Ne il Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto il filosofo italiano Umberto Galimberti dedica alcune ampie sezioni al complesso tema dei rapporti tra arte e religione. Il filosofo riconosce che il «rapporto tra arte e religione è strettissimo», sebbene molti oggi tendono facilmente a dimenticarlo. In effetti basterebbe considerare l’architetture delle chiese contemporanee, osserva giustamente Galimberti, per rendersi conto che esse vengono progettate e costruite in ottemperanza al dominante principio di pura funzionalità. Inoltre, continua il filosofo, l’architettura contemporanea «ha in certo qual modo del tutto desacralizzato, coinvolgendo nel processo di desacralizzazione sacerdoti e fedeli […] i quali affogano in noiosissime nenie recitate in italiano» (p. 312). Secondo Galimberti la religione dovrebbe invece procurare una mobilitazione degli affetti, causare cioè una forte e intesa scarica emozionale nei fedeli per vivificarne la partecipazione liturgica. A Galimberti preme, in altre parole, sottolineare che la fede debba evitare di diventare «un puro esercizio della volontà, incapace di coinvolgere sensibilità e sentimento». Trascurando l’estetica, continua il filosofo:
La religione rischia di oscillare paurosamente tra una resa incondizionata alla ragione moderna e un abbandono senza riserve a un sentimento che non sprigiona alcuna forza, ma solo parole consumate anche per la consolazione. (p. 313).
Un altro passo di Galimberti merita di essere citato a conclusione di questa assai sintetica ricostruzione del suo pensiero su questo punto:
“Estetica” è composizione del dato e di ciò che lo trascende, ma perché un’intelligenza possa trascendere è necessario che una passione la diriga. E coltivare la passione muovendo i delicatissimi tasti della sensibilità, è faccenda tipicamente estetica e a un tempo religiosa. (p. 314).
Si potrebbe dire (coerentemente all’ispirazione complessiva del suo pensiero) che le tesi di Galimberti circa il rapporto tra arte e religione ricalcano molto una prospettiva che potremmo definire greco-platonica. Galimberti non tiene conto, infatti, del fatto che l’estetica cristiana è sempre inquadrata in una dimensione relazionale e che per questo motivo la mobilitazione degli affetti di cui parla, che è una spinta interna all’uomo, da sola non è sufficiente al trascendimento dal piano del creato al piano del Creatore. La relazionalità di cui parlo, infatti, è sempre quella tra il fedele e Dio che, pur restando infinitamente distante dalle possibilità di intelligibilità della ragione umana, si fa comunque avvicinare e scrutare attraverso la bellezza che traluce dalle immagini ispirate, dall’arte sacra e, in definitiva, dal creato intero. Tuttavia, tale innalzamento dell’uomo alla ricerca della fonte del bello è lungi dall’essere, come invece lo intendeva Platone, un percorso totalmente umano. Esso è infatti un percorso reso possibile dalla fede e dalla carità e quindi dal rapporto della creatura col suo Creatore. Alla luce di questo rapporto la bellezza è si una strada percorribile dall’uomo, a patto però che egli sia infiammato dalla carità divina. Difatti al n. 10 della Sacrosantum Concilium si legge: «la rinnovazione poi dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’eucarestia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa». Se si ignora questo aspetto, peraltro centralissimo, della prospettiva cristiana si fraintende il nucleo stesso del cristianesimo, che consiste proprio nell’incontro tra l’uomo e Dio. Come infatti precisa lo stesso Ratzinger:
L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra (p. 17).
Da qui all’idolatria, infatti, il passo è brevissimo:
La danza intorno al vitello d’oro è l’immagine di questo culto che cerca se stesso, che diventa una sorta di banale autosoddisfacimento. La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi, in cui in definitiva non è più in gioco Dio, ma la costituzione, di propria iniziativa, di un piccolo mondo alternativo. (p. 19).
