Come si fa a diventare leggenda? Prima di tutto stabiliamo che cos’è la leggenda: è un racconto molto antico, come lo sono il mito o la favola, che diventa, nel tempo, patrimonio di un popolo, appartenente alla sua tradizione orale, mescolando, nella narrazione, il reale al fantastico. Le leggende raccontano della vita dei santi, o degli eroi popolari, e narrano le loro gesta, spesso amplificate dagli stessi oratori che le hanno tramandate. In seguito la parola acquistò un significato più esteso e oggi ‘leggenda’ indica qualsiasi racconto che presenti elementi reali, tramandati appunto per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la storia di un popolo, e per rinsaldare i legami storici di una comunità, come può essere quella dei musicisti di jazz, nel caso in particolare.
Non v’è dubbio alcuno che le gesta di Tony Scott siano entrate nella leggenda popolare, almeno quella che riguarda gli artisti e, nello specifico, i musicisti di jazz.
Ma di quali gesta parliamo? Chi scrive è stato testimone oculare e anche vittima di alcune di queste storie, memorabili e irripetibili. Mio figlio Luca le conosce tutte, perché, quando era piccolo, al posto delle favole, gli raccontavo le gesta di Tony Scott per farlo addormentare, arricchendole ogni volta di elementi nuovi, come usa fare chi tramanda oralmente.
Ho già avuto modo di dire che Tony era un uomo fondamentalmente buono, nel senso più infantile della parola; però in lui albergava anche un bambino cattivo, o forse solo dispettoso, e quando gli usciva fuori questo bambino erano guai seri per tutti quelli che gli stavano intorno.
Una delle prime storie di Tony che mi fece capire il suo carattere dispettoso, accadde nel tour americano che ci tenne impegnati negli Usa per un mese. Ma procediamo con ordine.
Nel novembre del 1972 andai negli Stati Uniti con Tony, Romano Mussolini e Franco Tonani alla batteria per una serie di concerti, e mi resi conto anche lì, nell’ambiente jazzistico newyorchese, che Tony Scott era visto come un personaggio scomodo e dal carattere difficile. Spesso, quando non avevamo impegni musicali, Tony mi portava in giro per locali di jazz, presentandomi di volta in volta ad artisti che per me erano miti assoluti. Conobbi personaggi come il grande trombettista Dizzy Gillespie, uno dei padri fondatori del be bop; o il pianista Earl Hines, detto “Fatha”, tra i grandi della storia del jazz, inventore del modo di suonare conosciuto come stride piano. Ma conobbi anche Thad Jones e Mel Lewis, che il lunedì sera, al Village Vanguard, tempio del jazz del quartiere omonimo, facevano suonare in maniera eccezionale un’orchestra di 17 elementi carichi di swing, con arrangiamenti fantastici; o il pianista Ahmad Jamal, considerato un grande innovatore, tanto da meritare appellativi come “Il profeta”, “Il maestro”, “L’architetto”, “Ahmad il magnifico”, “Il prestigiatore del piano”, “L’uomo con due mani destre”.
Una sera eravamo ad ascoltare proprio il trio di Ahmad Jamal in un locale che si chiamava “The needle’s eye”, la cruna dell’ago. Finito il concerto, Ahmad stava uscendo dal locale, quando venne letteralmente bloccato da Tony.
I due si conoscevano benissimo e si salutarono cordialmente.
Premessa d’obbligo: Ahmad Jamal è il suo nome musulmano, in realtà era nato come Frederick Russell Jones, poi convertitosi all’Islam nel 1950, quando aveva vent’anni, e assunto il nome di Ahmad Jamal. Con mio sommo stupore, assistetti a questo colloquio tra i due, ovviamente in americano slang, ma riuscii a capire benissimo tutto, anche grazie alle intonazioni. Ecco più o meno come si svolse il dialogo tra i due:
Tony: – Ciao Frederick, come stai? E’ da tanto che non ci vediamo! –
Ahmad: – Io non sono Frederick, io sono Ahmad! – rispose già incazzato.
Tony: – Non dire stronzate, ti conosco da anni, tu sei Frederick Jones, abbiamo suonato tanto insieme, vuoi che non mi ricordi? –
Ahmad (sempre più alterato): – Ma che cazzo dici? Io sono Ahmad Jamal, capito? Ahmad Jamal, e non rompermi i coglioni!
Tony, (insistendo dispettoso): – Ma lo so chi sei, a me non la racconti giusta, Frederick Russel Jones nato a Pittsburgh nel 1930. Mi ricordo bene di te, altro che Ahmad Jamal!
A quel punto ho visto il grande pianista avventarsi contro Tony e andargli sotto la faccia con i pugni serrati, urlandogli esasperato: “Io sono Ahmad Jamal, capito? Sono Ahmad Jamal!” Arrivarono i buttafuori del locale e, molto poco gentilmente, ci chiesero di uscire, mentre il povero Jamal continuava ad urlare il suo nome contro Tony.
Ritornando in albergo (Mac Alpin Hotel, sito tra la 33a e la 34a strada, Midtown Manhattan), Tony continuava a ripetermi ossessivamente che quello non era Ahmad Jamal, ma Frederick Jones, che lui lo sapeva bene, e che lo aveva smascherato, come se avesse cambiato nome per chissà quale inganno. Continuavo a dirgli che quello era il suo nome musulmano, che era una sua scelta religiosa, e che forse Tony l’aveva offeso.
Andammo a dormire nella nostra suite dell’albergo, con Tony che era convinto di chissà quale grande dispetto avesse fatto al povero pianista musulmano e che quello era sempre di più Frederick, (altro che Ahmad!).
La notte dormii poco. La scena alla quale avevo assistito quella sera mi ritornava nella testa continuamente. Capii, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che Tony era micidiale quando faceva uscire fuori il suo bambino dispettoso, e che quello sarebbe stato solo l’inizio di chissà quali altri guai.
A proposito della suite dell’hotel, ricordo che non era lussuosa, ma molto spaziosa, e aveva due grandi stanze da letto, una per me e l’altra per Tony, ma un solo bagno centrale, purtroppo per me.
La storia del bagno condiviso con Tony sarà argomento delle prossime gesta. (Continua)
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