1 la rubrica pre-serale “Almanacco del giorno dopo”.
A partire dal 20 novembre 1976 alle Sedi RAI delle Regioni a statuto ordinario sono concesse, due ore giornaliere di trasmissione radiofonica. Nel corso del mese di dicembre infine sono introdotte a titolo sperimentale trasmissioni televisive regionali limitatamente alla Lombardia e alla Campania: il 15 dicembre In Lombardia, per la prima volta in Italia, vengono avviate delle trasmissioni a carattere regionale nella fascia dalle 14.30 alle 23.30.
Il 1976 si conclude con la fine delle trasmissioni di Carosello.
[1] La stessa Telebiella in seguito passa alla trasmissione via etere. A sfavore della televisione via cavo, rispetto a quella via etere, c’era il maggior costo della rete per telecomunicazioni necessaria, ma anche limiti tecnologici dell’epoca che non permettevano di ovviare alla degradazione del segnale televisivo nelle lunghe distanze se non a costi insostenibili per le realtà imprenditoriali interessate dell’epoca.
[2] Eugenio Scalfari “Antenne libere o televisioni corsare?”, La Repubblica, 25 settembre 1976
[3] L’intera introduzione è stata riprodotta in appendice al volume a cura di Flavia Barca, Le tv invisibili. Storia ed economia del settore televisivo locale in Italia, Roma, Rai ERI, 2007, XVIII-515 p. [vedi alle pp. 193-200. Il passo citato è a p. 197.
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