LA QUESTIONE DELLE IMMAGINI

Riprendo in questo articolo la mia disamina del testo di Ratzinger “Lo spirito della liturgia” al quale ho già dedicato il mio ultimo contributo. Di grande interesse è tutta la sezione dedicata alla Questione delle immagini. Il presupposto metafisico e antropologico dal quale partire per poter meglio intendere la riflessione di Ratzinger su questo complesso tema è la dignità riconosciuta, nella prospettiva cristiana, alla dimensione corporale. Tuttavia, pur attestandosi in una dimensione nettamente antitetica a quella orfico-pitagorica e platonica – posizioni, queste, che hanno operato radicali svalutazioni del corpo – la prospettiva cristiana non è banalmente interpretabile come una sorta di rivincita della dimensione materiale. Nella materia traluce pur sempre l’impronta spirituale del divino e tutto assume cristianamente una valenza simbolica che rende irriducibile il mondo a interpretazioni di tipo materialistico.

La concezione tomista dell’uomo, divenuta nel tempo la dottrina ufficiale della Chiesa in materia antropologica, è in fondo un esempio calzante di come il filosofo cristiano possa valorizzare la dimensione carnale senza negare affatto una pluridimensionalità ontologica nell’essere umano. Anima e corpo sono sì divisi, ma soltanto sul piano concettuale, essendo invece, sotto il profilo ontologico, due dimensioni della medesima realtà. Sbaglierebbe però chi riducesse le riflessioni metafisiche e antropologiche dell’Aquinate ad un utilizzo esteriore della filosofia aristotelica. Esse, al contrario hanno la loro origine certa e illuminante nell’evento radicale dell’Incarnazione.

Con essa Dio è entrato nella storia, nella carne, in quella materia tanto deprecata dalla linea orfico-platonica, ma che soltanto nel pensiero cristiano assume una valenza ontologicamente positiva. Dio non ha creato soltanto le anime ma anche i corpi, e contemplando la sua creazione «vide che era cosa buona» (Gn 1,18 -25). Un’indagine sullo statuto delle immagini non può prescindere da questo quadro di riferimento. Difatti, come per il discorso antropologico, anche per le immagini – a rilevarlo è lo stesso Ratzinger (p. 118) – il riferimento ultimo e imprescindibile è ancora l’Incarnazione:

Solo quando si è compresa questa direzione interiore dell’icona, si può anche comprendere nel modo giusto perché il secondo concilio di Nicea e tutti i sinodi posteriori che hanno trattato delle icone vedono nell’icona una professione di fede nell’Incarnazione e considerano l’iconoclasmo come una negazione dell’incarnazione, come la somma di tutte le eresie. (p. 118).

Le immagini hanno avuto nella storia del pensiero cristiano un’evoluzione assai eterogenea. Ad esse è stata dapprima attribuita una funzione prettamente didattica nei Padri Cappadoci, e soltanto in seguito una funzione di sollecitazione emotiva profonda. Fu Gregorio di Nissa il primo a riconoscere ad un dipinto del sacrificio di Isacco «la capacità di provocare una profonda esperienza emotiva» (E. Kitzinger, Il culto delle immagini. L’arte bizantina dal cristianesimo delle origini all’iconoclastia, p. 104). Un terzo passo – è ancora Kitzinger a rilevarlo – è stato quello di riconoscere all’immagine una funzione mediatrice tra il visibile e l’invisibile (Dionigi Pseudo-Areopagita, De ecclesiastica hierarchia, I, 2). «Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza, lo creò a immagine di Dio» (Gen., 1,27). Anche nelle Scritture gli antichi scrittori trovano una conferma dell’importanza dell’immagine: l’uomo stesso, in fondo, è immagine di Dio.

È di tipo neoplatonico la linea che tali scrittori seguono: c’è una linea «non del tutto spezzata» che da Dio giunge all’uomo (o ai santi) e che dall’uomo arriva fino all’immagine. Essa è addirittura «un’estensione del divino atto della creazione» (E. Kitzinger, Il culto delle immagini, p. 11). Nel grande circolo dell’exitus e del reditus di cui parla Ratzinger nella prima parte del libro, l’immagine si pone come mezzo e veicolo nel quale la luce del divino permane come traccia, testimonianza teologica e richiamo al Fondamento. Con le immagini, inoltre, si può addirittura pregare:

L’immagine serve alla Liturgia; la preghiera e lo sguardo, in cui si formano le immagini, devono quindi essere preghiera e sguardo condiviso, in comunione con la fede vedente della Chiesa (p. 129).