La mobilitazione degli affetti della quale parla Galimberti non è quindi sufficiente per creare le condizioni di quell’incontro con il Dio vivente che in fondo è l’essenza stessa del culto. La posizione di Galimberti ricorda molto la tesi del gesuita di Lione Jean Joseph Navatel (L’apostolat liturgique et la piété, «Études», 50, 1913, pp. 449-476) secondo cui «la liturgia è la parte sensibile, cerimoniale e decorativa del culto cattolico». È noto infatti che nel XVI secolo, ad opera soprattutto di sant’Ignazio di Loyola e della Compagnia di Gesù si verificò un divorzio radicale tra la vita liturgica della Chiesa (dimensione comunitaria) e la fede coltivata nella propria interiorità (dimensione individuale). Lo strappo deleterio tra queste due dimensioni della spiritualità umana (ricucito secoli dopo dalla Sacrosantum Conciulium n. 12) aveva sottratto all’actio liturgica il riconoscimento della sua dimensione di partecipazione reale all’azione di Cristo e quindi le aveva come sottratto il riconoscimento della sua efficacia per quanto concerne il suo scopo principale: la santificatio hominis. Anziché fons e culmen della Chiesa, la pratica liturgica era per Navatel una mera azione secondaria, priva di efficacia reale e quindi si collocava in secondo piano rispetto ad altre forme di apostolato come la predicazione.
In questo caso il rischio corso dalla liturgia, è ancora Ratzinger a precisarlo, è quello di diventare davvero «un gioco vuoto» o, peggio, «un abbandono del Dio vivente camuffato sotto un manto di sacralità» (p. 19). A mo’ di esempio Ratzinger fa riferimento alla grandiosa arte contenuta nelle splendide vetrate gotiche. Le finestre avevano infatti il duplice compito di trattenere la luce solare esterna, intensa e abbagliante, e la convogliano in fasci che illuminano «tutta la storia di Dio con gli uomini, dalla creazione fino al Suo ritorno» (p. 124). La parete delle cattedrali gotiche diventa, dunque, «Immagine». Tutto ciò è alieno da molte chiese contemporanee ma non solo per un mutamento dello stile architettonico bensì per una trasformazione dello spirito dell’uomo.
Il 13 settembre del 2006 Benedetto XVI si recò in Baviera, più precisamente nella Alte Kappelle di Regensburg. Alla presenza si suo fratello, mons. Georg Ratzinger, noto musicista, benedì il nuovo organo donato alla basilica di Nostra Signora della Cappella Vecchia. Durante il suo discorso, facendo riferimento alla Sacrosantum Concilium (n. 112), si è intrattenuto sul valore solenne della musica sacra nell’economia complessiva della liturgia, specificando che non si tratta di un mero abbellimento del culto, ma una modalità ben precisa di rendere onore e tributo a Dio. Scopo dei compositori, infatti, è quello di comporre «melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra e che possano essere cantate non solo dalle maggiori “scholae cantorum”, ma che convengano anche alle “scholae” minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli» (SC, n. 121). L’organo, in particolare, giustamente considerato come il re degli strumenti musicali, riesce a dare perfetta risonanza a tutti i sentimenti umani «dalla gioia alla tristezza, dalla lode fino al lamento». L’estrema eterogeneità dei timbri dello strumento in questione, dal «piano fino al fortissimo travolgente» lo rende capace di replicare tutti i suoni dell’universo. La musica prodotta dall’organo, conclude il Santo Padre, ci ricorda in qualche modo l’immensità delle infinite possibilità di Dio. Ne Lo spirito della liturgia, però, il discorso di Ratzinger si fa più ampio e preciso. Ad esempio molto interessante risulta la sua acuta osservazione sui pericoli del virtuosismo della «vanità della propria abilità» (p. 142). Invece il compositore (il riferimento è sempre a SC n. 112) deve preoccuparsi di conformarsi alla vera dottrina cattolica e deve preferire per i suoi testi la sacra Scrittura e le fonti liturgiche. La musica sacra, secondo Ratzinger, deve rispettare alcuni criteri, tre nello specifico:
- Innanzitutto essa deve far riferimento agli avvenimenti che hanno contrassegnato la venuta di Dio nella storia. Tali avvenimenti sono testimoniati dalla Bibbia e hanno il loro «centro immutabile nella Pasqua di Gesù: la croce, la resurrezione e l’ascensione»;
- Deve inoltre lasciarsi ispirare dal Logos: «la preghiera, in quanto tale, e, in modo particolare, il dono del canto e del suono che va oltre la parola, è dono dello Spirito, che è l’amore, che opera in noi l’amore e ci muove così al canto» (p. 146);
- Il nostro canto, specifica infine Ratzinger, è «partecipazione al canto e alla preghiera della grande liturgia che abbraccia tutta la creazione» (p. 148). Il nostro canto, cioè, deve allinearsi sempre ai cori celesti dei Cherubini e dei Serafini e finalizzarsi alla gloria di Dio;
La musica sacra, dunque, deve fuggire gli angusti spazi del soggettivismo e dell’egoistica vanità (entrambe piaghe del nostro tempo) e allinearsi al Logos universale, abbeverarsi allo spirito della liturgia che consiste nella partecipazione al mistero di Cristo e alla sua azione reale nel mondo e lodare la magnificenza di Dio. È questo il significato ultimo del «carattere cosmico della musica liturgica»: cantare con gli angeli (p. 151).