Trovo assai significativa e stimolante l’espressione «fede vedente». Est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium, è questa la definizione di fede che si ritrova nella Lettera agli Ebrei e che Dante, nel ventiquattresimo canto del Paradiso, riprende in questi termini:

«Fede è sustanza di cose sperate

E argomento de le non parventi,

e questa pare a me sua quiditate»

Con le immagini sacre, ma si potrebbe dire con la liturgia in generale (ma di questo parlerò fra non molto) la fede diventa argomento di ciò che, invece, è parvente. A questo punto teologia ed estetica si incontrano e, in modo mirabile, lavorano sinergicamente consentendo a Dio di incontrare l’uomo e all’uomo di incontrare Dio, in un’esperienza di fede autentica e profondissima. Scrive Ratzinger:

La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’Incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile perché esso diventasse trasparente a Lui. Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio invisibile sono parte integrante del culto cristiano. […] Esse non possono mai mancare del tutto. L’iconoclasmo non è un’opzione cristiana.

Assolutamente imprescindibile in questa riflessione è il riferimento al tipo di visione necessario per cogliere il vero significato delle immagini poiché esse, spiega Ratzinger, «non sono delle fotografie». Pertanto, se la fotografia immortala una scena (una persona, un paesaggio, un momento) collocabile interamente nell’orizzonte della materialità, l’immagine sacra è naturalmente aperta alla dimensione della trascendenza. Essa, infatti, per essere ponte e canale verso la realtà divina non può prescindere da questo continuo rimando e da questa ambivalenza ontologica:

Dio ci cerca, là dove siamo, ma non perché rimaniamo là, ma perché giungiamo là, dove Lui è, perché ci innalziamo al di sopra di noi stessi. […] I sensi non devono essere eliminati, ma devono essere allargati alla loro massima possibilità (pp. 118-119).   

Se la teoria fondante l’iconoclasmo si basa su una teologia «unilateralmente apofatica» che mina alla radice la possibilità stessa di incontrare Dio nel concetto del pensiero e nella vividezza dei sensi. Allo stesso modo anche nel nostro tempo, definito come era delle immagini, Dio non si coglie affatto come realtà che traluce fin nell’orizzonte sensibile del creato. Le immagini, che passano continuamente sotto la nostra attenzione in forme caleidoscopiche e spesso assai arruffate, non hanno quella pregnanza che l’icona sacra, vero riferimento della sensibilità umana, riesce a trasmettere al credente. L’immagine sacra non è una semplice impronta sensibile su di un supporto, ma una sintesi mirabile di visibile e invisibile, di corporeo e incorporeo, di materiale e spirituale. Essa è, in definitiva, una mediazione tra immanenza e trascendenza speculare, nella forma della sintesi che realizza, a quella tra l’anima e il corpo nella realtà umana e tra natura umana e natura divina nella persona di Cristo. Tutto ciò trascende l’orizzonte spicciolo e umano della mera produzione tecnica e della commissione e si apre al grande evento dell’ispirazione. L’immagine sacra, proprio in quanto ponte metafisico tra il cielo e la terra, non può essere un’opera esclusivamente umana ma deve necessariamente essere ispirata da Dio. Con quest’ultimo inciso, necessario e profondo, Ratzinger chiude il grande capitolo dedicato alle immagini e con esso io desidero terminare il mio contributo:

L’arte non può essere prodotta, così come si commissionano e si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono. L’ispirazione non la si può decidere, la si deve ricevere – gratuitamente. Il rinnovamento dell’arte nella fede non sarà conseguito né con il denaro né con le commissioni. Esso presuppone, prima di ogni altra cosa, il dono di una nuova visione. Per questo tutti noi dovremmo essere preoccupati di giungere nuovamente a una fede capace di vedere. Dove questo avviene, anche l’arte trova la sua gusta espressione.

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