Mi avvio alla conclusione di queste modeste riflessioni con la piena consapevolezza che esse non hanno fatto altro che scalfire in superficie la complessa e ricca architettura teorica e sapienziale del testo di Ratzinger. D’altra parte è pur vero che, conscio dei limiti di questa riflessione, mi sono consapevolmente limitato a raccogliere soltanto alcuni degli spunti filosofici e teologici più significativi (almeno dalla mia prospettiva) con la ferma convinzione che ad ulteriori letture del testo di Ratzinger emergeranno – come sempre accade per i grandi classici del pensiero – ulteriori spunti e nuove sollecitazioni. In conclusione mi limito ad evidenziare il filo rosso che, a mio modo di vedere, lega perfettamente i capitoli della ed ultima parte del libro, dedicata alla Forma liturgica.
Ritengo che l’orizzonte concettuale che abbraccia le riflessioni della sezione finale del libro sia dato dall’inscindibile unione di materia e spirito del creato. Sembra questo un orizzonte ben lontano dal tema liturgico eppure, a ben riflettere, esso appare lo sfondo imprescindibile per cogliere la ricchezza del culto cristiano in tutte le sue forme. Il corpus dei paragrafi del secondo capitolo sono infatti dedicati ad un’analisi della gestualità liturgica a cominciare dal segno della croce, dell’inginocchiarsi, dello stare in piedi e del sedersi, della voce umana a finire agli abiti liturgici. Non è un caso che l’ultimo paragrafo che chiude il libro, dedicato alla materia, cominci con queste parole:
La liturgia cattolica è liturgia della parola divenuta carne – divenuta carne in seguito alla resurrezione. Ed è liturgia cosmica, come abbiamo visto. È chiaro quindi che in essa non solo il corpo dell’uomo e i segni del cosmo hanno una parte decisiva, ma anche la materia di questo mondo le appartiene. (p. 216).
La Creazione e l’Incarnazione costituiscono insieme il fondamento ultimo che dona dignità massima alla materia. La creazione è tale perché appunto genera ab nihilo tutto quanto ha l’esistenza (che in quanto tale non appartiene ha nessun ente in modo essenziale, bensì è partecipata dagli enti nella misura determinata dall’essenza propria). Anche la materia, dunque, ha origine dall’atto della creazione e porta con sé la bontà metafisica che contrassegna essenzialmente tutto ciò che dalla volontà di Dio ha ricevuto gratuitamente l’esistenza. La materia non preesiste allo spirito, come entità malvagia e invalidante. Essa, invece, è una dimensione fondamentale del creato, è perciò cosa buona. L’incarnazione, invece, nobilita la materia in quanto essa costituisce la destinazione ultima della donazione agapica di Dio, divenendo la sua dimora prescelta e quindi il luogo stesso della redenzione. Tutto ciò va a determinare quell’orizzonte concettuale al quale più sopra facevo riferimento, in base al quale il corpo stesso del fedele diventa non soltanto simbolo orante, ma realtà viva orante:
Il gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello appunto dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. […] L’adorazione è uno di quegli atti spirituali che interessano l’uomo tutto intero (p. 187).
Il fedele prega con la parola, ma prega anche con il corpo, comunicando con esso potenti significati. Pensiamo alla differenza sottile, eppure radicale, della prostratio, dell’inginocchiarsi e del cadere ai piedi. Gestualità simili, certo, ma allo stesso tempo diversi e in grado di veicolare significati storico-metafisico-teologici di grande importanza. Concludo dicendo che alla fine del libro di Ratzinger, dopo una lettura attenta ed analitica, emerge in modo preponderante il guadagno ultimo del Movimento Liturgico: la liturgia è davvero teologia. Se è vero, infatti, che in senso letterale la teologia è il logos su Dio e allo stesso tempo il logos di Dio, non c’è altro luogo oltre alla celebrazione liturgica in cui tale doppia definizione risulti maggiormente confermata.